Paolo Petroni
Al Teatro dell'Opera di Roma

Janacek a Guantanamo

Grande successo per l'allestimento di “Da una casa di morti”, con Dmitry Matvienko sul podio, in cui Leos Janacek racconta gli orrori, le illusioni e le rabbie che popolano la quotidianità del mondo carcerario

Un’opera molto particolare questa Da una casa di morti di Leos Janacek, finita di scrivere nel 1928, l’anno della sua morte, e data postuma nel 1930, proposta nelle scorse settimane all’Opera di Roma con Dmitry Matvienko sul podio, applauditissimo, con tutti gli interpreti e il regista polacco Krzysztof Warlikowski (Premio Europa per il Teatro 2008 e Leone d’oro alla carriera Biennale teatro 2021).

Un lavoro di sostanza molto teatrale, aspra e umanissima assieme, corale, senza un vero protagonista e quasi senza una trama nel darci il quadro della vita all’interno di una prigione molto dura, che può essere quella della Russia zarista, che ispirò il compositore attraverso le memorie di prigionia di Dostoevskij, o una di oggi dove ogni diritto è azzerato, come Guantanamo, cui invece sembra essersi ispirata l’attuale messinscena legata anche alla drammaturgia di Christina Longchamp citata in locandina. Ecco allora che un’aquila con un’ala spezzata che i galeotti si divertono a tormentare, diventa un atletico e svolazzante giocatore di basket, poi infortunato. Per il resto, fatti salvi un inserto videoregistrato introduttivo in cui parla Michel Foucault sulla sua idea di giustizia e l’utilità economico-politica di un tale sistema di controllo, e poi due tra gli atti con l’ossessione per la morte di un detenuto nero, non appaiono variazioni particolari del testo e del suo sviluppo rispetto all’originale, se non una ricchezza di invenzioni, di controscene e di presenze che affollano spesso il palcoscenico, in taluni momenti anche troppo e generando una qualche confusione.

Del resto a dare il senso dell’opera basta la musica di grande, assoluta potenza, in un perenne crescendo di tensione che poi improvviso si scioglie in una breve parentesi, nella riflessione sulla sofferenza, ma dai connotati moderni, antiromantici che opera per scatti e contrasti, con scarti imprevisti, collegamenti audaci e asprezze strumentali di forte efficacia che Matvienko ha ben reso, assieme citazioni di cadenze popolari, con incisiva espressività, legata a voci che mostrano una certa uniformità, non esistendo più le arie ma dei recitativi, quasi melologhi un po’ come si ritrovano in certo Schoenberg e poi Stravinskij.

Allora il ricco allestimento con movimenti spesso quasi danzati e in altri una ricerca di grottesco, sembra avere una sua eleganza ma con tendenza, cui non sono estranei anche i suoi corollari, con tendenza a essere un po’ ridondante e didascalico senza vera necessità, nella scenografia,  firmata da Malgorzata Szczesniak,  chiusa dietro un sipario di alluminio lucente su cui vengono effettuate le proiezioni, costruita su due piani di bell’effetto spettacolare con una parte mobile, una gabbia che nel secondo atto, quando in prigione arriva il teatro con pantomime popolari di Don Giovanni e della Bella mugnaia, diverrà un po’ un palcoscenico sul palcoscenico.

L’intenzione di Janacek è di darci l’idea della disumanità di un tale sistema carcerario e assieme mostrare l’umanità di molti galeotti e, per farlo, racconta l’imprigionamento di Alexandr Petrovic Goriancikov (cui dà sostanza e voce Mark S. Doss) un condannato politico che subisce subito una spoliazione totale e crudeli punizioni arbitrarie, testimone che durante la detenzione insegnerà a un altro a leggere e scrivere, che assisterà al racconto delle storie di singoli detenuti (Skuratov, Sapkin e Siskov interpretati rispettivamente da Julian Hubbard, Michael Scott e Leigh Melrose) e dei loro crimini, finché verrà scarcerato, avendo sua madre ottenuto la grazia per lui.


Le fotografie sono di Fabrizio Sansoni.

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