Andrea Carraro
La lezione di un maestro

L’ironia di Pontiggia

Ritratto di Giuseppe Pontiggia, un'intellettuale anomalo che inseguiva la verità e uno scrittore votato alla brevità e all'ironia. Ironia espressa soprattutto nella forma della satira ma anche dell’umorismo paradossale, del nonsense. Insomma, un’ironia molto poco “italiana”

Dico subito che la letteratura di Pontiggia mi riguarda molto da vicino, per via della banca, anzitutto, che ha avuto occasione di uccidere anche me  – pure io sono stato bancario, per molti più anni di Pontiggia, e ci ho scritto su un paio di romanzi e diversi racconti: ma pure per altre coincidenze biografiche, contiguità, simmetrie di vario genere,  provo a dirne qualcuna alla spicciolata: per una familiarità narrativa di ambienti, temi, personaggi, non solo quelli legati alla banca, ma anche al lavoro editoriale e giornalistico; per il tema del rapporto coniugale, della famiglia borghese, della paternità; per il gusto della satira, per il rifiuto dell’ideologia, di qualunque ideologia, letteraria; per l’insegnamento della  scrittura creativa (anche se lui preferiva chiamarla di invenzione), dunque l’interesse verso le tecniche narrative, l’attenzione alle qualità umili, artigianali della scrittura, dunque per l’approccio genericamente anti-romantico, anti-idealistico alla creazione artistica; per la fiducia nell’esercizio dell’editing editoriale, – la convinzione, non molto diffusa fra gli scrittori, che qualunque testo sia “migliorabile” – da cui le riscritture un po’ maniacali di propri romanzi già editi, a distanza di anni (a me è capitato con Il sorcio; a lui con La morte in banca e con La grande sera (1989), che ripubblicò sei anni dopo, con un testo profondamente modificato, più «rapido, sfumato, ambiguo, ironico», come osserva lo stesso autore nella Nota introduttiva alla nuova edizione; per l’idea di una narrativa non consolatoria e perfino disturbante ma mai elitaria, anzi idealmente rivolta al grande pubblico;  

e poi la narrazione breve, per la short-story – eccoci al tema di questo convegno, – che non è mai venuta meno, una forma che ha sempre affiancato, come me, a quella del romanzo, – mediata dalla precoce scoperta dei racconti e novelle di Maupassant e di Pirandello e poi dell’Hemingway dei 49 racconti e il Kafka della Metamorfosi (quante coincidenze!).

E insieme l’ironia, presente in tutta la sua opera non solo narrativa; un’ironia che può esprimersi nella satira (culturale, sociale), nella comicità, nell’humour, nella parodia, nel grottesco…  

sempre all’insegna della brevitas: una brevità “intesa non come amputazione, riduzione, scorciatoia”. – come spiegò in un pezzo sul Sole 24 ore poi forse confluito in Prima persona, – Ma la brevitas è risorsa espressiva di incommensurabile potenza. Scelte antitetiche possono dare esiti altrettanto forti. Però la sfida, se le parole diminuiscono, è di dire di più”.

Pontiggia ha il dono rarissimo della sintesi, della concisione (necessariamente intrecciate alla chiarezza e alla precisione), che applicava a qualunque forma letteraria esercitasse, dal romanzo, alla critica letteraria

         Insomma, questo è l’ambito che mi ha riguardato di più in Pontiggia.

Ma partiamo dall’inizio. Non ho ancora detto che io non l’ho mai conosciuto, personalmente, Giuseppe Pontiggia.

Le occasioni non sono mancate, ma per una ragione o per l’altra, sfumavano sempre.

Il mio primo accostamento con Peppo Pontiggia voglio raccontarlo anche se forse ha valore solo per me. Risale al 1990.

Mi aggiravo per il Salone del libro di Torino come un’anima in pena con diverse copie omaggio del mio primo romanzo: l’editore era piccolo,  bisognava darsi un po’ da fare con l’autopromozione, avevo appena rilasciato a una tv un’intervista deludente assieme a due o tre altri giovani esordienti, tutti assai più sciolti e disinvolti di me, uno dei quali mi segnalò una certa conferenza che si sarebbe svolta sempre al Salone,  qualche ora dopo, di due pezzi da novanta della critica, Citati e Pontiggia. Conoscevo poco entrambi, ma sapevo della loro influenza critica e editoriale. Ignoravo che Pontiggia fosse anche un narratore affermato insignito l’anno precedente del Premio Strega con un suo romanzo di ambientazione bancaria, La grande sera. Ma lo scoprii di lì a poco.

Seguii il consiglio. I due scrittori-critici tenevano, in una sala affollata, alle spalle di una lunga cattedra disposta su una pedana, che la prospettiva tendeva ad allargare iperrealisticamente, una specie di lezione semiseria di letteratura classica di cui non ricordo neppure il tema. Ricordo solo che la gente non era inerte, ma partecipava, rideva, approvava… le parole dell’uno e dell’altro. Io pensavo al modo come affibbiare almeno a uno dei due il mio libro risultando il meno goffo e fantozziano possibile.

A un certo punto, Pontiggia venne a parlare di una certa cosa su cui avevo ragionato tante volte ma in modo istintivo. Parlava a proposito dei nomi da affibbiare ai personaggi, diceva che la scelta dei nomi è una questione importante, che non va sottovalutata e che gli scrittori mediocri si riconoscevano già dai nomi che davano ai loro personaggi! Proprio come nel caso di uno scrittore fighetto qualche fila più avanti, pensai, che dava ai suoi personaggi dei nomi parlanti improbabili, fasulli. Ragionò sul nome Zeno, del romanzo dell’amato Svevo, cui aveva dedicato la sua tesi di laurea, che definì di una brevità efficace, sul nome K., genialmente contratto, del Castello di Kafka… e di tanti altri nomi.

Poi forse disse: Il personaggio comico è sempre tipico, mentre quello tragico è sempre individuale, unico, irripetibile.

Decisi che l’avrei data a lui, quella copia del mio libro, e già ragionavo sulla opportunità o meno di una dedica.

La faccio breve: alla fine, mentre i due maturi scrittori sbaraccavano, già assaliti da una schiera di ammiratori questuanti, capto una risposta gentile e sottilmente ironica (almeno per me in quel momento) di Pontiggia: “Sarei contento di leggerla, ma sono carico di libri, come vede…”. Forse diceva così a tutti o forse no, fatto è che mi scoraggiai, mi sentii ridicolo, e mestamente tolsi le tende. L’indomani però mi comprai La morte in banca e lo lessi durante il viaggio di ritorno in treno. Raccontava di un bancario, sia pure giovanissimo, appena diciassettenne, diviso fra l’ambizione letteraria, e un lavoro ripetitivo e frustrante, che lo abbrutiva… Proprio come me, anche se era diversa l’età. Io a quell’epoca non scrivevo ancora di banca, anche se già ci stavo dentro fino al collo, anche se avevo cominciato ad annotarmi le frasi dei colleghi, e molti particolari degli ambienti…

Brevità e ironia dunque. Partivamo da lì prima della digressione autobiografica. E penso a Vite di uomini non illustri, dove la forma racconto e la forma biografica – convivono mirabilmente in uno stile ricco, polifonico che ha proprio nella brevità la sua sigla espressiva. Il libro si ispira – per antitesi ironica, satirica – alle Vite parallele di Plutarco e ad altri modelli della tradizione classica e moderna (a proposito, l’antitesi è una figura retorica molto cara allo scrittore, che ricorre in vari modi nelle sue peregrinazioni saggistiche, nelle sue lezioni di scrittura, raccolte ora nel volume Per scrivere bene imparate a nuotare,  Mondadori,  ed è alla base fra l’altro di tanti suoi smaglianti aforismi distribuiti in molte sue opere, anche nel suo zibaldone Prima persona su cui poi torno per bene).

Nelle Vite, Pontiggia “rovescia il modello delle vite illustri per illuminare le esistenze di persone comuni”, – ha scritto Daniela Marcheschi nell’attenta introduzione al Meridiano da lei curato – e sono in realtà 18 microromanzi, nei quali racconta “l’infelicità, le illusioni e gli autoinganni ma anche le speranze e il sollievo di brevi momenti di felicità e dei tentativi di riscatto”.  

C’è in questo libro un uso inventivo ma sorvegliatissimo dei diversi stili e registri linguistici (linguaggio burocratico, medico, storico, letterario…), questo mi ha colpito, tenuti insieme e alternati in un ironico gioco di contrappunto. Solo un grande “maestro di stile” poteva scrivere un libro così, forse il suo capolavoro (insieme al romanzo di ispirazione autobiografica Nati due volte sull’esperienza della disabilità del figlio Paolo: una materia calda, anzi bollente, ma resa attraverso un tono raggelato e la solita ironia).  L’epigrafe alle Vite di uomini non illustri: dallo scrittore filosofo spagnolo George Santayana è quasi una definizione di poetica non solo di questo libro ma, mi pare, di tutta l’opera dello scrittore lombardo. “Tutto, in natura, ha un’essenza lirica, un destino tragico, una esistenza comica”.

Il comico scaturisce, fra l’altro, dal contrasto fra il tono asettico, neutro del repertorio biografico (come nel Dizionario biografico degli italiani della Treccani, che fu un altro modello dello scrittore) e gli eventi ordinari che vengono riferiti. Come in questo stralcio di “Garavaglia Angela” (col cognome anteposto al nome, come nelle voci dei dizionari biografici), che si riferisce al primo tradimento della protagonista:

“Quando suo marito viene richiamato alle armi, nel 1916, accoglie dentro il letto matrimoniale, nel primo pomeriggio del 20 settembre – mentre la bambina è al collegio Reale delle Fanciulle – Saverio Carugati, stuccatore, conosciuto durante il restauro dell’appartamento, amante taciturno e fidato”.

Poi ci sono i 16 racconti che si trovano in appendice al volume del 2003 de La morte in banca, quello che ho io, suddivisi in tre serie, distribuiti in ordine cronologico su un arco temporale molto lungo, quasi un trentennio, praticamente tutta la vita artistica di Pontiggia. Alcuni di ambientazione bancaria, impiegatizia, sulla linea del suo breve romanzo d’esordio, quasi a integrazione, a compendio, con “la medesima atmosfera di inaridito straniamento” come ha scritto il critico Mario Barenghi nella postfazione al volume, “ma ad arricchire la rappresentazione, a conferirle mordente e varietà, interviene però una vivace ironia, spesso sinceramente divertita, ma non perciò meno acre”.

Ironia, dunque, ancora ironia, espressa soprattutto nella forma della satira ma anche dell’umorismo paradossale, del nonsense. Un’ironia molto poco “italiana”, mi viene da dire, e magari qualcuno l’avrà detto. Come in Mia zia, un delizioso raccontino familiare, frammentato in brevi sequenze di dialogo fra un giovane aspirante scrittore e sua zia, che così attacca:

“Mia zia abita sul lago. È titolare di un piccolo ufficio postale dove di aggira da sola. È piccola, ha sessant’anni, i capelli bianchi e veste sempre di nero. È vergine. Che mia zia sia vergine è una delle poche certezze della mia vita. “

Oppure prendiamo il satirico Avari (sul tema dell’avarizia, appunto, che limita l’esperienza, corrompe e degrada i rapporti di amicizia), che così inizia: “Il primo inatteso, oscuro presentimento lo provai all’uscita del bar sull’autostrada, quando lui mi si avvicinò alle spalle e mi chiese: “Perché hai lasciato la mancia?” ti sembra che ci abbiano servito bene?”,o Il Goloso  (feroce allegoria su un obesoche si sottopone a una dieta draconiana per dimagrire sotto il vigile  e zelante controllo del nutrizionista, e alla fine ne muore, non metaforicamente come ne La morte in banca ma in modo tragicamente reale, forse d’infarto o d’un colpo apoplettico),  o ancora Il viaggio di ritorno dove troviamo un redattore editoriale che deve convincere la vedova di uno scrittore a pubblicare un compromettente diario postumo del marito, elaraggiraconastuzia, o Lettore di una casa editrice (sulla figura di un lettore professionale che scarta un manoscritto senza accorgersi che è una  traduzione  di Delitto e castigo di Dostoevskij capitata per sbaglio sulla sua scrivania nella pila dei romanzi da valutare), mentre il Pazzo, di ambientazione impiegatizia, ossessivo, kafkiano, con punte di sadismo da branco verso il collega diverso, instabile emotivamente, che peraltro si difende benissimo; che mi ha fatto pensare per analogia a un mio collega sordomuto vessato dai colleghi e cattivissimo finito nel romanzo Il sorcio. Questo l’attacco: “C’è un pazzo fra noi. Siede a metà del corridoio, sotto la luce conica della lampada. È corpulento, dilaga sulla scrivania. La sua calcolatrice ha sussulti normali. Anche il suo lavoro procede regolarmente. Però è pazzo.”

Racconti brevi o brevissimi, anche due o tre paginette, in cui diventano determinanti, nell’economia compositiva, gli incipit e i finali, come I colori della vita, “La pensione era una casa gialla tra il verde degli alberi. Il mare azzurro scivolava leggero sopra la rena. Scesi dalla motoretta e aiutai mia moglie a slegare la valigia dal portapacchi. Mia moglie indossava un vestito giallo. Dalla mattina non vedevo che colori”. L’io narrante vive in quell’alberghetto una fulminante, poetica rivelazione; la rivelazione dei colori, quasi una joyceiana epifania… o come ne Il mancino, quasi tutto dialogonellasalad’attesadiunostudiomedico, ancorasul tema della diversità, incarnata stavolta nella figura di un ragazzino mancino; una diversità osteggiata e combattuta da tutti, dalla madre, dalla scuola, dalla società, persino dal medico di famiglia!, cui è affidata l’ultima battuta del racconto: “Non usare la sinistra, capito? Devi essere normale. Cerca di usare la destra e andremo d’accordo.”

Dalla satira all’humour nerodi Ti rispondo di , che non sfigurerebbe nell’Antologia dello humor nero di André Breton (un’opera che lo scrittore aveva ben presente, citata nelle sue lezioni, nei suoi saggi): “Mi chiedi se sono innamorato. Io ti rispondo di sì. Tu non puoi probabilmente immaginare come sia importante un amore sereno, reciproco, fondato sulla fiducia, sul ricordo delle difficoltà superate in comune.” Questo l’incipit di un racconto che è in realtà una lettera – lo capiamo  un po’ alla volta  – del protagonista, forse a un amico – che continua su questo tono, razionale e indulgente, nell’analisi del  suo matrimonio in crisi in tanti suoi aspetti, poi l’uomo racconta della sua incapacità di lasciare la moglie, che pure sarebbe una possibile soluzione ma qualcosa lo trattiene:– rispondi, hai mai provato a lasciare una donna innamorata? – per poi concludersi così, con un finale di sorpresa e ribaltamento: “Un matrimonio riuscito, pur con gli inevitabili nei. Così l’ho uccisa, con un colpo d’accetta e ti prego di rispedirmi subito il mio baule, perché il problema di sistemare i poveri resti è più complesso di quanto possa a prima vista sembrare”.

Troviamo un bambino anche nel Il nascondiglio, un poetico, metaforico racconto sull’infanzia. Questo l’attacco, magistrale: “Quando Andrea sparì, nessuno se ne accorse. In casa i suoi avevano abbassato il soffitto in corridoio e tra il soffitto nuovo e il vecchio si era formata una galleria aerea, invisibile, sospesa sopra la testa di chi attraversava l’appartamento”. In quel cunicolo di cemento, fra casse, rotoli di tappezzerie, valigie, riviste, che la fervida immaginazione infantile popola di mostri minacciosi, tesori, forzieri, azioni temerarie, nascosto da tutti, senza rispondere ai richiami della madre, – “Andrea, basta, vieni fuori!”, “Un bel gioco dura poco!” – il bambino ha paura, ma gode anche di un misterioso euforico senso di separatezza, di libertà.

Tutte improntate alla brevitas, alla chiarezza, alla precisione, all’economicità (etica) della lingua, della parola… in queste narrazioni concentrate si avvertono echi del racconto hemingwayano costruito sul non detto, sulle ellissi sulle omissioni, ma anche di Kafka, di Svevo, cui Pontiggia dedicò la sua tesi di laurea e un saggio, dell’amato Maupassant: “è stato decisivo un racconto di Maupassant, letto a dodici tredici anni. Mi ha dato l’emozione dello stile cioè la percezione che il linguaggio avesse anche un suo splendore, una sua felicità. E poi mi aveva molto colpito la scansione ritmica di Maupassant, il suo modo di costruire i periodi.”

Pontiggia è stato recensito da nomi illustri. Un’infinità di critici e scrittori… Fra tanti, scelgo Alberto Moravia:

Scrive Alberto Moravia nella prefazione al libro La grande sera che il romanzo di Pontiggia dipinge un quadro “al tempo stesso ambiguo e satirico di un’intera società, quella per intenderci dell’Italia consumistica, industriale e tecnologica dei nostri giorni.»

Un’ulteriore variante della forma breve è presente anche in Prima persona del 2002, l’ultimo suo libro pubblicato, uno zibaldone di 200 pezzi dove prevale la forma del personal essay cioè del saggio su sfondo autobiografico al modo dei grandi e amati moralisti francesi, Montaigne, La Rochefoucauld, La Fontaine – oggi diffuso soprattutto negli stati uniti: si veda, Investigare il mondo scrivere in prima persona, il genere del personal essay nell’opera di Giuseppe Pontiggia di Filippo la porta – dove il critico approfondisce proprio questa particolare attitudine del Pontiggia verso un certo saggismo  autobiografico, digressivo, idiosincratico, di “contenuto etico-civile”, ma senza l’ossessione dell’appartenenza politica o culturale o ideologica a qualche gruppo o movimento.

In Prima persona trovano posto aforismi acri sul carattere degli italiani; dove si avverte una palpabile tensione morale, civile, un’inclinazione alla critica culturale.  “Distinguersi. Quello che delude negli snob è che cercano sempre di distinguersi dagli altri. Si distinguessero da se stessi!”. Maestri di vita. Dispiace nei cosiddetti maestri non che cambino le idee, ma che le idee non li cambino”. “Maître a penser – Genio troppo compreso per meritare di essere capito”. L’autoironia. Basta farlo con autoironia, dicono le pornostar, gli scrittori nei circhi, i politici sui palcoscenici. C’è tanta ironia in circolazione, che per l’ironia non c’è più spazio”. Vorrei concludere ancora con un’annotazione personale sulla trasparenza del pensiero attraverso la chiarezza della scrittura. Pontiggia era uno scrittore coltissimo, un bibliofilo innamorato dei libri e della lettura, ragionavo, un esperto di letteratura classica e moderna, un erudito magari suo malgrado… Eppure, non ho trovato una sola pagina davvero oscura, incomprensibile. Anche quando affronta argomenti complessi, la lingua di Pontiggia è sempre intelligibile, chiaro, limpido, proprio perché egli sembra operare una sorta di preventiva pulizia del pensiero e del linguaggio evitando, finché è possibile, non solo gli stereotipi, i cliché, ma anche l’uso (abuso) dei gerghi specialistici settoriali; – che ritiene responsabili dell’impoverimento del linguaggio e che sono spesso di intralcio al ragionamento.

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