Danilo Maestosi
Due stili a confronto

L’arte è una domanda?

Giulio Paolini all'Accademia di San Luca, Francesco Vezzoli al Palaexpo: due mostre a Roma si interrogano, in modo radicalmente diverso, sul senso della creatività. Uno con toni apocalittici, l'altro sposando l'autoironia del kitsch

A come Accademia. Sì, ci si può ancora misurare con l’arte del passato, e con l’Accademia che ancor più del museo ne tiene vivo il fuoco, senza chiamarsi fuori dalla contemporaneità e senza rifugiarsi nelle condanne a morte che costellano la furia demolitoria delle avanguardie. Ce lo dimostra, con tutto il talento di mettere in scena l’inafferrabile e ambigua leggerezza del fare e dire arte accumulato in oltre sessant’anni di carriera, Giulio Paolini, 84 anni, torinese d’adozione, lucido e isolato testimone di una generazione partorita dal clima ribelle degli anni ‘60, di autori decisi a imprimere un nuovo corso al linguaggio della creatività e all’Italia del boom. Una spinta radicale targata da un critico doc, Germano Celant, con un’etichetta, Arte povera, sommaria ma fortunata, che ha decretato il suo successo internazionale. Pochi mesi dopo esser stato incoronato in Giappone con un premio che ha il peso di un Nobel, Paolini ha accettato di costruire a tema e ambientare sei nuovi lavori per palazzo Carpegna, cinquecentesco edificio alle spalle di fontana di Trevi, sede romana dell’Accademia di San Luca, fondata nel 1593 da Federico Zuccari, una delle più antiche e titolate del mondo.

Confrontandosi in questa mostra, A come Accademia, in programma fino al 15 luglio con le opere e l’aura dei grandi maestri delle discipline della tradizione visiva, da Bernini a Rubens, da Poussin al Guercino, da Pietro da Cortona a Canova, che su questo palcoscenico d’élite sono transitati o hanno lasciato il segno.

Una sfida a distanza con il senso dell’antico alla quale il cartellone sfilacciato e anarchico degli eventi romani ne ha aggiunta casualmente una seconda, a suo modo altrettanto significativa: quella con la mostra di un protagonista molto più giovane e sensibile alle mode dell’arte di oggi, il cinquantenne Francesco Vezzoli: Vita dulcis, Paura e desiderio nell’impero romano, battezzata da questo titolo e inaugurata in simultanea al Palaexpo di via Nazionale. Una rivisitazione in chiave pop dei relitti del mondo classico messi a disposizione dal museo archeologico e resuscitati come emblemi di un racconto riscritto da uno sceneggiatore cinefilo e onnivoro, un po’ Hollywood, un po’ Fellini, un po’ Warhol, un po’ Play boy (nella foto accanto al titolo).

I volti dei grandi divi che irrompono alle spalle di quelli di austeri togati scolpiti nell’immobilità del marmo, calchi in gesso di statue romane con gli occhi bistrati e il rossetto, spezzoni di film di gladiatori da cineteca alternati a scene di orge inventate e girate alla maniera di…, un fallo d’epoca, aggiunto come la battuta scollacciata di un passante qualunque, accanto alle natiche tornite di un ermafrodito.

Vezzoli gioca con la storia e col mito, come usato sicuro, senza correre rischi. Quello di scivolare nel kitsch è incluso nel biglietto. Colpisce e diverte con questi strumenti. Autorizzato dalla moltiplicazione di immagini ed esperienze, dalla contaminazione e semplificazione di linguaggi che in Occidente e nell’Oriente globalizzato sono ormai bagaglio diffuso, ricetta suggerita dalla comunicazione di massa e dallo sdoganamento deresponsabilizzato e narciso dei social. È in buona e affollata compagnia: molti colleghi e molti critici patentati sostengono che questa è la modernità, sposando sull’onda lunga del pensiero debole la rassegnazione a corteggiare il già visto come modalità privilegiata per esserne inclusi. Rispetto alle scenette strappasorrisi che circolano su Tik Tok, quadri e capolavori trasformati in barzellette da piccoli ritocchi che li proiettano fuori dal loro spazio abituale, la differenza sta solo in un dosaggio più consapevole e proclamato del controcanto stridente e in un’aggiunta di calcolata teatralità: non a caso il percorso della mostra è scandito da sette siparietti diversi. Ma è un gioco di sberleffi e pernacchie firmato e accreditato da quotazioni da mercato d’eccellenza che comunque impone una sua regola. E istruzioni abbastanza facili per praticarlo.

Anche Giulio Paolini manipola e rielabora il tempo, navigando in questo scrigno d’immaginazione e sapienza secolare tra i cimeli della memoria e dell’antico. Si serve del teatro: anche qui all’Accademia di San Luca le sei opere in mostra sono introdotte e delimitate da un’accurata scenografia, appaiono come palcoscenici a sipario aperto. E si fa vanto di ancorare a una regola scritta e descritta, anche in questa occasione, il suo gioco. Equilibrio, controllo delle luci, pulizia dei colori, dei materiali; impostazione e assemblaggio di diversi punti di vista, cura di ogni dettaglio, calcolo ragionato dello spazio in ogni variante, studio accurato delle strade percorse o indicate da autori che lo hanno preceduto. Sono questi, da sempre, i canoni, l’alfabeto che a suo avviso distingue l’arte visiva da ogni altra pratica, la verità d’artista con cui approccia e descrive il mondo attraversando se stesso.

Ma tempo, spazio, scenografie, regole di autodisciplina sono solo pietre miliari seminate lungo un cammino inconcluso che non cerca risposte ma genera solo domande, passaggi verso uno sfondo di enigma, in cui Paolini racchiude il senso e il non senso della vita. Un’eco proiettata al futuro, simile a quel sussurro di un dio sconosciuto che risuona nei paesaggi metafisici di De Chirico, il maestro del Novecento italiano cui più si sente di assomigliare.

Tra i filosofi che vengono dal mondo antico e più lo hanno ispirato nel rivisitarlo troneggia sicuramente Platone e probabilmente il suo predecessore Parmenide. Il traguardo di Paolini, o almeno quello che assegna all’arte, è l’universo immutabile delle idee. Il regno di una bellezza assoluta che insegue con l’ansia d’imperfezione di un Demiurgo. Ogni opera una tappa d’avvicinamento che ripete in partenza lo stesso cammino del suo primo lavoro, la sua anima di creatore come metronomo. Nel fermo immagine delle scene che allestisce per le partiture di ogni sua narrazione l’eterno ritorno degli stessi dettagli.

Ecco nella prima, che accoglie il visitatore all’ingresso del corridoio di sale al pianoterra di palazzo Carpegna, ripresentarsi il leitmotiv del cavalletto usato come sostegno della macchina teatrale a tema che ha preparato. Ecco l’uso delle lastre di plexiglass, uno specchio rigido e opaco rubato alle discariche del futuro come piano d’appoggio. Sopra una doppia fila di piccole colonne, sormontate da capitelli corinzi e allineate come in un tempio greco, perché solo un luogo di devozione spirituale, anche se in rovina, può introdurre il rito sacro dell’arte che secondo Paolini si perpetua anche oggi in un Accademia.

E poi – ennesimo mosaico di citazioni di repertorio – ecco altre quinte taglienti di plexiglass che precipitano verso il basso a sostenere i frammenti di una foto ritagliata, che è il vero motore della rappresentazione di questo primo atto. È una figura capovolta presa in prestito ad un capolavoro di Tiziano conservato al Prado: un ritratto di Sisifo, eroe del mito colpito da una spietata punizione per aver ingannato gli dei degli Inferi nell’illusione di poter strappare all’Ade il segreto per riscrivere al ritorno la propria vita. Un tradimento dei patti bollato con la condanna a trascinare un pesante masso su un erto pendio e a vederlo poi ricadere giù in basso in un nastro di ripetizioni senza fine. L’esistenza umana come una corsa insensata e senza scampo verso il nulla.

Albert Camus, riscrivendo in un celebre saggio il mito, prospettò un’unica via d’uscita tollerabile a noi eredi di Sisifo: la pazienza di accettare la pena e il dolore, per non dissipare gli istanti irripetibili che l’esistere qui e ora con gli altri ci regala.

Giulio Paolini con un colpo d’ala d’autore amputa la testa del personaggio, trascina la sua storia verso un’altra storia: quella di Icaro, altro campione di sventatezza e di audacia, che paga con la morte l’ebrezza del volo, le ali di cera con cui sfida la forza di gravità dissolte dal calore del Sole.

La memoria, il seme dell’immaginario collettivo trapiantato in Accademia, come appiglio di rigenerazione. Ecco la missione dell’arte. L’ultimo tocco, lo scopri a fatica: è un piccolo acquarello seminascosto tra gli altri oggetti, una foschia di rosa e celeste con cui Giulio Paolini, a inizio carriera, cercò di catturare il mistero di Atlantide. Andare avanti è per lui sempre un guardarsi all’indietro, per capire cosa sei diventato, se l’idea da cui sei partito resiste ancora.

Il secondo atto, nella stanza successiva, si interroga allo stesso modo su un altro continente concettuale dell’immaginario che rischia di sparire sott’acqua. La Bellezza. A darle corpo due copie

di una Venere ellenistica, rese smaglianti dal luccichio levigato del gesso. La prima si mostra di spalle, quasi inghiottita dalla parete. L’altra esibisce di fronte il gesto di leggiadro pudore della mano che copre il pube, e un viso sospeso in un nitore da miraggio. A parlare del tempo che incalza ogni sogno impossibile è un alto piedistallo: sopra e alla base una piccola scia di rovine solo in parte leggibili che da quei corpi provengono. Voltarsi indietro per guardare avanti è anche fare i conti con queste scorie.

Il terzo atto celebra un’altra immersione nelle schegge dei lavori del passato che galleggiano come aghi di una irrinunciabile bussola nel pozzo della memoria, nel quale Paolini getta ogni volta l’amo per una nuova invenzione. Una pesca che ci riporta all’interno del suo studio torinese.

Su un piedistallo da monumento è in posa un’altra Venere da antologia, quella di Fidia. Di fronte un leggio da musicista, su cui stavolta è posato un foglio dipinto. Le note trasformate in segni e colori.

Dietro su una seconda pedana sagomata a torre, pende un drappo piegato, in seta da foulard che brilla di cromie ancora più accese. Riproduce uno scatto fotografico che inquadra l’interno del laboratorio di Paolini. L’Accademia è il luogo, paradiso e inferno, dove l’artista lavora e custodisce come mappe strumenti e prove visive del suo istinto creativo.

Il quarto atto all’esterno nel cortile del palazzo. Un’istallazione in cui vita e morte si specchiano. Sulla parete la copia in formato ridotto di una fanciulla che indossa una tunica pieghettata. Forse Andromaca. Forse Criseide, la prigioniera contesa che nell’Iliade semina tragedia e scompiglio tra i guerrieri achei. Una messaggera del destino circondata da un coro di cornici vuote. Lei e quegli spazi bloccati in fondo al palcoscenico come attori in attesa di una battuta per irrompere in copione.

Il là arriva da fuori e da lontano. Da una statua di fronte ma sull’altro lato del corridoio su cui lo spettatore è incanalato a sostare. È un immagine in copia di un Achille ferito e agonizzante. La faccia rivolta a interrogare il cielo che lo ha beffato. Perché ammantarlo in un’aura da eroe invincibile e poi farlo inghiottire dalla morte come un uomo qualunque?

Quanti dei maestri e degli allievi che hanno animato le stanze e le aule di questa Accademia devono aver provato la stessa ossessione e cercato nel loro mestiere la via di una fuga impossibile. No, neanche la regola che Paolini si è imposto come musa e compagna, consente salvezza. Adottare o rifiutare il suo punto di vista comporta una libertà di disagio, spaesamento, applicazione, fatica.

Ma quando l’arte offre consolazione e acquiescenza, si propone e si accontenta di farlo per soddisfare spettacolo e cassetta, non tradisce se stessa e tutti noi, fragili e disarmate comparse del presente, che vi cerchiamo riparo? È il dubbio con cui, dopo questo incontro ravvicinato con Paolini, affronto e magari distorco il menù di sapori più morbidi e accattivanti che mi apparecchia la mostra di Vezzoli. Alzandomi da tavola inappagato, con un rimuginio da apocalittico che non mi è mai appartenuto.

Ma forse a distrarmi nell’inappetenza è il retrogusto di un’altra domanda non digerita, che mi trascino appresso. Riguarda il ruolo diverso che l’Accademia di San Luca e ogni altra istituzione che le assomigli dovrebbe recitare per garantirsi un futuro. Un cambiamento di rotta che il nuovo direttore insediato a palazzo Carpegna, Marco Tirelli, vorrebbe varare. E comincia a collaudare proprio con questa prima mostra di Paolini. Convinto che per scardinare l’aura di soffocante vigilanza del passato in cui l’Accademia si è arroccata, perdendo contatto col mondo, bisogna revisionare il suo stesso statuto. A partire da quella ripartizione dei suoi membri in tre pattuglie diverse, pittori, scultori, architetti che a turno si alternano al governo, sempre più estranea alle contaminazioni e agli sconfinamenti di chi pratica l’arte dalla fine del Novecento ad oggi. Per arrivare poi alle regole di cooptazione dei nuovi soci, legate ad una valutazione dei meriti che presta il fianco ad arbitri e tagliafuori inspiegabili.

Traguardi ambiziosi che solo la scesa diretta in campo degli artisti potrebbe raggiungere. Ma come convincere e arruolare questo esercito da schierare in battaglia? E come e a chi assegnare la patente di artista in un sistema dilatato e impazzito che ha rinunciato a definire che cosa sia l’arte, a distinguere arte e creatività, fantasia e immaginazione, e delegato alla convenienza e al mercato il compito di stabilirlo?

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