Nicola Bottiglieri
Sulle tracce di De Agostini/1

Il silenzio del ghiaccio

Comincia un lungo diario di viaggio verso le terre estreme e ghiacciate dell'America Latina sui luoghi del geografo e sacerdote salesiano Alberto Maria De Agostini che all'inizio del secolo scorso fece conoscere in Italia la natura antartica

Sto seguendo le orme del sacerdote salesiano Alberto Maria De Agostini che nella prima metà del secolo scorso fece conoscere la natura antartica in Italia. Attraverso le foto, i documentari, i libri, le cartoline. Era un sacerdote missionario che esercitò il suo ministero a Punta Arenas, dal 1910 al 1960, quando morì a Torino all’età di 77 anni. Durante il periodo estivo, che nell’altro lato del mondo va da novembre a febbraio, organizzava spedizioni scientifiche per conoscere i territori a sud del mondo ancora inesplorati. Insieme al barometro ed alla piccozza portò sempre il calice per celebrare la messa sulle montagne più impervie della Patagonia.

Era il fratello minore del geografo Giovanni De Agostini, fondatore dell’Istituto Geografico che produsse le carte geografiche presenti nelle scuole italiane fino all’avvento di Google map.

Una figura ancora celebre nella Società Geografica Italiana ed in quelle dei paesi del “cono sud”, ma sconosciuta al grande pubblico italiano. Ma non agli alpinisti perché fu il primo a parlare del Calafate ma soprattutto del “Cerro Torre” la montagna bella ed impossibile, croce e delizia dei veri “andinisti”.

In questo viaggio mi accompagna il suo libro Ande Patagoniche 1941 (ristampato da Vivalda nel 1999) ed I miei viaggi nella Terra del Fuoco, (edizione del 1923, perché non è stato più ristampato) che mi servirà quando scenderò più a sud.

Il mio viaggio inizia da Calafate, in Argentina, tre ore d’aereo da Buenos Aires, nel cuore della Patagonia, famosa nel mondo per il ghiacciaio “Perito Moreno” che si versa nel lago Argentino, fra spettacolari fratture del fronte di ghiaccio, rumori da brividi e onde spettacolari. In Italia queste immagini si vedono spesse associate a qualche prodotto pubblicitario.

Quando De Agostini nel 1930, diretto al ghiacciaio Upsala, attraversò Calafate, questa era un piccolo caseggiato, poiché l’allevamento delle pecore, vera industria della Patagonia, si svolgeva nelle estancias, sparse per l’immensa pianura stepposa. E pur sorgendo ai piedi del lago più grande di tutta l’Argentina, qui non è mai decollata l’industria della pesca.

Oggi Calafate è una bella cittadina, con strade ampie, lunghi filari di alamos (pioppi) fitti ed altissimi, piantati per ostacolare il costante vento patagonico, casette eleganti, parchi meravigliosi, il tutto contornato da fitti cespugli di cedronella e lavanda che ad ogni soffio di vento spargono nell’aria un intenso odore di selva. Il profumo della lavanda è più aspro di quello che sprigiona la stessa pianta nell’aria mediterranea, soprattutto in Provenza, forse perché i fiori qui maturano lottando contro i violenti sbalzi di temperatura fra giorno e notte.

La città vive di turismo, soprattutto europeo, perciò nei negozi della strada principale si trova tutto quello che serve per fare escursioni verso i ghiacciai e le montagne circostanti che annunciano la loro presenza con profili spettacolari. Anche se io ritengo “spettacolare “non solo le belle ed ardite montagne delle Ande ma anche l’immenso deserto patagonico che si distende fino all’oceano Atlantico. In questa immensa pianura brulla e senza alberi, per centinaia e centinaia di chilometri non si vede nessun rilievo, nessuna città, nessuna forma di vita umana, se non qualche pompa di benzina isolata più di un convento di eremiti nel deserto del Sinai. Il nulla più autentico vibra nelle forme più impensate, abitato dal vento, dagli uccelli, dalle lepri e dai guanacos, e se uno ascolta bene si possono sentire ancora i canti degli indios tehuelches distrutti dagli argentini alla fine del secolo XIX, che fanno da commento alle pitture rupestri.

Se da sempre in Italia il turismo è rivolto verso le città d’arte, qui a Calafate dove i “monumenti” più antichi sono le rocce scolpite dal vento e gli alberi secolari, il turismo è diretto verso la “natura spettacolare”, verso il “Perito Moreno distante 80 chilometri. Che in verità offre un doppio spettacolo, quello del muro di ghiaccio, alto 70/80 metri, che si versa nel lago e quello dei turisti che si riversano come una fiumana avida ed impaziente sulle passerelle a picco sul lago. Sono più di 5.000 i visitatori che ogni giorno affollano gli orli del ghiacciaio, mi dice la guida del Parque Nacional Los Glaciares.  Costa 11.000 mila pesos il trasporto da Calafate, 5.500 il biglietto d’entrata al parco, 8.000 mila pesos il giro in barca sul lago. Insomma, il ghiaccio viene venduto nelle forme più diverse: a blocchi interi, se lo vedi da lontano, a pezzi, se lo vedi più da vicino dalla barca, oppure a cubetti, servito con il wiskey nel bicchiere panciuto.

Ci vuole silenzio per vedere la misteriosa potenza dei fenomeni della natura. L’impatto con il fronte di ghiaccio è forte. Non si resta insensibili di fronte a questa fiumana bianco-azzurra che scende dalle Ande e cammina al passo dei secoli verso il lago. Mille domande affiorano alle labbra. Come nasce questa acqua di pietra che si nutre di solitudine e di freddo? Perché si versa nel lago e non resta immobile come fanno le montagne di granito? Perché li conosciamo così poco, pur essendo le più grandi riserve d’acqua dolce nel mondo?

Osservo con umile stupore questa acqua minerale che viene da lontano e si dirige verso un luogo ancora più lontano, cambiando ogni volta di forma. Pioggia, neve, ghiaccio, acqua dolce, acqua salata. Scende dalle montagne, ristagna nel lago Argentino e poi corre veloce verso l’atlantico divenendo Rio Santa Cruz, per una lunghezza di 400 chilometri. Ricordo il verso di Neruda che paragona i fiumi del continente alle arterie del corpo umano che portano sangue come l’acqua dei fiumi portano vita.

Il Rio Santa Cruz è figlio del ghiacciaio, si distingue bene dall’aereo perché ha un colore bianco verdastro, portatore di un’acqua densa, ricca di minerali, da millenni attraversa la pianura patagonica, abbeverando le centinaia di migliaia di pecore che pascolano sotto un cielo segnato da costellazioni a me sconosciute, prima di tutte la croce del sud. Una vera e propria catena di fenomeni innesca il ghiacciaio che inizia dalle montagne delle Ande e termina con la lana delle pecore, con i maglioni della Benetton, con le costolette d’agnello alla brace.

Se De Agostini – una figura di riferimento per tutti noi, mi dice la guida, letto e riletto a scuola- si inoltrava all’interno dei ghiacciai per scoprire il mistero del loro freddo cuore, battito oscuro che alimenta il percorse della massa ghiacciata, le migliaia di turisti invece si limitano a stazionare ai bordi del lago.  E sono essi che danno oggi un senso del tutto diverso alla massa di ghiaccio. Il mistero geografico è divenuto telone di fondo per uno studio fotografico a cielo aperto, meraviglioso ed esotico allo stesso tempo, ideale per viaggi di nozze, luna di miele e luna di fiele, per quelli che si separano senza far pace con se stessi ed il prossimo.

Una massa di persone vociante e colorata che ad ogni frattura del fronte ghiacciato grida come se il ghiaccio avesse segnato un goal al lago, che ad ogni colpo ricevuto si agita con ondate violenti. Il riferimento al “gioco più bello del mondo” non è stravagante, perché su una passerella staziona una troupe fotografica che sforna gigantografie con il tuo volto sorridente, lo sfondo del Perito Moreno, mentre hai fra le mani una riproduzione della coppa del mondo vinta dall’Argentina nei campionati svolti nel Qatar. Un omaggio al ghiacciaio ed al paese che lo contiene mentre i tuoi occhi brillano di una luce più sonora di quella che scaturisce quando ascolti l’inno alla gioia composto da Beethoven.

Il paesaggio offerto dalla folla dei turisti è intrigante quanto quello della natura. C’è chi ruba un pezzo di ghiaccio al lago per goderselo in pace da solo, chi fotografa con una macchina cannone che sembra un bazooka, molte coppie hanno lo stesso kway e si baciano facendo l’occhietto al ghiaccio, centauri dai vestiti pieni di ferro ancora in sella alle moto che hanno attraversato la Patagonia e fanno finta che questo è normale amministrazione per loro, e vi è poi chi guarda smarrito l’orizzonte come se fosse su Marte. Tutti guardano e masticano, guardano e fotografano, guardano e bevono mate, guardano e parlano fra loro, perché sono tutti consapevoli che hanno una meraviglia a portata di mano, un mistero naturale sotto gli occhi, l’infinito congelato fra le montagne.

Però anche l’esaltazione mistica alla fine stanca. Il freddo, l’andirivieni fra le passerelle, la stanchezza delle gambe non abituate a stare dietro alla curiosità della mente, tutte queste insolite emozioni mettono fame. Si girano le spalle alle montagne e si aprono le braccia al ristorante. Qui una sopa calda ed una ottima zuppa di lenticchie con chorizo (salame) costa 6.000 pesos, un prezzo benvoluto per chi vuole digerire le bellezze della natura. Facendo un brindisi a De Agostini che aprì la strada alla conoscenza di questa fetta del mondo lontana da casa, da sempre vicina al cuore.

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