Danilo Maestosi
All'Università La Sapienza di Roma

Un futurista all’inferno

Una mostra a Roma riscopre un artista del primo Novecento singolare e quasi cancellato dall'ipocrisia fascista: Gino Galli. Ne viene fuori la storia affascinante e terribile di un divo del futurismo lentamente occultato per la sua omosessualità esibita

Anche il mondo dell’arte, spesso non meno crudele e dispotico di dittatori come Pinochet, deve liberare gli archivi della propria cattiva coscienza e fare i conti con l’onta dei suoi desaparecidos. Come Gino Galli (1893-1944), un pittore romano di applaudito talento e fragile tempra morale, che si è esibito sulla scena del Novecento italiano tra i padri fondatori del futurismo e i più infatuati sostenitori del fascismo, per poi finire abbandonato da entrambi nelle discariche d’un implacabile e manovrato oblio. Ne riporta a galla la memoria e i segreti di una tormentata biografia una mostra, da poco inaugurata e in cartellone fino al 6 maggio nelle sale del Rettorato dell’Università romana La Sapienza, gestite dal Laboratorio museo d’arte contemporanea. In passerella una cinquantina di lavori, molti dei quali inediti, recuperati con un lungo lavoro di indagine e di setaccio nei salotti buoni della capitale, che per la prima volta ricompongono l’intero arco della sua carriera. Due decenni sotto la luce dei riflettori e un altro decennio di buio e cancellazione quasi totale.

A scoprire e a rendere pubblica questa dolorosa vicenda umana, ricca di risvolti cupi ancora da chiarire, è stato il fiuto da collaudato cronista di Edoardo Sassi, un noto giornalista specializzato del Corriere della Sera rimasto ancorato alla vocazione per la ricerca maturata proprio qui alla Facoltà di Belle Arti della Sapienza. Di Gino Galli aveva visto dal vivo o in riproduzione poche opere, ma aveva registrato in memoria il suo nome su libri e antologie sugli albori del futurismo, tenendo a mente e raccogliendo foto, documenti, testimonianze. Come non pronosticare un successo inscalfibile a quel giovane e imberbe talento romano di buona famiglia, che negli Anni Dieci studia e lavora nel laboratorio di un pittore già incoronato dai salotti buoni della capitale come il torinese Giacomo Balla, in procinto di spiccare il volo come autore di punta nel movimento futurista fondato da Marinetti? Che frequenta da allievo ed amico la casa di via Paisiello, dove sono passati a ricevere stimoli e lezioni altri due pionieri del primo futurismo, Severini e Boccioni? Che viene subito scelto come il pittore più abile e dotato del gruppo dal maestro, che gli dimostra la sua stima affiancandolo nell’elaborazione di uno dei suoi più noti capolavori, quel trittico in stile divisionista che chiude in un magico sipario il paesaggio di villa Borghese e continuità a suscitare ammirazione in una sala della Galleria Nazionale di Valle Giulia? Un artista che Balla tratterà due anni dopo addirittura come un consulente, spedendogli una cartolina con su un abbozzo di quella serie intitolata Compenetrazioni iridescenti che da tutti i critici è considerata il suo contributo più alto di capofila del movimento? Che si cimenta e si distingue con tanta bravura sugli stessi temi e le stesse teorie da essere invitato ad esporre per ben due volte a Casa Bragaglia che a Roma è il centro propulsore del movimento, delle sue sperimentazioni più azzardate e delle sue provocatorie e scandalose incursioni esterne?

Gino Galli, “Natura morta con statua”

Già basterebbe ad assegnargli il ruolo di predestinato al successo l’adesione a quell’avanguardia made in Italy che ha preceduto nel tempo persino la rivoluzione cubista e si dimostrerà sul campo la più resistente e la più influente, tanto da coinvolgere in successive ondate dal Nord al Sud e in molte altre città d’Europa almeno tre generazioni di artisti.

Una carta giocata con grande convinzione, alla quale rientrato dalla guerra Gino Galli ne aggiunge un altro paio ancora più vincenti: l’adesione della prima ora al fascismo e l’amicizia con Giuseppe Bottai, navigato politico e coltissimo paladino della cultura che a fianco di Mussolini nella Marcia su Roma percorrerà le tappe di un’inarrestabile ascesa, da governatore della capitale a governatore di Addis Abeba fino al ruolo di ministro dell’educazione nazionale. Sarà Bottai a coinvolgerlo nella condirezione della Rivista Il Futurista da lui fondata, a spianargli la strada delle collaborazioni di altre testate, vetrine dei suoi scritti e interventi e anche di alcuni dei suoi quadri di gran cantore del movimento.

Un decennio da primattore sotto i riflettori. Poi improvviso il silenzio. Perché?

Nasce da questo vuoto improvviso la lunga inchiesta a tappeto di Edoardo Sassi, alla quale si è presto affiancata Giulia Tulino, una titolata curatrice in carriera, che ha portato a questa mostra.

La prima clamorosa scoperta Sassi l’ha fatta all’Anagrafe di Firenze, Gino Galli risultava morto e sepolto nel 1954, secondo un passaparola d’epoca e d’ambiente romano. E invece è spuntato un documento che ne certificava la scomparsa ben dieci anni prima nel capoluogo toscano, dove sembra che il pittore si fosse trasferito da poco, con la guerra ancora in corso. La causa del decesso sul referto non è indicata.L’hanno sempre descritto sin da giovane come perseguitato da dolori e malanni, ma un cinquantenne ben piazzato come quello ritratto in tante fotografie, non si spegne così. E poi, via, perché confezionare e far circolare quegli annunci funebri dieci anni dopo ? Sassi ha registrato una voce attendibile, quella di Elica Balla, che lo indicherebbe in fuga dai tedeschi. Insomma, il sospetto che possa esser stato scovato, raggiunto e massacrato di botte, è molto forte.

A dargli corpo due notizie certe e documentate che l’inchiesta di Edoardo Sassi ha acquisito e approfondito. La prima è che Gino Galli era, e non esitava a riconoscerlo, omosessuale. Altri fascisti anche di alto grado lo erano, ma sono stati più abili di lui a nasconderlo o a garantirsi la complicità del silenzio. Ma essere e comportarsi da gay per un movimento così imperniato sul mito del superuomo e della virilità maschilista e rapace, modellato sull’esempio e sulle vanterie da sciupafemmine del Duce, era una perversione, un’offesa al partito e all’Italianità da punire a mazzate o, a dirti bene, con la messa al bando.

Un marchio indelebile che esponeva a qualsiasi ricatto. È la spiegazione che accompagna la seconda notizia, ancora più utile a inquadrare l’ingrato destino da desaparecido che è toccato a Gino Galli, precipitato non a caso quando la stretta del regime ormai consolidato su queste devianze si è fatta più netta e soffocante: il pittore era sicuramente una spia ingaggiata dall’Ovra, la polizia segreta di Mussolini. Uno spietato organismo di controllo e giochi sporchi che reclutava così i suoi informatori, facendo leva sulle loro fragilità. O stavi al gioco o facevi una brutta fine.

Negli elenchi degli assoldati figurano anche nomi di personaggi iscritti al fascismo, come Pratolini e Silone, che però riuscirono a ribellarsi e a partecipare alla lotta di Resistenza sul fronte opposto. Gino Galli non ne aveva né la convinzione, né la forza. Per questo è precipitato in un girone d’infamia ancora più in basso. Fare la spia e il delatore per due figure responsabili secondo gli storici dei peggiori soprusi addebitati al regime prima e dopo l’alleanza con Hitler. Lo spietato capo della polizia Arturo Bocchini, amico e fiduciario di Himmler morto nel 1940, e la sua amante, l’avventuriera fiorentina Bice Pupeschi, aspirante attrice e scrittrice, che controllava il servizio di spionaggio sul Vaticano, graziata tra molte polemiche dall’amnistia decisa da Togliatti nel ’46.

La prova della collaborazione con la Pupeschi è un ritratto a pastello, eseguito dal vivo e donato da Gino Galli che, recuperato tre le carte dimenticate di un collezionista romano, è ora esposto nel percorso della mostra.

Gino Galli, “Le fasi della vita”

Un tassello del mosaico incastonato in un secondo capitolo finale che un sottotitolo battezza come la fase del ritorno all’ordine. È un ripiegamento all’indietro di visioni e intenzioni verso il quale si indirizzano molti protagonisti delle avanguardie che in vario modo avevano dichiarato guerra alla tradizione e al passato della società borghese e professato la morte dell’arte. Un furore che si incaglia di fronte agli orrori e ai massacri di una guerra vera, come quella del 1915-1918, un rito funebre che si rivela stridente artificio davanti allo spettacolo di milioni di caduti in quelle lugubri trincee, delle croci negli sterminati cimiteri in cui si spengono in tutta Europa le speranze e la vita della meglio gioventù, ricchi e poveri, dell’epoca.

Tra tutti i movimenti il futurismo è però quello che più riuscirà a garantirsi resurrezione e una prolungata sopravvivenza. Ma per continuare a celebrare l’ebrezza della velocità e l’inarrestabile apertura alla modernità dovrà cambiare radicalmente pelle. Affidarsi alla spinta di nuove generazioni. E accettare l’abbraccio e la copertura irrinunciabile del regime fascista, arroccandosi dietro lo scudo del Duce per tenere a bada la diffidenza e l’ostilità di molti gerarchi. Sulla scacchiera la rivoluzione di Marinetti perde pezzi importanti. Boccioni morto in guerra per un banale incidente di Cavallo. Balla che torna alla figurazione, ma continua ad essere venerato ed onorato. È una svolta che imbocca anche Gino Galli, che ne ha teorizzato in vari articoli la necessità: i segni dell’astrazione – scrive- si sono trasformati in ricami, vuoti stereotipati, per andar incontro al futuro e parlare alle masse bisogna ri-ancorare la pittura alla semplicità delle forme e dei messaggi alla portata di tutti.

Il passo all’indietro di Galli è legato a due scelte iconografiche più gradite alla committenza dei salotti della Roma bene, con cui è riuscito a mantenere i contatti, sfruttando probabilmente la complicità di conoscenti con cui può condividere il segreto e i camuffamenti del suo orientamento sessuale, ormai diventato tabù, assecondando gli ordini della centrale di spionaggio che lo controlla. Quanto basta a stento per mantenersi. Perché in città, nel mondo pettegolo che frequenta, si è bruciata la terra alle spalle. Difficile aprire le porte ad un gay conclamato, che usa droga e straparla; difficilissimo aver voglia di farlo con un personaggio che si trascina appresso il sospetto di essere un delatore. Persino a casa Balla non è più ospite troppo gradito. Se trova ancora qualche sponda è solo perché nella ricca e ipocrita Roma borghese è ancora di moda farsi fare un ritratto. E lui – lo documenta la serie di 5 ritratti sgranati a metà percorso in cui mette in posa se stesso, il fratello, altri parenti, e che comunque sono finiti sul mercato – resta un bravo ritrattista, anche se il tratto si è fatto levigato, lo scavo psicologico meno intenso e febbrile rispetto agli splendidi ritratti divisionisti degli inizi sotto la guida e l’esempio di Balla.

Di moda – con un’inesorabile respiro di maniera – anche i temi di un secondo filone: il campionario di interni e paesaggi romani con busti di marmo e rovine che esegue con buona mano in quegli stessi anni, probabilmente a richiesta :il culto dell’antico va molto nella capitale imperiale resuscitata da Mussolini , specie se a condire la rivisitazione del mito si aggiunge qualche dosato tocco cromatico di enigma surreale da realismo magico. È la firma dell’autore ad aver perso richiamo. Non fa più notizia. Non si sono trovate recensioni, annunci di mostre in galleria.

Gino Galli è ormai un artista in esilio, che si può dare – come è successo – impunemente per già morto. Marchiato da uno stigma di rigetto, precipitato probabilmente dalla propria fragilità e dal suo narcisismo in una deriva di autodistruzione. Eppure è proprio da questo suo soggiorno all’inferno che riaffiora un ultimo guizzo del talento e dell’artista che è stato.

Viene da due grandi tele sistemate a fine mostra, rispuntate a sorpresa a chiudere la storia con una pagina da romanzo giallo. Appartenevano ad un ricco committente – il nome è lasciato in incognito – di cui, tramite due eredi, Edoardo Sassi è riuscito a visitare la casa. Quei quadri, entrambe piuttosto grandi, erano stati occultati prima della morte dal proprietario che forse li aveva mostrati, invocando il silenzio, solo a qualche amico fidato. Troppo scandalosi, all’epoca, per esibirli. Una vergogna da murare addirittura dietro a un finto tramezzo.

Il primo ritrae senza veli una donna nuda che si masturba. Le gambe divaricate, la macchia nera del pube che si dischiude ad una carezza. Qui almeno c’è più di un esempio cui fare riferimento. Tra tutti viene subito a galla il nome di Courbet. Un unico invece il secondo. Lo stesso gesto interpretato da un uomo. Anzi un ragazzo. Il volto imberbe, reclinato su un divano, il corpo coperto dagli abiti. In evidenza solo il fallo turgido ed eretto e una mano che lo guida verso il piacere.

Gino Galli, “Nudo di donna”

Una sfida ostentata come una confessione liberatoria, che resuscita tutto il talento d’autore di rango che lo stesso Gino Galli ha rinnegato, incanalato per altre strade, umiliato. Intensità, equilibro cromatico, introspezione, un senso d’attesa, leggerezza e mistero mai raggiunto prima.

Neanche nei lavori da futurista con cui pure Galli ha sfiorato la fama, c’è a mio avviso tanta forza di verità. Ecco, spostandosi ad inizio mostra, il suo modo di interpretare i nuovi canoni di simultaneità e accelerato mutar delle forme, calato in una tela del 1914. Il trotto di un cavallo ridotto ad equazione, slancio più caduta, e reso da un intreccio di vortici plastici. Colori cupi, segni molto marcati, la presenza del corpo e delle sue mutazioni accentuata da una pesantezza davvero inusuale rispetto alle prove dei suoi maestri e colleghi del tempo. Un prevalere di umori e capricciose impennate che lo ancora a terra anche quando, seguendo altri impulsi del momento, corregge il tiro con forme più aggraziate, sfondi più accattivanti, contrasti di colori a pastello, in quadri degli anni successivi: Donna- bimbo-pianteRiposoVoluttà. La sua scommessa da futurista e probabilmente le sue illusioni personali, precipitano e trovano sfogo nel limbo di altri orizzonti culturali, altre maschere d’eleganza e malinconia che riscopre nel guardaroba del passato: esemplare quell’allegoria delle Fasi della vita che il laborioso setaccio dei curatori ha recuperato in mostra, a documentare il trapasso del suo stile e della sua carriera: un lezioso sovrapporsi di figure e corpi sbiaditi su un fondale celestino che fissano impotenti la danza da burattino della Morte.

Il ritorno all’ordine come un tuffo al rallentatore nel disordine, nello smarrimento sempre più inconciliabile della sua esistenza.

Un romanzo incompiuto di traditore-tradito che è comunque imperdonabile aver espulso dalla fotografia di quegli anni difficili e dai manuali della critica specializzata troppo concentrata sugli scarti e la mitologia di discontinuità delle avanguardie per calarsi nella trama sfocata di scambi, rapporti , andirivieni, biografie personali, giravolte ideologiche, contraddizioni, strappi, errori e cadute, con cui la Storia, anche quella dell’arte, andrebbe interrogata, scritta e continuamente aggiornata.

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