Nicola Bottiglieri
Sulle tracce di De Agostini/6

Tutti i nomi del vento

Si conclude il nostro viaggio nelle zone estreme dell'America Latina sulle orme del missionario geografo Alberto De Agostini. Perché tanti nomi nella Patagonia e nella Terra del Fuoco? Perché i nomi da queste parti sono una conquista dello spazio e del tempo

El Calafate, El Chaltén, Walichu, Puerto Natales, Cueva del milodón, Punta Arenas, Porvenir, Bahía Inútil. Primera Angostura, Rio Grande, Lago Fagnano, Estancia Maria Behety, Viamonte, Ushuaia, Buenos Aires, queste le tappe di un lungo viaggio alla ricerca dei luoghi dei quali parla Don Alberto De Agostini, nei suoi libri sulla Patagonia meridionale e della Terra del Fuoco. Ai nomi delle città bisognerebbe aggiungere quelli delle montagne, Cerro Torre, Monte Sarmiento, Cordigiera Darwin, e quella dei laghi, lago argentino, lago Fagnano e poi quello dei fiumi, Rio Santa Cruz, Rio de las minas, Rio grande. E se non bastasse questa topografia naturale bisognerebbe aggiungere ancora i nomi degli esploratori aviatori, come el condor de plata Van Pluschow, Franco Bianchi, Saint Exupéry, senza trascurare i missionari protestanti e quelli cattolici salesiani… senza dimenticare questo e molto altro ancora.

Perché tanti nomi nella Patagonia e nella Terra del Fuoco? Perché i nomi da queste parti sono una conquista. Di cosa? Dello spazio e del tempo. Mettere nomi è come dare vita ad un luogo, altrimenti quel luogo non esiste. Se encuentra fuera del mapa. Si può obiettare che questo è un modo di ragionare europeo, che quei luoghi avevano un nome ed un significato nella geografia degli indios, il che è vero, però fino ad un certo punto. Molti luoghi non avevano nome, perché agli indios che vivevano inseguendo le mandrie di guanacos non interessavano affatto. Che utilità avevano gli indios ad arrampicarsi sulla cima del Cerro Torre, del Fitz Roy o del Monte Sarmiento? Bisogna considerare inoltre che la presenza europea ha inserito questi luoghi in una geografia più ampia, quella del mondo. È quello che dice il poeta Pablo Neruda: «Gli spagnoli che sono venuti in Cile ci hanno offerto la loro lingua, con la quale possiamo parlare al mondo». Giusto! Però a quale prezzo? E cosa si è perduto?

Proprio pensando a queste cose possiamo dire che pronunciare il nome di un luogo in questi territori non è un gesto innocente. Bisogna pronunciarli con rispetto e devozione, perché risuonano ancora di grida, spari, risate e lamenti. Se volessimo fare una vera carta geografica di questi luoghi essa dovrebbe essere fatta come un grande tappeto pieno di ricuciture, vecchi colori sbiaditi, ombre e macchie, rinacci e rammendi, ma anche profili di mani e di piedi, orme di animali e penne di struzzo e uovo di pinguino, un grande tappeto appeso al sole ed al vento incessante del deserto patagonico. Una grande carta geografica dove possono vivere insieme il passato ed il presente, gli uomini e gli animali, le risate ed i lamenti, la morte e la vita? È possibile fare una carta geografica a strati sovrapposti? Un tappeto enorme sul quale si possa viaggiare con la fantasia?

Il viaggiatore che percorre questi luoghi e conosce questa mappa sa che il suo viaggio non sarà né di piacere né di conoscenza, ma solo un viaggio di ascolto, un percorso fatto in punta di piedi senza far rumore, senza l’avidità di voler vedere tutto o di voler capire quanto si vede, se poi uno volesse scrivere del viaggio dovrebbe lasciare molti spazi vuoti, dovrebbe scrivere parole leggere, così lievi sulla carta, tanto che il respiro del lettore potrebbe farle volare via.

Forse per questo De Agostini ha fatto 20 mila fotografie. Era un modo “leggero” di far conoscere quei luoghi. E le parole dei suoi libri sulla Patagonia sembrano le ancelle che sollevano il manto della principessa. La regina è l’immagine, poi vi sono i paggi, le ancelle che sollevano il velo, che spiegano quello che il lettore sta vedendo. E le “immagini” come sappiamo sono piene di immaginario, più delle parole, dei discorsi, dei libri stessi. Sarebbe bello fare un dizionario sul modo di guardare la natura. Tanti modi diversi di aprire le palpebre quanti sono i colori della natura. Posso guardare una montagna allo stesso modo con il quale vedo una pianura? E il colore rosso posso vederlo come vedo il verde? Non cambia il ritmo del respiro quando vedo colori così lontani dalle sfumature dei colori del mediterraneo?

A volte gli uomini guardano alla natura come fanno le telecamere messe dentro i garage di un condominio. Con indifferenza e puntigliosità, ma senza “vedere” le persone. Così noi guardiamo la natura, classificandola. Ma se questo è possibile nell’antica area mediterranea, non è possibile nei luoghi dove la natura vive al di fuori del “nostro” tempo. Non ci sono gli strumenti. Sarebbe come -dico per paradosso- voler usare lo sguardo geografico maturato suoi luoghi della terra per “vedere” la superficie di Marte. Leggere le immagini che il Rover ci sta mandando con lo sguardo di un geografo positivista.

Il vento vuol dire molto nella Terra del Fuoco. Anzi, il vento è tutto. Domina le case, i discorsi degli uomini, l’economia e l’immaginazione. Ci vorrà ancora molto tempo prima che il vento diventi materia solida. Al vento sono state dedicate statue, monumenti, poesie, il mito di Eolo che dona ad Ulisse un otre nel quale sono rinchiusi tutti i venti della terra, qui non può esistere. Nella Terra del Fuoco, Eolo sarebbe un re senza sudditi, oppure un re sempre in guerra con i suoi sudditi. Qui il vento è un guerriero indomabile. Lo sapeva bene Saint Exupéry quando pilotava l’aereo da Buenos Aires a Rio Gallegos nel 1929/1930 quando trasportava la posta da un luogo all’altro della Patagonia. Lo seppe bene Fernando Magellano quando nel 1520 attraversò lo stretto. E lo sapeva bene anche Darwin, quando per un colpo di vento nel 1832 la nave Beagle sulla quale era imbarcato si stava per capovolgere. Capire il vento, venire a patti con questo fiume impetuoso e trasparente è fondamentale per la vita a queste latitudini.

Scrivere un reportage dopo aver fatto questo viaggio sarà possibile? Ho educato lo sguardo a “vedere” bene quello che ho visto? So usare bene gli aggettivi per far valere le differenze di colori della natura? Ed i verbi di movimento che conosco indicano bene il passo degli indios nomadi, i salti dei guanacos o l’andatura buffa dei pinguini? La pagina che scriverò sarà completa, luminosa e bella come lo sono le carte geografiche? Ho sempre pensato che ci vuole più immaginazione a raccontare come è fatta la natura che hai davanti agli occhi che scrivere un racconto di fantascienza. “Natura” poi che vuol dire? Non sono io stesso parte della natura?

Per raccontare la realtà ci vuole immaginazione e fantasia, un vocabolario ricco di parole come può esserlo una sorgente alpina, saper scrivere periodi che abbiano la concretezza delle strade nel deserto, fare dialoghi veri come fa il vento con gli alberi, ma soprattutto scrivere una cosa “utile” a chi lo legge. Non l’utilità di una guida turistica ma l’utilità di un tappeto volante. Che offre un punto di vista più concreto, dinamico e documentato di google maps o google place.

A questo è servito fare un viaggio nella Patagonia meridionale e nella Terra del Fuoco inseguendo le orme di De Agostini, a capire l’utilità di un tappeto volante.

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