Nicola Bottiglieri
Sulle tracce di De Agostini/3

La grotta del Milodón

Il viaggio sulle tracce del salesiano Alberto De Agostini arriva in Patagonia dove le suggestioni legate ai narratori d'avventura italiani (da Salgari a De Amicis) si mescolano a quelle scaturite dal capolavoro di Bruce Chatwin

Puerto Natales è la porta d’entrata del Parque Nacional Torre del Paine, tuttavia il mio interesse questa volta non è rivolto alle montagne ma alla Cueva del Milodón e al monumento dedicato a De Agostini, che la città ha voluto dedicare al personaggio più illustre. Mi accompagna Mario Margoni, 93 anni, pioniere della prima ora, sindaco della città, governatore, impresario, con mille progetti nella testa.

“La ho fatto mettere io la statua di De Agostini sul lungomare quando ero sindaco. È stato lui che ha fatto conoscere il Paine in Italia, con i suoi scritti e le fotografie. Lo scultore Antonio Rodriguez ha lavorato su una pietra di granito di 15 tonnellate, alta 2.30 metri ed è stata inaugurata il 10 aprile 2011. Poi successe un episodio curioso, perché non fu pagata l’ultima rata allo scultore ed egli, forse imitando Michelangelo appena finito il Mosè, prese un martello e ruppe un orecchio al sacerdote. Quando ricevette l’ultima rata, rimise a posto il timpano. La statua rappresenta l’abbraccio fra De Agostini e l’indio Pa-Chiek”.

Margoni guida con sicurezza una Mercedes di lusso e mi mostra le sue proprietà mentre andiamo verso la grotta del Milodón, il luogo dove finiscono il viaggio e il celebre libro di Bruce Chatwin, In Patagonia.

“Ho tremila mucche che ora devo spostare dalla montagna alla pianura. Si avvicina l’inverno, il terreno ghiaccia, le mucche non hanno nulla da mangiare. Altrimenti arrivano i puma e fanno stragi”. “Quante pecore ha?” domando, perché da sempre la Patagonia è stato il pascolo delle pecore. “Nessuna. Da quando hanno messo in commercio il pile, dal 1979, il prezzo della lana di pecora è crollato, perciò stanno scomparendo los ovejeros. È più vantaggioso dedicarsi alla carne vaccina ed al turismo”.

Siamo vicini alla silla del diablo (sedia del diavolo) e Margioni mi indica un grande spiazzo circolare dove ha piantato 54 lastre di metallo in circolo, nel mezzo della quale vi è un monumento alla Madonna. “Io ho fatto un patto con la Virgen de la Patagonia. Ho detto: Madonna, dammi ancora dieci anni di vita e qui io costruisco un santuario. Ho già preso contatti con la ditta costruttrice che hanno realizzato il corral (spiazzo)”. “Lei è un vero pioniere”, dico io. “Pensa sempre al futuro, anche a 93 anni”. “Bisogna seminare sempre, cosa che ho fatto nella vita”.

Scendiamo dalla macchina, tira un vento fortissimo, io aggiusto cappello e giaccone e dico: “Ma lei non ha cappello?”. “Mai portato cappello in vita mia”. “Ha un giaccone in macchina?”. “Quale giaccone! Non fa mica freddo”.

Davanti all’ingresso della Cueva sorge un edificio di legno, spazioso, a cupola, come sono le strutture all’interno delle quali in Italia si pratica la palla a canestro.

“Qui sorgerà un centro di ricerche sull’idrogeno verde, che sostituirà i combustibili fossili. Tutto a mie spese”. Entriamo ed in questo vasto ambiente a due piani, incontriamo due tecnici che lavorano con delle provette. Domando cosa stanno facendo e mi rispondono che portano avanti un progetto per far diminuire il numero dei conigli nella regione. Una specie infestante, portata qui dagli italiani e che oggi risulta essere una piaga dalla quale liberarsi.

Davanti a me la grotta mostra la fronte alta e rugosa della roccia, sotto la quale si apre la bocca con labbra appena aperte, sottili e sghembe. L’entrata è nascosta da alberi, perché nei secoli passati la parte superiore è franata e questi sono cresciuti sul terrapieno. Vista da fuori, sembra un bunker naturale sgangherato, fuoriuscito dai secoli smemorati della preistoria senza pretesa di far colpo sui turisti. Camminando verso la bocca, dopo aver dato uno sguardo allo splendido orizzonte pieno di una luce densa e azzurra, dove si intravede il Seno Esperanza e la montagna Teide, Mario Margoni mi snocciola questi dati:

 “La grotta è lunga 200 metri, è alta 30 e l’entrata è larga 80. Però come vede una parte del soffitto è caduta, perciò per entrare dobbiamo arrampicarci”.

Ci arrampichiamo e vedo la riproduzione a grandezza naturale del famoso bradipo preistorico milodon: una statua alta più di 3 metri, sotto la quale tutti si fanno la foto. Ai tempi della visita di Chatwin non c’era, invece vi era un altarino che è stato tolto. “Qui dentro una volta hanno proiettato i film del Padre De Agostini… fanno anche mostre di pittura…”. “E sfilate di moda?”. “Quelle cose le fanno gli argentini…”.

È vero: una volta avevo visto un documentario dove si vedeva una sfilata di moda avendo sullo sfondo il famoso ghiacciaio Perito Moreno.

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Il quale Perito Moreno, dopo che Eberhard ebbe data la notizia al mondo del ritrovamento della Cueva, avvenuta nel 1895, venne qui di persona nel 1898 e portò a Londra un pezzo di pelle da far analizzare. Il risultato fu che si scatenò una vera e propria caccia al milodon, in quanto ritenevano che qualche esemplare fosse ancora vivo e che si aggirasse nei paraggi. Ci fu una vera e propria spedizione organizzata da Hesketh Prichard nel 1901che per due anni cercò nella zona una esemplare vivo. Forse fu l’eco di questa impresa che diede lo spunto a Conan Doyle, l’inventore di Sherlock Holmes per il suo romanzo Il mondo perduto del 1912, dove si cercava un dinosauro sopravvissuto nella foresta amazzonica.

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Mario Margoni mi segue nella grotta, salendo e scendendo lungo il sentiero che si inoltra sempre più verso la zona oscura. Io comincio a vagabondare nella cueva con la testa e con i piedi.

Certo che con la trovata di far finire il viaggio nella grotta, Chatwin ha risolto due problemi. Con la scusa di andare a vedere il luogo dove il cugino della nonna, Charley Milward, il marinaio, nel 1895 aveva trovato un pezzo di pelle rossiccio mette la parola fine al viaggio in Patagonia; in secondo luogo ha costruito il suo viaggio come il compimento di un sogno infantile perché lui da piccolo vedeva nella credenza di casa in Inghilterra proprio quel pezzo di pelle. Dal buio dei ricordi dell’infanzia egli guarda alla Patagonia ed al suo viaggio con lo stupore minuzioso di un bambino inglese. In realtà la grotta non è il luogo dove finisce il suo viaggio, bensì il luogo dove è iniziato Trenta anni prima.

La grotta continua ad ingoiarmi ed ora cammino su un terreno più soffice, tanto che mi sembra di pestare la lingua del mostro mentre pensieri arruffati mi salgono dai piedi.

Edmondo De Amicis, Emilio Salgari, Giacomo Bove, Don Bosco, Padre Alberto de Agostini sono tutti piemontesi. Che c’entra Torino con la Patagonia? Capisco i napoletani di Secondigliano o di Torre del Greco che venivano a pescare nello stretto, come il grande Pasquale Rinaldi, il più famoso pirata-marinaio dello stretto nel sec. XX, c’è il libro di Tito Barbini che parla di lui, L’ultimo pirata della Patagonia (2015). Che ci venivano a fare qui i torinesi? Forse per il commercio delle pelli di foca? O per l’oro? De Amicis nel racconto Dagli Appennini alle Ande dice che il suo piccolo eroe era venuto per trovare la mamma, Salgari nel romanzo La Stella dell’Araucania inventa un personaggio inesistente, mentre Bove era un esploratore puro e semplice al servizio della repubblica argentina. Insomma, quello che muove a viaggiare gli italiani in Patagonia, a parte gli emigranti, è la ricerca della mamma o l’evasione fantastica di uno scrittore pieno di debiti o l’esplorazione geografica per conto di altri. Ma non bisogna dimenticare i salesiani. Gente come Giuseppe Fagnano o Alberto De Agostini hanno lo stile degli imprenditori torinesi che dal nulla organizzano fabbriche, scuole, squadre di calcio. A Buenos Aires la famosa squadra del San Lorenzo fu fondata proprio dal salesiano Lorenzo Massa, che prima visse a Punta Arenas. La Chiesa è la ragione di tanti viaggi. Chissà quante storie di viaggio vi sono nei racconti dei missionari. Forse il contributo italiano alla letteratura di viaggio è stato dato proprio dai missionari.

Arrivato al fondo dell’imbuto mi appoggio alla parete e guardo verso l’esterno. Dalla parte più oscura della grotta, l’apertura sembra un occhio aperto verso la luce, dove gli alberi del terrapieno sono ciglia cispose e arruffate.

Ora capisco perché ha fotografato la grotta dall’interno verso l’esterno, come un occhio che guarda verso la luce.

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