Gianni Cerasuolo
Fa male lo sport?

Gennari’, aspetta!

«Gennarì, grazie!» dice un grande striscione sul Rettifilo: cronaca di una festa rinviata. Dove Napoli non coincide con la “napoletaneria” e il calcio non è solo calcio ma la rappresentazione concreta dell'essenza di una città da amare, odiare o tradire. A seconda dei casi

A sera la festa è diventata un po’ una fetecchia, si è ammosciata, piazza del Plebiscito, come altre piazze, che si svuota dopo che la Salernitana, la squadra dei pescivendoli di Salerno, come chiamano qui affettuosamente quelli più a Sud, aveva pareggiato con i quasi campioni d’Italia del Napoli. Baldoria rinviata, ma allegria sempre viva.

La domenica dello scudetto era cominciata molto presto. Non erano neanche le 10 del mattino e le strade della città, le piazze, le stradine erano già invase dalla gente che camminava con bandiere, trombe, fumogeni. Chi andava a piedi allo stadio (costretto anche dai disservizi della metro), chi anticipava i festeggiamenti, chi curiosava. Era un mischione di tifosi e di turisti che invadono da mesi il capoluogo. Giravano solo pochi taxi, metropolitana stracolma di gente. Si faceva la fila di decine e decine di metri soltanto per fare i biglietti. Una città insolita senza auto, senza mezzi pubblici, solo la metro e la funicolare. Il centro lo si divorava consumando le suole delle scarpe. Contentezza, speranza, voglia di vincere.

Perché questa città è ammalata, è una cosa sola con la squadra di calcio. La ama alla follia, la odia, gli mette le corna, le fa la corte come fosse una giovincella di primo amore. Poi è capace anche di andare allo stadio e di starsene zitta, non tifare, per fare un dispetto a don Aurelio De Laurentiis, il presidente della squadra, ’o romano, ’o pappone, perché campa alle spalle della squadra, secondo i cattivi delle curve. Roba da matti. Stai vincendo uno scudetto e non sostieni la tua squadra? Gli tieni il muso? Poi all’improvviso la pace: il presidente che si fa un selfie con i capipopolo. Nella curva ci sono i poveri cristi, i Masaniello da stadio e i don Pietro Savastano.

Napoli non è sempre quella cosa che immaginiamo possa essere vivendo lontano da emigrati a poche centinaia di chilometri. La napoletaneria, il trash da una parte e la napoletanità, la cultura, l’anima di un luogo dall’altra. Napoli e il Napoli, la prima attraversa cambiamenti faticosi, contraddittori, incredibili ed eccellenti in molti casi, deprimenti in altri. Il club è già cambiato, moderno e virtuoso. Per ora. In un mondo, quello del pallone, che cela sempre inganni, vaccate e ruberie. E muta come una partita.

In questi giorni la città è una sorta di vulcano in attesa di esplodere. Questa festa attesa da oltre trent’anni non si riesce più a trattenere. Da fuori è difficile da capire. Tutto questo per il pallone? Sì. Anzi no. Forse. Chissà. Ma poi il calcio non è la proiezione di quello che si era da bambini, come diceva Xavier Marias? Sì, lo è. Ma i bambini ad un certo punto crescono e si perdono per strada.

«Gennarì, grazie» c’era scritto su uno striscione innalzato sul Rettifilo, il lungo corso che dalla stazione centrale porta verso piazza Municipio, via Toledo. Gennarì è ovviamente lui, San Gennaro. Solo qui si dà del tu ai santi. O si chiama Ciro uno che è venuto dal Belgio. Mertens venne chiamato Ciro dai tifosi e da tutta Napoli perché una sera, andando a giocare a bowling, non voleva farsi riconoscere. Lo avrebbero soffocato se, distraendosi con le bocce e i birilli, avesse dichiarato la sua identità. Allora qualcuno si inventò lo pseudonimo napoletanissimo sul tabellone della pista: lo chiameremo Ciro.

L’ultima domenica di aprile dal cielo imbronciato e umido, un fiume in piena ha invaso la città blindata, presidiata, controllata da esercito, marina ed aviazione. Perché la paura è tanta che la situazione possa sfuggire di mano. Nella tranquilla e meno vivace Torino ci furono dei morti per una festa Juve. Da allora è come per l’allerta meteo: basta un po’ di vento e un po’ d’acqua, che si chiudono scuole, parchi e altro ancora.

Però la gente non vuole fare casino. Vuole essere allegra. Non vuole che si dipingano i monumenti. Vuole godersi la città. Non vuole le bombe carta che pure hanno frastornato interi quartieri. Vuole i fuochi d’artificio, quei lampi di luce e di innocenza. Non vuole coltelli che pure hanno colpito (una rissa fuori lo stadio. Poi anche un po’ di tensione con la polizia fuori dal Maradona). Ma vuole sorridere. Vuole essere, insomma, quel teatro della vita che non muore mai secondo la definizione di Napoli firmata Picasso.

Così il tassista che ti porta dalla stazione Centrale sul lungomare ti racconta che è stato intervistato da un giornalista del Wall Streat Journal subito dopo le gare con il Milan in Champions, perse malamente dal Napoli. Mentre guidava l’uomo espresse al cronista tutto il suo malumore per il fatto che forze occulte avessero voluto buttare fuori gli azzurri di Spalletti dalla coppa europea: un complotto, in poche parole. E il giornalista gli diede ragione, spiega adesso il tassista, perché ’o Milàn tene ’o padrone americano che voleva fa il derby europeo con l’Inter. Una grande affare. Avite capito?

Lui guida, racconta e scansa pedoni e indica festoni e striscioni. «Magnateve ’o limone» recitava una delle migliaia e migliaia di scritte. Dedicato probabilmente a quelli che abitano al di sopra del Garigliano. Ma a Salerno hanno festeggiato al pareggio di Dia, sfottendo con la mano de Dia. Di Maradona ti chiede anche un film-maker coreano che è qui per Kim Min-jae, la colonna della difesa azzurra, uno che aveva suscitato le peggiori battute su questa squadra che tra qualche giorno si cucirà lo scudetto sulle maglie. Perché tanti di quelli che oggi applaudono, anche i giornalisti, avevano preso a pernacchie la squadra allestita la scorsa estate.

Dalle 12,55 alle 13 sono esplose la prima gioia della giornata quando l’Inter ha segnato alla Lazio, gol poi annullato; e la prima delusione, la preoccupazione al gol dei laziali. La pizza Margherita è rimasta in gola e nel locale del lungomare si è fatto silenzio. Poco più di un’ora dopo, al pari dell’Inter e poi al vantaggio, è deflagrata la gioia, i tricchetracche ed ogni strumento sonoro hanno svolto il loro lavoro. La gente si è messa a ballare per strada. Una felicità incontenibile. E chi non lo faceva veniva cortesemente invitato a farlo: «Sono trent’anni che state zitti», dicevano ragazzi che non avevano neanche quindici anni. Una Carnevale di Rio a Napoli.

Poi il Napoli è sceso in campo. E lì la santabarbara non si è più contenuta. In Piazza Mercato, il grande immenso e storico slargo, un luogo di morte per Corradino di Svevia e per Luisa Sanfelice, c’è uno schermo gigante in un anfratto. Piccola folla di famiglie, bambini, uomini di panza. Lontano si sentono mortaretti ed esplosioni esagerate, penso al mio cane impaurito quando sparano a Capodanno. Il Napoli segna solo nel secondo tempo. Con Olivera. È come un terremoto. La Piedigrotta dura 22 minuti. Poi il pareggio della Salernitana. La festa continua, la gente resta in strada ma tutto si svolge in sordina. Riesploderà nei prossimi giorni, manca solo un punto al traguardo, questo è stato un anticipo. Festeggiamo, come disse Massimo Troisi a Gianni Minà, ma non ci dimentichiamo l’acqua e il gas aperti.


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