Nicola Bottiglieri
Sulle tracce di De Agostini/2

Respirare a Walichu

Il viaggio sulle tracce del sacerdote salesiano Alberto Maria De Agostini prosegue a Walichu, luogo di suggestive pitture rupestri. La visita si fa in silenzio, partendo dalla caverna grande e si cammina seguendo il corso del sole

A dieci chilometri dalla cittadina El Calafate, sul lago Argentino, vi è un promontorio roccioso che conserva alcune pitture rupestri, espressione della cultura del popolo Tehuelche (che chiamava se stesso Chonkes). Le pitture furono scoperte nel 1876 dallo scienziato argentino Francisco Perito Moreno che, al termine del suo viaggio nella Patagonia, scrisse Viaje a la Patagonia Austral, libro fondamentale per conoscere il cuore del deserto patagonico ed i suoi abitanti. I quali furono sterminati dagli stessi argentini nella famosa “guerra del deserto” negli ultimi decenni del secolo XIX. Moreno diede al lago il nome Argentino, trascurando quello indio Kelta, come pure mise il nome Walichu al luogo dove si trovano le pitture rupestri e Walichu nello spagnolo argentino significa “luogo oscuro”. La rinominazione delle carte geografiche è divenuta oggi una questione molto polemica, sollevata da molti intellettuali “revisionisti/nazionalisti” che vedono nell’uso di nomi “europei” una usurpazione della cultura nazionale. Un tema, quello dei nomi, che si apre a più vigorose polemiche nei confronti degli antropologi e dei missionari europei, soprattutto salesiani. Non va dimenticato che nel 2015 la statua di Cristoforo Colombo fu spostata dalla piazza vicino alla Casa Rosada dove si trovava e portata molto più lontano, di fronte all’aeroparque Jorge Newbery, adibito ai voli nazionali, di fonte al Rio de la Plata.

La magia di Punta Walichu è data non solo dalle pitture ma anche dalla forma delle rocce. L’area nella quale si trovano le grotte si è formato in milioni di anni attraversando, come tutta la Patagonia meridionale, ere geologiche diverse: prima fu ghiacciaio, poi oceano, infine quando nacquero le Ande, la terra si sollevò ed il fondo del mare venne in superfice, divenendo una immensa pianura stepposa, dove per centinaia di chilometri non crescono alberi. Pertanto, le rocce che si incontrano nella Patagonia hanno tutte forme arrotondate, effetto del movimento dei ghiacciai, mentre l’oceano primordiale agì su di esse bucandole con il sale, poi quando emersero presero il colore giallo proprio della sabbia e delle erbe che vi crescono. L’insieme di questi fattori ha agito sulla pietra in modi impensati, trasformandole in capricciose sculture ciclopiche, che vengono incessantemente “smerigliate” dal vento patagonico.

Se le rocce di punta Walichu parlano di epoche estinte, le pitture rupestri parlano di riti misteriosi. Quest’area doveva avere la funzione di luogo di ritrovo o addirittura di centro cerimoniale, perché le pitture di colore rosso riprendono tutti i motivi della vita e della morte. Walichu non è da confondersi con la Cueva de las manos che si trova molto più a nord ed è caratterizzata da un impressionante numero di mani dipinte non meno di 14.000 mila anni fa. Le pitture sul lago Argentino sono più recenti e di numero molto inferiore. In ogni caso andare a vederle significa fare un vero e proprio viaggio nel vuoto e nel vento. Dove per “vento” si intende quel passato millenario e oscuro nel quale gli indios vissero per millenni cacciando i guanacos e raccogliendo i funghi e la frutta che gli sterili cespugli offrono, come le bacche del “calafate”. Un passato che non ha lasciato nessuna traccia, nessun edificio o monumento, nessuna scrittura, dal quale sono emerse solo queste sbiadite pitture rupestri ed i resti della pietra scheggiata.

La visita si fa in silenzio, partendo dalla caverna grande e si cammina seguendo il corso del sole. Arrivato nello spiazzo grande, il visitatore deve fermarsi ed osservare prima ad occhi aperti e poi ad occhi chiusi il lago, oltre il quale si intravede la cordigliera delle Ande che svetta fra picchi, montagne aguzze ed immensi ghiacciai. Durante questa iniziale meditazione, la funzione del respiro è fondamentale, perché con l’aria deve entrare nel tuo corpo il mistero del luogo. Respirare, abbassando le spalle e la mente, mettendo da parte la presunzione di capire tutto quello che si vede, perchè questo luogo pietroso, contiene forme di una cultura priva di scrittura, perciò molti significati sono affidati all’immaginazione.

Dopo il respiro, inizia la visita che si svolge sotto forma di processione. Il primo manufatto che si incontra è un “chenque”, la tomba circolare. Il cadavere veniva messo seduto al centro di un cerchio segnato nel terreno da sassi, ricoperto interamente da pietre sempre più piccole, fin sulla testa. E qui abbandonato, affinché Elal, il condor dalle grandi ali, scendesse a prendere l’anima per portarla nel corpo di un bambino che stava nascendo.

Dopo il cono di pietra, la visita prosegue verso altre rocce dove appaiono pitture che raccontano il ciclo della vita. La morte è rappresentata da corpi sdraiati, seguono poi le rappresentazioni di uomini stilizzati con le braccia in alto, altri con le braccia in basso, a rappresentare il grande uccello che apre e chiude le ali, compaiono infine figure piene e rotonde, donne che aspettano un figlio, altre più piccole a ricordare la presenza di bambini.

Nella caverna più profonda, annerita dal fumo, datato con carbonio 14 a quattromila anni, nella parte inferiore, quella più vicina al terreno vi sono due grandi mani distanziate l’una dall’altra di circa un metro, rivolte verso il basso. La guida ha spiegato che quello è il punto dove partorivano le donne.

Queste, inchinate, appoggiando la schiena alla parete, mettevano le palme delle mani dentro l’impronta già disegnata, e con la spinta delle mani, della schiena e della forza di gravita, spingevano il bambino verso il basso, il quale appena uscito veniva subito messo nella placenta di un guanaco femmina, macellata vicino alla grotta, appena iniziava la parte finale del parto. In questo modo, non solo si proteggeva il neonato dal freddo del luogo ma veniva a crearsi quel rapporto profondo fra l’indio e l’animale che l’accompagnerà in modi diversi per tutta la vita.

Numerose sono le pitture che soffrono l’usura del tempo e delle intemperie, ma tutte, sia quelle più nette che quelle scolorite, sembrano echi portati dal vento di un mondo lontano che non conosceremo mai nella sua interezza. E tuttavia, anche quelle mangiate dal sole e dall’umidità del lago, lasciano stupiti perché pur essendo fatte con pochi mezzi tecnici ed un “povero” linguaggio pittorico, trasmettono una energia propria dei “simboli” più pieni di significati. Possiamo affermare che queste pitture rupestri non son discorsi ma “figure” narrative che racchiudono molti racconti.

Una nota inquietante si presenta quando vediamo dei graffiti recenti fatti sulle pitture antiche (uno porta il nome RUSSO e più sotto ITALIA 1946) e di fronte al mio stupore la guida Adriana Maria Ariztizabal ci dice di non scandalizzarsi, perché questa sovrapposizione di culture è espressione di quello che si è verificato nel corso dei millenni. Le rocce furono la pagina alla quale generazioni diverse di indios affidarono la propria visione del mondo, agli antichi abitatori successero i soldati, poi gli antropologi ed i turisti ed ognuno di essi lasciò la propria impronta in una catena interminabile di successioni. Ognuna degna di rispetto.

Il percorso dura più di un’ora, alla fine del quale viene offerto ai visitatori lo stesso materiale pittorico usato dagli indios per ripetere su cartoncino le pitture appena viste. Tutti commentano il risultato di tutti, mentre si mangiano empanadas ripiene di carne di guanaco, l’animale cibo quotidiano dei cacciatori ed anche grande spirito rappresentato nel cielo proprio dalla “costellazione del guanaco”.

Alla fine della visita, quando il sole cade dietro le Ande, ci restano negli occhi, attraverso le pitture, le briciole di un tempo passato, attraverso la visione delle rocce tormentate dalle ere geologiche il senso del tempo profondissimo, attraverso il soffio del vento, la vacuità del deserto della Patagonia, ma soprattutto il vuoto della nostra vita. I nostri corpi, altro non sono, che vuoto a perdere nel grande lago del mondo.

P.S. Ogni popolo descrive la natura usando il proprio immaginario, per gli indios Mapuche la costellazione della Croce del sud veniva rappresentata come un pinolo del grande albero dell’Araucaria, mentre per i Tehuelche è la zampata di un guanaco volato nel cielo, per gli europei invece essa è la croce nel cielo che secondo Dante si vede all’ingresso del Purgatorio. Ma sono sempre le stesse stelle.

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