Gianni Cerasuolo
Dopo lo scudetto

Diversità napoletana

«La città non ha bisogno di riscattarsi da nulla. Tutti hanno qualcosa da riscattare, non solo i napoletani. E tutti hanno cose di cui vantarsi». Conversazione su Napoli, lo sport, l'identità partenopea con l'antropologo Marino Niola

Napoli elabora lo scudetto del calcio, arrivato dopo ventidue anni di dominio di Juve, Milan e Inter, prepara l’omaggio finale alla chiusura del campionato, il 4 di giugno e si interroga anche, un po’ preoccupata, sul futuro dei pezzi pregiati della squadra, da Kim ad Osimhen che molti ricchi club europei vorrebbero assicurarsi. Il sindaco Gaetano Manfredi ha parlato di «grande prova di maturità» della città per i festeggiamenti che continuano (e che pure hanno avuto, inevitabilmente per la gran massa di gente in strada, momenti critici). Paolo Sorrentino ha filmato nello stadio Maradona il pomeriggio vissuto da tifosi e squadra in occasione della partita con la Fiorentina, la prima dopo la certezza della vittoria, ed ha curato la regia della festa celebrata sul campo dopo la gara: «Penso che le feste andranno avanti ancora per un bel po’ – ha detto negli studi di Dazn – alcuni cominciano a dire basta e li capisco, ma per noi è ancora presto». Intanto il capoluogo continua ad essere al centro di iniziative tra una tappa del Giro d’Italia e, sul piano culturale, una nuova edizione del Maggio dei Monumenti che quest’anno sarà caratterizzata dalla visione della città dall’alto (“Napoli in vetta”).

Con Marino Niola, napoletano, antropologo, docente presso l’Università Suor Orsola Benincasa, firma di prestigio di Repubblica e di altri giornali, parliamo di questo momento della città e della vittoria in Serie A.

Marino Niola, foto di Laura Pietra

Professore, lei tifa Napoli?

Sì, molto. Seguo il calcio da sempre. E sono tifoso.

 Quindi pure lei è sceso in piazza a festeggiare?

Naturalmente. Sia dopo la partita di Udine che ha dato agli azzurri la certezza dello scudetto, sia dopo la gara con la Fiorentina. Io e mia moglie in strada con bandiera e trombetta.

Napoli è la città della gioia o degli eccessi?

È tutte e due le cose. Nel senso che Napoli pensa che la gioia non sia mai eccessiva e quindi non c’è nessuna forma di autocensura da questo punto di vista. Perché i napoletani sono epicurei e ritengono che ciascuno abbia una sorta di diritto alla gioia, nei limiti del possibile ovviamente. Non hanno nessuna paura nel mostrare i loro sentimenti, anche la gioia, e nel lasciarsi andare all’esplosione che abbiamo visto in questi giorni.

 Questo successo cambia la narrazione della città?

Può contribuire a cambiarla perché negli ultimi anni abbiamo visto una descrizione sempre in nero, che poi è una forma di oleografia perché non racconta veramente Napoli, ne dà una lettura solo in negativo. Però a questo fa riscontro la marea di turisti che riscoprono la città e capiscono che Napoli non è Gomorra. Già nei mesi scorsi abbiamo visto, ad esempio, tanti argentini venire qui, nella città di Maradona, e godersi la finale dei Mondiali. Tutto questo cambia e fa crescere il soft power della città. Come insegnano gli economisti il soft power, la buona reputazione, è una delle basi della buona economia.

I visitatori guardano a Napoli anche come un luogo di arte e scienza, di sapori e bellezza, di caos creativo e di accoglienza. Sono frasi di Giorgio Ventre, docente di sistemi per l’elaborazione dell’informazione alla Federico II, che, sul Mattino, ha parlato anche della città come un luogo della innovazione più spinta, dalla quale possono nascere le big thing, cioè le grandi cose, del futuro, grazie anche a quei ragazzi che hanno deciso di restare e di diventare protagonisti della rinascita. Non a caso lo scudetto è stato ribattezzato «il primo scudetto della generazione Kvaratskelia».

È un’analisi giustissima, quella di Ventre. I segni c’erano già da qualche anno. Il fatto che la Apple abbia scelto Napoli in Europa, mentre poteva preferire qualsiasi altra città che le avrebbe fatto ponti d’oro, è perché ha visto che qui c’è una creatività particolare, attrezzata per entrare nel futuro. Qualcosa che non richiede solo quantità ma anche qualità: vale a dire, sinapsi veloci e creatività. Questo non manca. È quello che sta succedendo, ad esempio, con le fiction, con il cinema. Ci sarà pure una ragione perché tutti scelgono Napoli. Questo luogo esercita una grande attrazione sull’immaginario globale anche per le sue caratteristiche di città antica e allo stesso tempo post moderna.

Eppure la città mostra ancora troppi segni di sofferenza. I servizi sono inadeguati; l’evasione e la dispersione scolastica raggiungono numeri allarmanti; il lavoro, quando si trova, è precario. I giovani scappano, appena possono. E la camorra spara, controlla il territorio e continua a fare affari…

Questa è una parte della realtà. Poi c’è anche una città che lavora e produce. Produce in parte con il sommerso in parte no. Comunque produce reddito ed ha una industria turistica che ha uno sviluppo impetuoso. Tutto ciò ci parla probabilmente della possibilità di un futuro migliore. Anche i servizi stanno cambiando. Fino a dieci anni fa la metropolitana sembrava un sogno, adesso è una realtà. Stanno mettendo sempre più treni per cercare di migliorare il servizio. E c’è un sindaco, Manfredi, che non guarda tanto all’immagine ma punta sugli interventi strutturali di lungo termine. Apparentemente sembra che stia succedendo ancora poco, poi ci accorgeremo che invece non è così. Manfredi è l’opposto del sindaco precedente, De Magistris, che era solamente chiacchiere.

C’è una parola che i napoletani non accettano: riscatto.

La città non ha bisogno di riscattarsi da nulla. Tutti hanno qualcosa da riscattare, non solo i napoletani. E tutti hanno cose di cui vantarsi. La rifiutano perché pensano che non sia la parola pertinente. Più semplicemente, la vittoria nel calcio, che è stata la vittoria di una buona programmazione, di una buona organizzazione può diventare un esempio virtuoso che genera imitazione, che dissemina questo risultato e innesca circoli virtuosi. Tutto qua.

Napoli diventerà normale quando in tutti i campi potrà avere dei successi come il Napoli calcio. L’eccezionalismo partenopeo, secondo Antonio Polito, deve finire. E lo sarà quando i cronisti, per fare un esempio, non potranno più andare in giro a chiedere perché questo scudetto è diverso da quello degli altri, ha scritto nella sua rubrica sul Corriere del Mezzogiorno.

Sì, per ora è così. Anche se io terrei molto a che Napoli non diventasse una città come le altre. Rinuncerebbe a se stessa. È come dire che Rio de Janeiro non dovrebbe essere più Rio de Janeiro. Può migliorare ma partendo da se stessa. Io non vorrei mai che Napoli diventasse un clone di Milano o di un’altra città. In questo sono abbastanza pasoliniano dando ai termini “tribù” e “ultimo villaggio”, definizioni che lo scrittore attribuì a Napoli, un significato contemporaneo: non quello di sopravvivenza del passato ma una invenzione di un futuro che nasce da sé, non da un modello esterno.

In queste settimane abbiamo assistito anche a messaggi, minacce, aggressioni nei confronti dei tifosi del Napoli. Che cosa è? Bullismo da stadio, odio sociale, razzismo o che altro?

È un misto di razzismo, idiozia e inciviltà. Ma non credo che sia generalizzato. Perché poi a questi imbecilli si contrappongono le migliaia di persone che dal Nord sono venute qui a festeggiare insieme ai napoletani.

Al Maradona è stato mostrato in curva uno scudetto rovesciato con sotto la scritta: campioni in Italia (e non d’Italia). Come a dire: non considerate italiani noi napoletani. Allo stadio di Fuorigrotta si intona il coro ironico e provocatorio «Vesuvio erutta, tutta Napoli è distrutta», la miserabile cagnara che si registra contro Napoli in molti stadi di questo paese. Questo al netto di episodi di violenza di frange ultrà napoletane come gli scontri in autostrada con i romanisti.

È un modo ironico per giocare su certi stereotipi razzisti, su certe manifestazioni odiose. In fondo i napoletani questa ironia l’hanno sempre mostrata. Quando i veronesi facevano striscioni tipo “Vesuvio, pensaci tu”, i napoletani non hanno mai risposto. E quando a San Siro gridavano “Colera, colera” erano gli anni della diossina di Seveso. Non è che i napoletani cantassero “Diossina, pensaci tu”. Ai veronesi risposero con un solo striscione, quello famoso che esaltava le virtù di Giulietta.

L’impresa di Kim, Osimhen, Lobotka taglia il cordone ombelicale con Maradona?

No. Assolutamente no. Anzi. La squadra ha fatto il suo dovere in campo, ma la mano de Dios lo ha fatto in cielo. Maradona ha giocato la sua partita celeste, tanto è vero che gli attribuiscono interventi come quello dell’autorete del Lecce che ci consentì di vincere una difficile partita.

C’è qualcosa nella retorica di queste settimane attorno alla vittoria del Napoli che le ha dato particolarmente fastidio?

Sì quelli che hanno cominciato a fare dei “distinguo”, quelli del “benaltrismo”. Quelli che dicono che a Napoli ci sono ben altri problemi. La gente lo sa benissimo che sono due ordini di problemi diversi. È una retorica datata, è questo illuminismo da due soldi che poi scopre l’acqua calda. In realtà Troisi aveva già risposto a queste cose da par suo negli anni Ottanta, figuriamoci adesso. Per cui quando leggo certi post, penso che certi atteggiamenti trinariciuti, si diceva un tempo, abbiano fatto il loro tempo.

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