Valerio Magrelli
Ceppo 2023: le tre parole-chiave del vincitore

L’arte del congedo

È Valerio Magrelli il vincitore del Premio Poesia alla carriera. Explicit, Figura retorica, Gnarus sono i termini attraverso cui descrive l'opera poetica «come un processo che trasforma l'autore stesso». Perché «chi scrive versi... lo fa per cercare qualcosa che non potrebbe trovare altrove»

Il Premio Internazionale Ceppo, presieduto e diretto da Paolo Fabrizio Iacuzzi, è un premio-laboratorio che mette a fuoco le radici antropologiche della letteratura, anche nel nome di Leone Piccioni, fondatore del premio. Valerio Magrelli, uno dei maggiori poeti italiani, è il vincitore del Premio Ceppo Pistoia Capitale della Poesia alla carriera 2023. Il poeta vince per la sua intera opera in versi e in prosa, saggistica e narrativa, dal suo «esordio folgorante in versi» con Ora serrata retinae (Feltrinelli 1980), al più recente Exfanzia (Einaudi, 2022). Oggi a Pistoia, la premiazione con un fitto programma di eventi. Anche Valerio Magrelli ha descritto le tre parole-chiave del suo “centro di gravità” poetico (Info: www.iltempodelceppo.it).

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Explicit
Tutti si chiedono come nasca una poesia: io trovo più interessante domandarsi come finisca. Che l’ispirazione, colpo di fulmine o scintilla, esista veramente, non c’è dubbio. Magari andrà descritta in modo un po’ diverso dal consueto (studiando, perché no?, circuiti cerebrali, sinapsi, reti neurologiche), ma ad ogni modo nessuno mette in questione la sua importanza. Il mistero dell’inizio, in latino “incipit”, appare insomma universalmente riconosciuto. Eppure, mi domando, non risulta più appassionante il miracolo dell'”explicit”, ovvero quello da cui dipende l’ultima parte di un testo? Forse un poeta è veramente tale solo se sa quando arrestarsi, quando cessare l’opera della lima, quando sospendere la proliferazione di varianti; insomma, quando riesce a dire “basta”. Come al momento di lasciare un pranzo, i saluti non sembrano più smettere. Il distacco è difficile, e viene spontaneo cercare di rinviarlo. Si chiacchiera così bene, sulla soglia, che non vorremmo più venire via. Lo stesso con i versi. È duro dover prendere congedo. Ma l’explicit ci chiama. Serve un dono, un talento: l’ispirazione della conclusione.

Kandinsky, “Composizione”, 1965

Figura retorica
Ho conosciuto tardi le figure retoriche, ma appena le ho scoperte mi è sembrato di tornare all’infanzia, in una profumata notte di primavera. Mia nonna abitava in una casa con una grande terrazza, così, una volta, mio padre, dopo cena, decise di raggiungerla, per insegnarmi a riconoscere le costellazioni. Restio, perplesso, mezzo addormentato, mi ritrovai a fissare il cielo, con una torcia in mano e un libro nell’altra. Lui mi indicava dove guardare, e io provavo a rintracciare sulle pagine i lineamenti dello zodiaco. Non andò troppo bene. Afferrai solo un paio di immagini, ma da allora non le ho più dimenticate. Mi basta un colpo d’occhio per ritrovare Cassiopea e l’Orsa Maggiore. Tutto il resto è rimasto un reticolo confuso; l’importante, però, fu che compresi il gioco; esattamente lo stesso della retorica. Il cielo del linguaggio è un caos di segni, eppure basta applicarsi per individuare alcune forme precise, capaci di imprimersi in maniera indelebile: le figure retoriche sono le costellazioni dell’universo verbale. Prendiamo il chiasmo, che in greco significa “presento in forma di X”. Indica la disposizione a incrocio, o speculare, di due coppie di termini. Invece di collocarli in serie parallela (AB + AB), il chiasmo rovescia il secondo gruppo (AB + BA). Così, nel celebre verso di Ariosto: «Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori», gli attributi vengono distribuiti nell’ordine Femminile-Maschile-Maschile-Femminile, mentre un ipotetico: «Le donne, i cavalier, gli amori, l’arme», li disporrebbe secondo la serie normale, ossia Femminile-Maschile-Femminile-Maschile. Ad ogni modo, lo stesso discorso vale anche nella vita di tutti i giorni, quando ad esempio vediamo due coppie di innamorati che passeggiano tenendo gli uomini, o le donne, al centro. Ecco come funziona una figura retorica: una volta imparata, non si scorderà più. È come se il mondo crescesse. Infatti, per chi sa rintracciare Andromeda in cielo o un’anafora nel linguaggio, la notte e le parole diventano più ricche, e si aprono al senso di un disegno. Per questo, riconoscere una figura retorica o una costellazione, dà la stessa emozione che ci coglie quando vediamo emergere di colpo, fra la folla, un volto familiare.

Gnarus
È una parola latina che, confesso, non avevo mai sentito, prima. Ne utilizziamo spesso la negazione, ovvero l’aggettivo “ignaro”. Ma proviamo a vederla da vicino. Il termine significa “ben informato”, “esperto”, “pratico di”, e deriva dalla radice indoeuropea “gna”, che sta per “conoscere”. Ad essa è correlato un vocabolo come “gnoseologia”, ma anche termini quali “narratore” e “narrazione”. Dunque, secondo il suo etimo, il narratore è colui che sa, cioè che conosce la storia da narrare. Ora, se questo è vero per chi guida il racconto, sarà lo stesso anche per chi compone versi? Altrimenti detto: che cosa sa il poeta della sua poesia? Insomma, conosce davvero ciò che scrive? Dobbiamo considerarlo gnarus o ignarus? E ancora: siamo poi veramente sicuri che oggi il narratore sia ancora così informato come un tempo sui fatti da narrare? Mi piacerebbe affidare la risposta a un romanziere, Giuseppe Pontiggia: «Io non metto il messaggio nel testo, ma glielo chiedo. È da lui che lo aspetto, per scoprire ciò che non sapevo di sapere». I nostri dubbi trovano conferma. Se il narratore stesso è diventato, almeno in parte, ignaro, figuriamoci il poeta… Come uscire da un tale labirinto? Forse il modo più semplice consiste nel capire che l’opera non va considerata come un oggetto dominato dall’autore, bensì come un processo che trasforma l’autore medesimo. Chi scrive versi, infatti, non lo fa per trasmettere un dispaccio, bensì per cercare qualcosa che non potrebbe mai trovare altrove.

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