Michela Di Renzo
Una notte al Pronto Soccorso

La creatura

«Il paziente, centoventi chili per un metro e sessanta, fissava immobile un punto del soffitto, in silenzio: in quei mesi nessuno lo aveva mai sentito parlare, ma solo emettere suoni inintellegibili che la madre riusciva a interpretare»

“A’ creatura, a’ creatura tene e’ crisi!”. Le urla arrivavano fino in fondo alla corsia tanto che Anna le sentì prima ancora di entrare in Reparto. “Oddio, ci risiamo”, pensò alzando gli occhi al soffitto. Con quindici posti letto liberi e la creatura ricoverata, la notte si annunciava complicata. Oltre tutto non si sentiva nemmeno bene.

“Oggi pomeriggio non sono riuscita a dormire, ho un mal di pancia tremendo”, aveva detto a Filippo, incontrandolo sul pianerottolo di casa.

“Si vede, ti sono venute due occhiaie…”. Quel ragazzo sapeva essere sempre di conforto in certi momenti. Come se non bastasse aveva aggiunto: “Ma se non ti senti bene, come fai a fare la notte?”

“Prenderò un toradol in ospedale. Chissà chi trovo a quest’ora che mi sostituisce”. Anna aveva sceso le scale senza salutarlo. Parlava bene lui che lavorava in banca: orario fisso, sabato e domenica liberi, tutte le notti a dormire nel suo letto, anzi nel loro, perché convivevano da due anni. Mica come lei che faceva la specializzanda al Pronto Soccorso. E poi faceva le battute sulle occhiaie.

“Ma che sta succedendo?” chiese indicando verso la stanza da dove provenivano le urla. Arianna, seduta al bancone davanti al foglio delle consegne, scosse la testa: aveva un’espressione imperturbabile, come al solito, ma Anna aveva imparato a riconoscere il suo tono dell’umore dalla piega delle labbra, su cui aveva ritoccato da poco il rossetto: se erano rivolte verso il basso, come in quel momento, voleva dire che la guardia pomeridiana era andata male.

“Le solite storie, è tutto il pomeriggio che Teresa chiama in continuazione”.

“Ma non erano stati dimessi tre giorni fa?”

“Appunto. Giusto il tempo di arrivare a Napoli e tornare indietro. Sono saliti in Reparto nel pomeriggio”.

“Ci mancavano loro. Ho appena incontrato Simona, l’infermiera e mi ha detto che ci sono tanti letti liberi”.

“Quindici. Abbiamo fatto tante dimissioni, troppe”. Ora Arianna stava proprio storcendo la bocca in una smorfia di disapprovazione, lasciando intravedere gli incisivi superiori leggermente sporgenti.

Con Anna si erano conosciute da poco, ma si erano rimaste subito simpatiche, probabilmente per via della somiglianza fisica, essendo entrambe basse e minute, anche se il volto di Arianna era più bello del suo, che era squadrato e col naso a patata, mentre l’amica aveva un ovale perfetto, con i lineamenti regolari, valorizzati da un trucco sapiente che si ritoccava durante i turni di lavoro.

“Mi rilassa ripassarmi la matita sugli occhi, o aggiustarmi le sbavature del rossetto, mi serve a staccare”, le aveva detto.

Una sera poi, di fronte a una pizza, Arianna le aveva confessato di voler lasciare la specializzazione: la Medicina d’Urgenza era troppo impegnativa per lei, a settembre avrebbe tentato l’esame per fare il medico di base. “Si concilia meglio con la famiglia. Me lo ha consigliato anche Giulio”.

“Filippo su questo non ha mai interferito”, aveva replicato Anna sentendo una stretta al cuore. E non solo perché le dispiaceva non avere più Arianna come collega. Le erano venute in mente le parole di sua madre quando aveva vinto il concorso.

“Come farai a fare il medico del Pronto Soccorso quando avrai dei figli?”

“Mamma a me piace come lavoro, e per ora ai figli non ci penso”.

Non era del tutto vero perché Anna, dopo aver fatto l’amore con Filippo, ogni tanto si chiedeva come sarebbe stato avere un bambino da lui, augurandosi che assomigliasse al padre di faccia, perché il suo ragazzo aveva gli occhi azzurri e un volto angelico, e che prendesse da lei la voglia di studiare, perché Filippo non si era mai laureato ed era entrato in banca grazie alle raccomandazioni del padre. “Per ora non assomiglierà a nessuno di noi due”, aveva replicato il suo ragazzo l’unica volta in cui avevano parlato dell’argomento. Poi accortosi di essere stato brusco le aveva dato un bacio sul naso a patata, aggiungendo: “Ne riparleremo tra qualche anno, ne abbiamo di tempo”. “Hai ragione, è meglio che prima finisca la specializzazione”.

“E poi, scusa, mamma, tu che ne sai? Fai l’insegnante di lettere”, proseguì Anna.

“So quello che vuol dire avere una famiglia”.

“Lascia decidere a lei”, era intervenuto suo padre.

“Parli bene te che sei stato per anni al lavoro fuori Siena e quando tornavi a casa scappavi a giocare a bridge”.

Anna si era alzata da tavola, per non assistere all’ennesima discussione tra i suoi genitori. Aveva fatto bene suo fratello a scapparsene in Inghilterra, anche se a volte le sue telefonate da Londra trasudavano nostalgia.

“Io stasera non mi sento nemmeno bene, ho un mal di pancia…”, proseguì rivolta ad Arianna.

“Allora evita di mangiare schifezze”. La collega, che stava attenta alla linea, beveva e basta durante la notte, tè verde a litri, che si portava da casa in un thermos, mentre Anna, tra un ricovero e l’altro, si rimpinzava di snack dolci alle macchinette.

Una donna in sovrappeso, con i capelli spettinati e un maglione sformato si avvicinò al bancone. “Dottore’, ci siete voi di notte? A Morgantiello hanno messo il valium perché teneva e’ crisi”.

“Teresa, fammi prendere le consegne. Dopo vengo a visitare Gaetano”. Anna fu brusca ma se non faceva così quella era capace di chiamare ogni mezz’ora, se non altro per parlare, visto che passava la notte su una sedia accanto al figlio.

La donna si girò e tornò lentamente nell’ultima stanza della corsia. Sembrava che fosse ulteriormente ingrassata in tre giorni: la gonna nera, la stessa del ricovero precedente, tutta sgualcita, le tirava in vita e le gambe dentro alle ciabatte sfondate erano ancora più gonfie del solito.

“Che situazione”, mormorò Arianna.

“Ma quanti giorni sarà che non si fa la doccia?” I capelli corti e neri della donna, erano più sporchi del solito.

“Appena entri nella stanza lo senti”.

Anna prese le consegne e andò a cambiarsi.

“Se hai qualche dubbio sui ricoveri del pomeriggio chiamami, tanto prima delle undici non vado a letto”, fece Arianna, salutandola.

“Ti chiamo di sicuro, ma verso l’una”. Anna sorrise. Era troppo scrupolosa la sua collega, per questo non reggeva l’emergenza, altro che famiglia: quando era di guardia non toccava mai il letto, a differenza di lei che riusciva sempre a dormire qualche ora.

“Allora che succede?” Appena Anna entrò in camera, avvertì un odore acre di sudore che proveniva dall’angolo in cui era Teresa. La donna si alzò subito, in segno di rispetto, continuando a tenere le mani dentro al cinturino della sottana, a mo’ di tasca, in modo da allargare l’elastico che la stringeva.

“Dottore’, Gaetano non sta bene”.

Il paziente, centoventi chili per un metro e sessanta, fissava immobile un punto del soffitto, in silenzio: in quei mesi nessuno lo aveva mai sentito parlare, ma solo emettere suoni inintellegibili che la madre riusciva a interpretare.

“In che senso?” I parametri sul monitor a cui era attaccato Gaetano erano perfetti.

“È tutto il giorno che si lamenta, non respira bene”.

“Se ha una polmonite, è normale”. Anna si avvicinò al letto, quel tanto che bastava per poggiare il fonendoscopio sul torace del paziente che aveva gli stessi capelli scuri della madre, e unti come i suoi: non si sentivano grossi rumori, ma tra il peso del ragazzo e la mancata collaborazione era impossibile trarre una conclusione. Mentre stava auscultando, sentì uno strizzone alla pancia.

“Teresa, mi pare che non ci sia niente di grave”, tagliò corto “ora inizio a fare i ricoveri e dopo ripasso”.

La donna la guardò insoddisfatta, ma non la trattenne. Tanto c’era tempo per un ulteriore controllo.

Anna andò in bagno e si sentì un po’ meglio. Poi si mise a lavorare, fermandosi ogni tanto a bere un tè caldo quando avvertiva il mal di pancia. Intorno alla mezzanotte, dopo una fitta al basso ventre più forte delle altre, decise di prendere un antidolorifico.

Per fortuna, dopo un’ora, quando il dolore era scomparso del tutto, la schermata del computer indicò che non c’erano più pazienti da ricoverare in Pronto Soccorso. “È andata meglio del previsto”, pensò decidendo di sdraiarsi nella stanza del medico di guardia.  Fu allora che Teresa si affacciò al bancone.

“Dottore’, Morgantiello si è addormentato”.

“Meglio così, ora riposiamoci anche noi”. Anna fece il cenno di alzarsi.

“Ma voi che dite, tornerà come prima? Noi teniamo una casa tanto grande e lui andava su e giù in bicicletta a giornate intere”.

“Me lo immagino”, pensò Anna. Forse dieci anni fa. Era il terzo ricovero in pochi mesi, quello, e nessuno aveva mai visto il paziente in piedi. Possibile che sua madre non se ne rendesse conto.

“Perché no?” La voce le uscì poco convinta ma Teresa non se ne accorse o forse fece finta. Alla luce soffusa del bancone che le illuminava il volto dal basso, Anna notò per la prima volta che il viso della donna, nonostante la pelle unta sulla fronte, doveva essere stato grazioso, prima che i chili di troppo e le amarezze della vita lo deformassero.

“Teresa ma lei deve essere stata carina da giovane”, le uscì di bocca prima di pensare a quello che stava dicendo.

“Dottore’ modestamente… Lo sapete come ci siamo conosciuti con Salvatore? Io aspettavo sempre l’autobus davanti a un Madonnino che era in fondo alla strada di casa mia, in campagna. E lui tutte le volte mi guardava, mi guardava, finché non si è fermato e mi ha chiesto come mi chiamavo. Tenevo sedici anni, sedici, dottore’ e lui diciotto. Era nu bellu guaglione, sapete?”

“Ci credo”, fece Anna perplessa. Il babbo del paziente che, dopo aver dormito in macchina, trascorreva le giornate in ospedale accanto alla moglie era un uomo tracagnotto, con le gambe storte e il viso insignificante, con gli occhi miti, a pesce lesso. Era difficile immaginarselo come un bel ragazzo, mentre Anna si vedeva davanti Teresa, con quello sguardo vivace e il musetto da scoiattolo, ferma in fondo alla strada di casa. Doveva essere stata lei ad attaccare bottone al futuro marito che ora maltrattava regolarmente, usandolo come valvola di sfogo. “A Salvatore gli manca l’aureola del santo”, commentava Arianna.

 “E quando è nato Gaetano quanti anni aveva?”

“Ventuno dottore’”.

“E dopo non ha voluto altri figli?”

“E chi lo teneva il coraggio di farne un altro?”

Anna arrossì. “Mi scusi Teresa, ho fatto una domanda stupida”.

“Ma no dottore’…Scommetto che voi figli ancora non ne avete”.

“No, per ora è presto”.

 “Ma voi dottore’ pensate che Gaetano tornerà come prima?” chiese di nuovo Teresa.

“Perché non dovrebbe?” Non era quello il momento di mettersi a spiegare le complicanze di una polmonite in un paziente del genere, e poi lei era solo una specializzanda, ci avrebbero pensato i suoi superiori, casomai.

Anna si alzò in piedi e si stirò sbadigliando. “Ora provo a sdraiarmi”, fece. Teresa non ebbe il coraggio di replicare, annuì con la testa, si girò e tornò nella camera del figlio. Vedendola camminare lentamente a testa china, strascicando i piedi in quelle pantofole sformate, con le spalle ricurve e le mani nella sottana, Anna si chiese se la vita di quella donna sarebbe stata diversa se non avesse aspettato l’autobus davanti a quel Madonnino. O forse no.

Andò in bagno a fare la pipì prima di buttarsi sul letto del medico di guardia e si accorse che aveva le mutande macchiate di sangue. “Ecco come mai ho questo mal di pancia, mi sono venute, in ritardo come sempre quando sospendo la pillola per un paio di mesi. Però non sono mai state tanto dolorose”. Le ritornarono in mente le parole di Teresa, “voi figli non ne tenete?” e sentì il cuore accelerare. Eppure lei e Filippo in quel periodo stavano sempre molto attenti, non era il caso di preoccuparsi. Si sdraiò sul letto e cercò di dormire, ma aveva appena chiuso gli occhi che avvertì di nuovo uno strizzone alla pancia. “È altamente improbabile, ma è meglio levarsi il pensiero”. Prese un barattolino per l’urina in corsia, disse a Simona, l’infermiera, che scendeva un attimo in Pronto Soccorso e si diresse verso il Laboratorio di Analisi. La tecnica, una ragazza più o meno della sua età, non si fece pregare. Però ci rimase male quando la vide sbiancare di fronte alle due linee belle nette che c’erano sul test di gravidanza. “Non sei sposata?” le chiese.

“Convivo da due anni, ma in questo momento non ce lo aspettavamo”.

“Un figlio è sempre una bella notizia”, intervenne una dottoressa di mezza età che era comparsa alle spalle della tecnica, per farla tornare al lavoro.

Anna si mise seduta su una sedia: il cuore le batteva a mille, ma cercò di calmarsi: in fondo aveva già ventisette anni, l’età in cui l’aveva avuta sua madre, e Filippo aveva un posto fisso. Certo quel dolore e la macchia di sangue sulle mutande non facevano presagire niente di buono. E oltre tutto aveva preso il toradol per il dolore, anziché dare retta all’infermiera; quella notte Simona, che era la più vecchia in turno, vedendola frugare nel cassetto del suo carrello, le aveva detto con il tono di superiorità che riservava agli specializzandi: “Se devi prendere qualcosa a quest’ora, a stomaco vuoto, prendi una tachipirina”. Anna aveva fissato con odio il suo volto arcigno, alla Totò, con il mento sporgente, e senza replicare si era spruzzata la fiala di Toradol sotto la lingua.

Anche se erano più delle due provò a chiamare Filippo. Lasciava sempre il cellulare acceso sul comodino, non perché aspettasse chissà quale chiamata, ma perché non se ne staccava mai, tanto che Anna lo prendeva in giro dicendogli che ne era dipendente. Rispose dopo due squilli e con la voce bella pimpante.

 “Mica ti ho svegliato?”

“Ma no, stanotte non riesco a dormire, non so come mai”.

“Questa è telepatia”.

“Però non mi fa ancora male la pancia. Te piuttosto come stai?”

“Insomma. Filippo, ti devo dire una cosa”.

Lui stette un attimo in silenzio. “Dimmi”, fece preoccupato.

“Sono incinta”.

Anna proseguì: “Mi sembrava strano questo dolore, poi sono andata in bagno a fare la pipì e ho visto una macchia di sangue nelle mutande”. Le parole le uscirono asettiche, come se stesse parlando di un caso clinico ad un collega ginecologo anziché al suo ragazzo, ma le sembrava impossibile che una cosa del genere fosse capitata proprio a lei. “Allora sono scesa in laboratorio e mi sono fatta fare il test sulle urine. Ed è venuto positivo”.

La correlazione tra i due eventi non era chiara, perché mancava il dubbio che le aveva messo Teresa con la sua domanda, ma Filippo aveva altro per la testa per farci caso.

“È tardi ora, parliamone con calma domani”, fece dopo una decina di secondi che a Anna sembrarono durare un secolo.

“Va bene”.

Tornò in Reparto a capo basso, per nascondere le lacrime che le salivano agli occhi, lacrime di rabbia perché lui non era affatto contento, e di preoccupazione per quel maledetto farmaco che aveva preso a casaccio. Il mal di pancia stava ricominciando. Dal fondo del corridoio vide la figura alta e magra di Simona, a burattino, che agitava le braccia verso di lei. “Vieni qua”, stava urlando, accennando alla stanza di Gaetano, dentro alla quale scomparve. Anna corse il più veloce possibile, andando a sbattere contro uno dei due barellieri che davanti alla porta tenevano ferma Teresa. La donna si divincolava, perché voleva entrare a tutti i costi e urlava: “Sta murenne, sta murenne!”.

“Che succede?”

“Ma dov’eri? Ti ho cercato in Pronto Soccorso ma non ti avevano visto”. Simona era arrabbiatissima. “Ha iniziato a respirare male e abbiamo aumentato l’ossigeno, ma la saturazione non sale”. Il ragazzone, con il volto cianotico, era stato messo seduto contro la testata del letto, con l’ossigeno a palla.

“Questo è l’emogas”, fece un’allieva entrando nella stanza.

“Facciamogli il cortisone”, disse Arianna.

“Eccolo”. Simona aveva già la siringa col farmaco pronta.

“E poi chiamiamo il rianimatore”.

“Già fatto, sta salendo anche il medico del Pronto Soccorso”. Il tono secco della risposta implicava “se aspettavo te…”, ma l’infermiera non lo disse. “Però mi hanno detto che hanno un’urgenza”.

Le urla di Teresa dal corridoio continuavano imperterrite. “Sta murenne!”.

“Qua va messa la NIMV”, fece Anna.

“Noi ce l’abbiamo, il 26 l’ha tenuta fino a stamani mattina, te la sai settare?”

 “Ci hanno fatto il corso due giorni fa. Casomai non so mettere il mascherone”.

“A quello ci penso io”.

L’allieva tornò con l’apparecchio e le mani rapide di Simona lo fissarono dietro la testa e la nuca del ragazzo mentre Anna, il cui mal di pancia era scomparso del tutto, lo teneva fermo contro il volto, eseguendo alla lettera le istruzioni dell’infermiera. Per fortuna il paziente era soporoso, altrimenti sarebbe stato un bel problema con la forza che aveva nelle braccia. Quando ci fu da inserire i parametri, Anna tirò fuori uno schema che si era fatta apposta, da tenere nella tasca della divisa in caso di bisogno; mentre ruotava i pulsanti della macchina, sentì lo sguardo vigile di Simona sulle sue spalle. Quando dopo pochi minuti il saturimetro segnò buoni valori di ossigeno e la pelle del ragazzo iniziò a schiarire, l’infermiera si spostò.

“Sta migliorando”, fece scuotendo la testa in segno di assenso.

Erano rimaste loro due sole davanti al paziente, perché tutti gli altri erano alle prese con Teresa, che continuava ad agitarsi nel corridoio.

“Ero al Centralizzato quando mi hai cercato, ho scoperto di essere incinta”, disse Anna a voce bassa andando vicino a Simona. “Non me lo aspettavo. E poi ho anche preso il toradol, anziché dare retta a te”. Le vennero le lacrime agli occhi mentre continuava: “Per cercare conforto ho chiamato il mio ragazzo e mi ha quasi riattaccato”.

“Gli uomini… loro che ne sanno che vuol dire averli dentro per nove mesi?” Simona indicò con la testa verso il letto di Gaetano. Poi si rese conto che quella frase era tutto tranne che una consolazione e aggiunse: “Vedrai che il tuo ragazzo poi cambia idea”. Sul suo volto arcigno comparve un sorriso appena accennato che però le illuminò tutto il volto.

In quel momento entrò nella stanza l’anestesista con il medico del Pronto Soccorso. Entrambi guardarono sorpresi gli occhi umidi della collega.

“Che paura che ho avuto, stava per morire”, fece Anna asciugandosi le lacrime. “Ditemi se abbiamo settato bene la macchina”.

“Direi proprio di sì”, replicò l’anestesista.

“Ha iniziato a desaturare all’improvviso”, iniziò a raccontare l’infermiera, mentre Anna, che era tornata calma, commentava i risultati dell’emogasanalisi.

Vedendo che il ragazzo era stabile, decisero di far passare la mamma.

Teresa entrò nella stanza rossa in viso come un tizzone e con gli occhi fuori dalle orbite. Quando vide suo figlio attaccato alla macchina, si avvicinò al letto ripetendo: “Gaeta’, Gaeta’!”. L’anestesista iniziò a spiegarle che la NIMV era stata messa per far respirare meglio il paziente, visto che i valori di ossigeno non erano buoni, ma la donna lo guardava stranita, come se il medico stesse parlando una lingua straniera. A quel punto intervenne Anna: “Ora gliela teniamo tutta la notte ma domattina proviamo a toglierla”. Aveva appena finito di parlare che Teresa, abbassando la testa come un toro che si getta contro il panno rosso, si slanciò contro di lei. Simona, che era ancora nella stanza, fu rapida nell’interporsi tra le due, beccandosi una bella botta sul costato, mentre i due uomini si lanciarono contro la donna e la presero per le braccia. Anna sgattaiolò via e corse a nascondersi nella stanza del medico di guardia. Chiuse la porta a chiave e si sdraiò sul letto, perché si sentiva svenire.

“Che nottata… me la ricorderò per tutta la vita”, pensò vedendo la stanza che le girava tutto intorno. Chiuse gli occhi e si mise una mano nelle mutande, per vedere se stava perdendo sangue, ma erano asciutte. Erano anni che non pregava ma si ritrovò a invocare il Signore perché quel maledetto farmaco non avesse conseguenze tremende. Poco dopo sentì bussare alla porta. Era Simona.

“L’abbiamo dovuta sedare con un talofen e l’anestesista ha chiamato lo psichiatra. Ora le fanno un TSO”.

“Addirittura”.

“È ingestibile. Te come stai?”

“Provata. E te?”

“Mi sa che ho un paio di costole rotte, quella donna peserà almeno cento chili. Si era buttata addosso a te con uno slancio, se ti prendeva, piccina come sei, ti mandava al Creatore”.

“Almeno non avevo più pensieri”.

“Ma che discorsi fai? Piuttosto domani vai subito in Ginecologia a farti dare un’occhiata”.

“Ci avevo già pensato”.

“E ora riposati, tanto dopo questa faccenda non facciamo salire più nessuno dal Pronto Soccorso”. La voce di Simona era stranamente affettuosa.

“Ma chi dorme? Piuttosto vengo a vedere come sta Gaetano. Teresa dov’è?”

“Accanto a lui, con il vigilantes che la sorveglia”.

Nella stanza il paziente respirava tranquillo, con i parametri perfetti. Accanto a lui c’era la mamma, accasciata su una sedia. Quando Anna entrò, la donna sembrò non averla nemmeno vista, tanto era stordita dai sedativi: la sua figura metteva quasi paura, con la pancia enorme che le risaliva all’altezza del petto perché si era slacciata la gonna, le gambe gonfie come due colonnini di Piazza, le palpebre ciondoloni e la bocca mezza aperta. Eppure a Anna non aveva mai fatto tanta pena come allora. “Chissà quanto starà in pensiero in Psichiatria, lontana dal figlio”.

Dopo il TSO di Teresa, Anna si sdraiò, giusto per riposare le gambe, perché di sonno non ne aveva per niente.

Arianna, che arrivava sempre alle sette e mezzo, prima di tutti gli altri specializzandi, la trovò seduta al bancone, con i capelli corti tutti ritti e la faccia stravolta.

“Come è andata?”

“Non ho chiuso occhio, non ti dico quello che è successo con Teresa”. Anna spiegò con calma l’accaduto: gli occhi della collega truccati con una riga spessa di eyeliner azzurro esprimevano un misto di ammirazione e sgomento. “Sei stata brava”, commentò alla fine del resoconto.

“Mi è andata bene”. Si rendeva conto di aver avuto abbastanza sangue freddo da gestire la situazione ma non le piaceva autoincensarsi.

“Non ti sentivi nemmeno bene”.

“Ora però sto meglio”. In effetti il mal di pancia non si era più fatto sentire e perdite ematiche non ce n’erano più state; però Anna non ebbe voglia di raccontare tutto il resto.

“Hai voglia di una colazione al bar? Magari ti prendi un cornetto integrale”.

“Devo avere una faccia da paura”.

“Un pochino sì. Se vuoi ti aggiusto io”. Arianna aveva già preso in mano la trousse che teneva sempre in borsa.

“No, andiamo così, non ho voglia di truccarmi; il cornetto non so se lo prendo, ma un caffè mi ci vuole di sicuro”.

Quando tornò in Reparto, si cambiò e si lavò per andare in Ginecologia.

Prese in mano il cellulare e vide il messaggio di sua madre che le chiedeva come era andata la notte. La sera prima si erano sentite e le aveva raccontato che non stava bene. Mentì rispondendo: “Bene”. Di tutto aveva voglia tranne che di sentirsi dire: “E ora come farai?” oppure “Io te lo avevo detto”. Si accarezzò la pancia, pensando all’esserino microscopico che c’era dentro: l’immagine di Teresa le si riaffacciò alla mente, stringendole il cuore di pena e di paura, ma al tempo stesso avvertì una sensazione che non aveva mai provato prima, un’energia positiva che la sorprese.

Si diresse verso l’uscita ed era arrivata in fondo al corridoio quando vide davanti a sé un ragazzo basso, minuto, con un viso d’angelo e due occhiaie che gli arrivavano fino ai piedi: si vedeva che non aveva passato una bella notte nemmeno lui. Prima che Filippo le dicesse qualcosa, Anna si avvicinò a lui e si fece abbracciare.


Le fotografie sono di Giuseppe Grattacaso

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