Flavio Fusi
Cronache infedeli

Il falò di Zvecan

Gli scontri di Zvecan al confine tra Serbia e Kosovo non si spiegano con i conflitti secolari, ma con la nuova strategia di Putin. In questo senso vanno letti i "miti" esposti: da Ratko Mladic, il massacratore di Srebrenica, e di Slobodan Milosevic, il duce serbo delle guerre balcaniche

Guardate ai simboli. Nelle vetrine dei bar e sulle facciate delle case di Zvecan campeggiano trionfanti i profili di Ratko Mladic, il massacratore di Srebrenica, e di Slobodan Milosevic, il duce serbo delle guerre balcaniche. Non manca nemmeno la firma del campione di tennis e no vax Novak Diokovic. Ma il vero mito dei graffitari, in questa scheggia di Serbia conficcata sulla striscia di confine del Kosovo albanese, è Vladimir Putin, il vendicatore dell’impero russo. E la Z dei carri armati di Mosca in Ucraina campeggia ovunque – per strade e vicoli della cittadina – come un grido di rivolta.

Lo scontro violentissimo dei giorni scorsi tra manifestanti serbi e militari della forza di interposizione Kfor ha lasciato sul campo almeno trenta feriti tra gli agenti della missione di pace guidata dalla Nato, e ha riaperto la ferita mai sanata dell’indipendenza del Kosovo. Così, il giorno dopo l’esplosione di isteria e di violenza collettiva, non si fa tanto il conto dei feriti e dei contusi ma ci si interroga smarriti sul futuro di un quadrante geografico a rischio e mai completamente pacificato.

Solo tre chilometri dividono Zvecan – terra kosovara a schiacciante maggioranza serba – dalla città di confine di Kosovka Mitrovica, già Titova Mitrovica: una sorta di Berlino balcanica dove il Muro è rappresentato dal ponte sul fiume Ibar: a nord i quartieri serbi, a sud l’inizio della giurisdizione albanese, a cui i trattati di pace hanno assegnato la titolarità del nuovo Kosovo. Riva bianca e riva nera: se attraversi il ponte venendo dal nord serbo, è prudente sostituire prima la targa dell’auto per non andare in cerca di guai. E così al contrario: se vieni dal sud albanese e ti vai ad avventurare nei quartieri serbi, lo fai a tuo rischio e pericolo.

Basta una scintilla per incendiare tutto il territorio del nord – la terra dei monasteri – abitato in stragrande maggioranza da serbi e finora recalcitrante ad integrarsi pienamente nella struttura statale del Kosovo indipendente. In occasione di queste elezioni municipali entrambe le parti hanno giocato con il fuoco. Prima, la stragrande maggioranza serba ha praticato lo sciopero del voto disertando in massa le urne. Poi il governo di Pristina ha deciso di certificare lo stato di fatto, imponendo l’entrata in carica dei sindaci albanesi risultati eletti con una percentuale minima degli aventi diritto: un braccio di ferro irresponsabile, criticato anche dai partner occidentali del premier kosovaro Albin Kurti.

Così, la diplomazia deve tristemente ricominciare daccapo a tessere la sua tela paziente. Gli accordi di Bruxelles – firmati dieci anni fa con grande spreco di retorica – rischiano di essere ridotti a carta straccia. Nel falò di Zvecan è stata bruciata anche l’intesa verbale raggiunta faticosamente in primavera tra il presidente serbo Alexsandar Vucic e il premier kosovaro Albin Kurti. Come sempre succede, dietro il braccio di ferro si cela la debolezza dei contendenti. Vucic contestato in patria da grandi manifestazioni di massa, Kurti incalzato dall’ala dura del suo governo e ossessionato dalla miserevole condizione economica del territorio kosovaro.

La situazione è dunque in stallo, con i rivali che non intendono fare passi indietro. Il presidente serbo Vucic ha trascorso la notte con i militari dell’esercito schierati al confine. Srpska Lista, il maggior partito serbo del Kosovo, chiede il ritiro immediato della polizia kosovara dalle regioni settentrionali: condizione che Pristina non può naturalmente accettare. Dunque, in paesi e villaggi si affrontano tre contendenti: la polizia kosovara, i manifestanti serbi e i militari della Kfor. «La situazione è allarmante», dichiara il presidente kosovaro Osmani.

Come sempre succede in questi casi, ecco in questa ennesima crisi un grande spreco di bandiere identitarie e di retorica passatista. Sì, siamo nella culla della nazione serba; sì, siamo nella terra consacrata dei monasteri ortodossi; sì, siamo a pochi chilometri dalla Piana dei merli, dove nel lontano 1389 le truppe ottomane alla conquista dell’Europa furono affrontate in una sanguinosa battaglia dalle forze cristiane guidate dal principe serbo Lazar. E dall’altra parte: sì, siamo anche in una terra di moschee, dove gli albanesi sono cresciuti e si sono moltiplicati per generazioni sotto il tallone serbo, siamo nelle valli e nei villaggi dove al tramonto del secolo i kosovari sono stati vittime di una atroce e pianificata pulizia etnica.

Ma non è nel passato prossimo o remoto che si possono trovare le radici di questa nuova fiammata di violenza. Certo, tra serbi e kosovari albanesi si riapre una ferita mai cicatrizzata, ma è la storia di oggi a chiamare a raccolta le opposte truppe: e la storia di oggi è l’aggressione e la guerra di conquista scatenata da Putin contro l’Ucraina, con i confini e le frontiere messi violentemente in discussione. Questo dicono i profili di Putin tracciati sulle case di Zvecan, la Z russa graffiata sulle vetrine, i gruppi di picchiatori segnalati in arrivo da Belgrado nei giorni degli scontri. La partita, in questa terra fragile e violenta, tenta ancora di giocarla il Cremlino con il suo disegno di destabilizzazione delle frontiere orientali dell’Unione europea. E non è un caso, se il ministro degli esteri della Russia annuncia l’arrivo di «una grande esplosione che si sta profilando nel cuore dell’Europa».


Accanto al titolo, Zvecan, Kosovo, Epa Photo.

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