Ida Meneghello
Il cinema de laMeneghello

Il caso Bellocchio

"Rapito", il nuovo film di Marco Bellocchio appena presentato a Cannes è potente, ben illuminato e ben recitato. Non è una pellicola di denuncia contro la Chiesa cattolica, ma una riflessione su quale sia il peso di una violenza sull'identità di un bambino

Marco Bellocchio, magnifico ragazzo di quasi 84 anni, è l’ultimo maestro del nostro cinema e il suo film Rapito, appena proiettato a Cannes e da oggi nelle sale, ha la potenza visionaria che solo le grandi pellicole hanno. È facile prevedere che, comunque vada il Palmarès, sarà tra i migliori film di quest’anno.

Cosa vuole raccontarci Bellocchio riesumando una storia di violenza e di ingiustizia avvenuta nel 1858? In apparenza, è tutto crudelmente semplice: un bambino ebreo di sette anni cresciuto in una famiglia numerosa e benestante nella comunità di Bologna, viene strappato letteralmente ai suoi dalla gendarmeria pontificia per ordine del Santo Uffizio e del pontefice in persona e portato a Roma per essere educato cristianamente. A innescare il dramma è una domestica che dice di averlo battezzato all’insaputa dei genitori credendolo in pericolo di vita (un racconto improbabile, in realtà un pretesto visto che il piccolo fu nuovamente battezzato in Vaticano).
Ma che c’azzecca questa storia con noi, si chiede lo spettatore che assiste con un nodo in gola alle scene iniziali del rapimento ed è assalito dal desiderio irrefrenabile di radere al suolo il Vaticano, lanciando grida di giubilo ai bersaglieri che ne sfondano le mura a Porta Pia? Intanto si nota una coincidenza: Bellocchio si è appassionato ai rapimenti, dopo il caso Moro, raccontato nuovamente l’anno scorso con Esterno notte, adesso c’è il caso Mortara. È lo stesso regista a stabilire questo nesso: «Entrambi i rapimenti hanno a che fare con una forma di cecità, quella ideologica dei brigatisti, certi che avremmo avuto una società comunista guidata da un partito rivoluzionario della classe operaia, e quella di Pio IX, convinto che non si potesse liberare il bambino perché dopo il battesimo si è cristiani per sempre».

Superato il momento iniziale di rabbia distruttrice, lo spettatore intuisce che il film non si limita a contrapporre i buoni ebrei ai cattivi cattolici, ma offre un punto di vista più articolato. Ed è questa complessità, oltre alla bravura di un cast perfetto (a cominciare dal piccolo Enea Sala, la madre Barbara Ronchi, Fabrizio Gifuni e Filippo Timi) e alla meraviglia di una fotografia che pennella le scene come quadri, a rendere il film prezioso e imperdibile. Una complessità che ci costringe a entrare in punta di piedi nella vicenda drammatica di Edgardo Mortara, senza poterla liquidare con un giudizio sommario di condanna. Perché la condanna ovviamente c’è, ma Bellocchio non si limita a denunciare un caso clamoroso di violenza religiosa, ingiustizia e antisemitismo creato volutamente da una istituzione, la chiesa cattolica apostolica romana, che strumentalizza un bambino per riaffermare il suo potere a dispetto della Storia. Bellocchio realizza un’operazione più sottile in cui non c’è posto per i pregiudizi e le ideologie, e lo fa proprio il regista de L’ora di religione” e Bella addormentata. «La nostra intenzione non è mai stata quella di fare un film contro la Chiesa, contro il Papa o contro la religione. Non c’è mai stato alcun intento politico e ideologico», ha spiegato. Bellocchio segue il piccolo nel suo smarrimento e nei suoi tentativi di sopravvivere adeguandosi alle nuove regole che gli vengono imposte, in apparenza impenetrabile, in realtà sempre sull’orlo del pianto. Fino a che punto si può spiegare razionalmente ciò che avviene in un bambino che ha subito una tale violenza?

I chiaroscuri di questo dramma restano comunque un mistero, Edgardo è diventato suo malgrado protagonista e insieme vittima di una storia infinitamente più grande di lui, una storia di cui porterà il segno fino alla fine. Caduto lo Stato pontificio, Edgardo non tornerà alla sua famiglia d’origine, diventerà sacerdote e predicatore col nome di Pio, una scelta di campo netta, in apparenza una conversione autentica. Ma tutta la sua lunga vita sarà segnata da un tormento interiore che lo consumerà nel corpo e nella mente. Vivendo un senso di straniamento totale che gli farà confessare nei suoi taccuini: «Non c’è mai stato un posto mio». Una frase che avrebbe potuto scrivere anche Aldo Moro dalla prigione delle Brigate Rosse.


Accanto al titolo, fotografia di Anna Camerlingo.

Facebooktwitterlinkedin