Danilo Maestosi
Alla galleria Monogramma di Roma

L’arte del buio

Una bella mostra curata da Gabriele Simongini rende omaggio a Beatrice Cignitti, artista appartata che ha scelto il buio e il mondo delle ombre come suo terreno di ricerca. Ma sempre restando aderente alla trasfigurazione della classicità

Con caparbia coerenza, da quando ha deciso di scommettere sulla sua vocazione per l’arte e costruirci su la sua vita e la sua carriera, Beatrice Cignitti governa un regno di ombre. Lì ha eletto il suo rifugio, il suo laboratorio e il suo palcoscenico. Scelta in controtendenza, almeno per l’Occidente di oggi, così estraneo al pudore fecondo della semioscurità esaltato da un custode della tradizione giapponese, come lo scrittore Tanizaki. Un Occidente che sul culto artificiale della luce ha fondato i suoi traguardi di modernità creativa, misurando e inseguendo i progressi e lo spettacolo della tecnologia: dall’accensione dei lampioni a quella degli specchi luminosi del cinema, della tv, dei computer.

Quand’era poco più che ventenne, Beatrice Cignitti ha trovato invece nel buio la sua cifra espressiva e il suo luogo di pittrice. Restringendo sempre più al bianco e nero la sua tavolozza, il mistero della cromia condensato dalla presenta e dall’assenza fantasmatica di tutti i colori. Rinunciando al pennello per la matita, all’intensità onnivora della campitura dipinta per una ragnatela di segni sovrapposti e intrecciati, così fragile che basta un errore a dissolverla. Un lavoro di concentrazione e devozione monastica, mesi interi per raggiungere sul foglio una meta compiuta. E vedersela insieme sfuggire davanti, come succede ad ogni artista che insegue la sua verità dando la caccia all’invisibile. Oltre il confine muto della pura apparenza. Per spingersi verso quell’altrove, certo, poi servono anche dei trucchi. Il ricorso alla bicromia del chiaroscuro non basta. Per mettersi in scena attraverso forme e volumi se l’autore, come ha fatto la Cignitti, rinuncia al monologo microfono in mano, bisogna scegliere i propri attori e addestrarli. Il suo cast l’autrice lo ha composto servendosi di oggetti che la circondavano. Vasi, fiori, recipienti, bottiglie, matasse di fili, giocattoli. Il sexappeal quotidiano dell’oltreumano. All’inizio un ingaggio di comparse. Poi cimeli recitanti più estroversi e smagati, arruolati e collaudati in altri contesti, che sulla battuta trascinano il peso di esperienze, richiami di vissuto e immaginario diversi. Come le conchiglie, modellate dal respiro del mare, dal setaccio della sabbia e dell’onda in giochi di trasmutazioni infinite. Uno dei suoi leit motiv più riusciti.

Il secondo passaggio è stato quello di togliere loro e ai loro corpi l’ingessatura da nature morte. E qui è arrivato il colpo d’ala: la manipolazione della luce. Gli oggetti che Beatrice Cignitti ritrae e ha continuato a ritrarre, sfuggendo a ogni regola fisica, non si limitano ad assorbire la luce, ma la emettono a segnare e invadere di stupore lo spazio. Insomma si accendono e ti brillano davanti come filamenti di lampadine. Autorizzando lo spettatore ad ogni fuga di coinvolgimento e di fantasia. Ricordi che si ridestano, emozioni, contrappunti di musica. L’aura, un risarcimento dell’aura data da troppi per morta, che torna a impregnare di mistero e profondità, come un timbro di autenticità, l’unicità dell’opera d’arte.

Il bagliore segreto della realtà, battezza con grande acume questa tensione estetica Gabriele Simongini, critico e storico d’arte che ha accompagnato per anni il decollo e le rare, applaudite, apparizioni pubbliche di Beatrice. E ha impresso come chiave di lettura questo titolo alla mostra con cui questa autrice si ripresenta al pubblico nella piccola sala bomboniera della galleria Monogramma di via Margutta, a Roma. Per dar conto di una svolta esistenziale e creativa che sta trasformando il suo regno di ombre. Infrangendo quella cappa di solitudine che la convivenza con un universo di soli oggetti si trascina appresso. E popolando di personaggi e presenze quell’universo parallelo e transumano di riflessi emotivi e mediati nel quale si era confinata., senza mutare, almeno in apparenza, la sua tecnica e il suo stile. Come? Chiamando in scena i corpi forgiati da alcuni maestri del passato che da sempre l’hanno ispirata.

Leggendo la sua biografia si intuisce che quel salto d’ispirazione è maturato quattro anni fa, quando da allieva Beatrice Cignitti si è trasformata in docente, prima partecipando come insegnante di disegno dal vivo ai corsi della scuola di nudo dell’Accademia di Roma, purtroppo inspiegabilmente cancellati dalla nuova dirigenza, poi ottenendo una cattedra all’Accademia di Frosinone. Un’esperienza brutalmente interrotta e un nuovo compito di trasmissione di strumenti e saperi che ha svincolato e cambiato anche i suoi orizzonti d’artista. Facendo emergere un nuovo impellente bisogno, quello di impadronirsi ancor più dello spazio del foglio e incanalare il disegno verso il modellato della scultura, l’urgenza più tattile delle emozioni che il corpo umano sprigiona. E che solo il genio, la mano degli artisti più dotati sa strappare all’inerzia della pietra, del marmo. Della morbidezza inorganica della creta.

E chi più dotato dei due maestri, Rodin e Michelangelo, che in questo primo esperimento sul suo nuovo corso Beatrice ha chiamato in scena, usando, mettendo in posa e reinterpretando come modelli alcuni dei loro capolavori.

Una fase di rodaggio dichiarata come tale dalla decisione di affiancare a questi studi su icone da museo, cui è riservata più di metà della mostra, una sorta di riepilogo dei lavori precedenti affidato a una decina tra lavori mai esposti, o opere inedite realizzate di recente che continuano invece a declinare l’ingannevole spartito di “nature morte”. C’è persino una fantasmagoria di pastelli colorati, pratica in cui la Cignitti si è cimentata e poi ha lasciato in disparte.

Il primo e il dopo a confronto insomma. Inevitabile, a mio avviso, che la bilancia penda su questo secondo più praticato versante, reso più intenso da un lungo lavoro di perfezionamento e di scavo che scavalca le rigide briglie delle intenzioni, della razionalità dell’impianto, della ricerca di perfezione e consente alla pittura di dipingersi e spingersi da sola verso la soglia imprevedibile, sconosciuta del senso e del non senso del vivere. Chi ha detto che gli oggetti siano corpi più silenziosi ed inerti, abbiano meno cose da raccontare e da dire, quando l’arte li sottrae al loro destino di cose, violando le rigide gerarchie dell’uso e della convenienza che stanno precipitano verso il baratro il destino dell’umano? Che le architetture, le piazze deserte e metafisiche di De Chirico, che le bottiglie di Morandi rimandino voci più deboli, di un nudo e di un ritratto?

Sfidare i grandi del passato, confortati anche dalla sintonia con le idee che hanno espresso, comporta un rischio da soppesare: quello di restare schiavi dell’incanto per cui li ammiri, dell’ebrezza dell’aura che avvolge i loro capolavori e dimenticare, trascurare quella che tenti – che artista saresti se no… – di recuperare per altre strade con le tue reinterpretazioni. È questo pericolo che credo volessero sventare le avanguardie che più volte hanno profetizzato, invocato la morte delle Accademie. Per questo trovo formalmente impeccabile ma freddo, ammorbidito da un eccesso di devozione, l’omaggio che Beatrice Cignitti rende qui in mostra alla Pietà di Michelangelo. Troppo aggraziata, stemperata d’asprezza la torsione dei nudi che la sua matita prende in prestito alla Cariatide e alla Faunessa di Rodin. Molto più riuscito invece il movimento che restituisce a un altro capolavoro dello stesso autore, la Centauressa, facendo apparire e scomparire il miracolo di quella trasmutazione da donna ad animale, tra le quinte di un teatrino in penombra, in quella foschia di vellutato, capriccioso riserbo che è diventata col tempo la sua inconfondibile cifra d’artista e di donna, che si confessa e si nega, si fa avanti e si tira indietro allo stesso tempo, accetta di fare spettacolo ma non si presenta alla ribalta per l’applauso finale. Come in modo ancora più marcato fa in uno dei lavori più intriganti di questa mostra. Un autoritratto presentato dal titolo come un certificato anagrafico che segnala la sua età. 55 anni da poco compiuti. E impone a noi come unità di misura del suo percorso. Il buio in sala è ancora più fitto. Si intravede solo il caschetto di capelli e il rotondo inconfondibile del viso. A rubare lo sguardo sono solo i suoi occhi da demiurgo che si accendono e galleggiano ipnotici nell’oscurità.

Trasmettendo la stessa inquietudine, da scarica elettrica, che percorre i contorni dei suoi oggetti e in questi ultimi anni si è accentuata: una luce aguzza come una lama che si fa largo a spintoni, moltiplica di punti di fuga lo spazio e non tenta più di simulare un riflesso reale. L’arte come artificio, la vita come una lampadina che non sai da dove rubi energia e quando si spegnerà.

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