Danilo Bonora
Qualche considerazione dentro le aule

La scuola è fallita?

La scuola, da decenni, è il fanalino di coda degli interessi pubblici del paese, affossata da burocrazia e psicologismi (tipo il "diritto al fallimento"...). E invece l'istruzione è il traino di una società sana. Come accade in altri paesi

Giusto un anno fa i quotidiani riferirono i risultati sconfortanti delle selezioni per i docenti nella scuola, con minime percentuali di ammessi. Gli interessati, sentiti dai giornali, parlarono di pessimi test «degni dei telequiz», dando prova di una notevole familiarità con l’entertainment di massa, meno con l’enciclopedia da esibire in sede di concorso. C’è da domandarsi se vi sia un nesso. È noto che numerosi insegnanti medi sono in cattedra senza aver mai superato prova alcuna ed essere giudicati idonei da commissione competente, un po’ in barba all’art. 97 della Costituzione. Sono lì per anzianità, alla faccia della Wissenschaft als Beruf di Max Weber, il quale evidenziò i benefici della freschezza didattica (divenne ordinario a meno di trent’anni), difficile da attribuire a coloro che, come è stato lamentato, pervengono al ruolo dopo anni di gravoso precariato e considerano «il posto» non il punto di partenza ma quello di arrivo (Drago, 1996). La scuola sembra «un tapis roulant che termina con l’assunzione in ruolo», dove il tempo per la stabilizzazione è inversamente proporzionale all’impegno nella battaglia per i «punti», salvo non ingaggiarla perché gran parte dei medesimi «è dovuto all’anzianità di servizio, quale essa sia» (Fasce, 2023).

Oggi, senza dubbio, terribili maiora premunt, ma non pare inopportuno segnalare un articolo di «Repubblica» del marzo 2022 sui concorsi delle scuole ai nostri giorni: «26.661 posti e 430.583 candidati. Il sogno è una cattedra di ruolo. Ma è già naufragio. La percentuale dei bocciati nelle prime rilevazioni è altissima, in alcune classi di concorso si arriva a punte dell’80%… E scatta la rivolta degli esclusi: “Squalificante”. “Selezionati come se fossimo in tv da Amadeus”» (Venturi, 2022). Stranamente, l’unico addentellato di candidati con laurea per criticare i criteri di accesso non è filosofico, scientifico o storico ma un paragone buono per il bar sport: «Amadeus». Contesta Gigi Roggero, docente precario di storia e filosofia al liceo, un lungo curriculum da universitario, dagli assegni di ricerca all’abilitazione: «Il minimo era 70, mi sono fermato a 66: avrò sbagliato la domanda sulla presa per collegare la stampante… Rispetto all’umiliante beffa del telequiz sarebbe stato più accettabile la casualità del sorteggio». Mah… tutta questa filosofia per tirare in ballo programmi da teledipendenti? Considerato il «lungo curriculum» esibito, si potevano menzionare – per dire – la scelta dei Mandarini nella Cina imperiale, le procedure dell’elezione dogale a Venezia, le modalità di nomina dei membri della boulé nell’Atene di Clistene, sorteggiati appunto nelle tribù, e avrebbe aiutato. «Racconta Irene Archini, 35 anni, precaria da sei a Roma: “Non c’era neanche una domanda sugli stili di insegnamento e apprendimento dell’inglese, ma una raffica di quesiti sui livelli europei di competenza linguistica. E poi incipit di romanzi famosi che neanche nei talk show”». Sarà colpa della fretta giornalistica, ma ecco un altro collegamento pavloviano con l’unica cultura realmente «familiare», i media lowbrow, e ripicche per gli incipit di romanzi («famosi»!) che un’anglista dovrebbe conoscere, persino per diletto (eh sì, succedeva, anni fa).

«La democrazia sta bene, ma al suo posto», ironizzava  Weber, mentre il Nobel Gary Becker aveva indicato tra i necessari costi non monetari dello studio (applicazione, carico cognitivo, culo di pietra) il tempo sottratto al relax e ai trastulli, dovendosi bilanciare le funzioni di beneficio marginale privato e il costo marginale privato connessi all’educazione (Becker 1962); come a dire, meno tv e più libri. Se è indubbio, osservava ancora Weber, «il destino immeritato dei molti per i quali il caso ha giocato e ancora gioca in senso opposto» a causa di apparati di cooptazione discutibili, è giusto stia alla larga dal sapere chi non capisce come «il destino della sua anima» dipenda dalla qualità del proprio Beruf, cioè di una seria vocazione intellettuale (Weber 2004).

È probabile faccia premio una convinzione diffusa che considera l’insegnamento come una dote, simile al godimento di una piccola rendita e non a una professione dotata di un bagaglio di abilità e competenze specialistiche. Priva di un greenpass culturale e professionale, lasciata orfana dall’università, la scuola ha ceduto capacità di autoanalisi e governo all’inamovibile burocrazia amministrativa e sindacale, con un graduale processo di colonizzazione in tutti gli aspetti, compresi i comportamenti dei suoi attori principali (Drago, 1996). L’imbecillità – ricordano i soliti malevoli – assomiglia molto a indifferenza od ostilità ai valori cognitivi, e dunque come tale è una colpa; prosperando anche tra chi ha ambizioni intellettuali risulta così «la chose du monde la mieux partagée» (Ferraris 2016). Che dire? Darebbe una mano agli aspiranti al posto fisso non chiamarli «prof» nei titoli («Prof bocciati, rivolta al concorso»), suonando da decenni come «colf», che dopo tutto se la passano meglio, disponendo di una buona domanda di mercato (Iorio 2022), assente a quanto consta per le laureate in inglese, costrette alle decimazioni di quiz «squalificanti». Sarà un caso?

Passa un anno e la contestazione riparte, stavolta tra gli studenti di Lettere della Federico II, in nome di «un diritto allo studio che contempli la possibilità di fallire e la necessità di rallentare». Una fidejussione – dicono i giornali – a copertura dell’ansia da prestazione per intollerabili «performance da record», essendo prioritaria la «salute mentale» degli universitari, da mettere in condizione di vivere «senza la pressione di competere e di vincere la gara». Traduzione spiccia: esigiamo un diritto allo studio che consenta di stare scialli, ricevere voti generosi e, dopo la tesi su «Il circolo ermeneutico nei post di TikTok e Mastodon», trovare un posto da tanti euri al mese per girare il mondo (ma poi, «performance da record» e tiger moms a Napoli?).

Trattasi in fondo di un déjà-vu, il fallimento dell’imprenditore voglioso di socializzare le perdite, che a tutt’oggi cerca il bail-out a carico dei tartassati con ritenute alla fonte. Spiega la psicologa Laura Parolin all’«Espresso»: «Tra le ragioni per cui gli studenti soffrono c’è il peso dell’eccellenza: come se essere eccellenti, o eccezionali, fosse l’unico segnale possibile di successo» (Sgreccia, 2023). Curiosa ripartizione della premialità: ciò che è buono per lo sport (indiscutibilmente è Messi il campione del mondo) non lo è per il resto, dove si esige il todos caballeros. In nome della par condicio sarà il caso di invitare gli studenti a reclamare un welfare nel Campionato del mondo, «redistribuendo» per equità la coppa al Canada, eliminato al primo turno?

La stampa si è concentrata su una «Generazione Xanax», triste, sensibile e apatica, uscita sicuramente debilitata dai lockdown (Marocco, 2023). Si osservi appunto che l’ennesimo atroce fait divers evocato nella protesta studentesca del febbraio 2023 ha tangenze con un esame tosto sopravvissuto a Lettere, quello di latino, sperduto nel parcoa tema midcult delle humanities, estinti gli ultimi professosauri – i Dionisotti, Campana, Billanovich, Contini, Folena, Caretti – «ordinari, autori seri», scriveva il Fortini dell’Ospite ingrato, «cui si schiudono i libretti / degli esami nei bui chiostri / delle dolci università» (Fortini, 1985). Il mordace musicologo Paolo Isotta, recensendo la ristampa di un ponderoso libro di M. A. Rigoni sul pensiero leopardiano, oltre a commiserare i «quattro decerebrati che frequentano le nostre scuole» fermi ancora «alla donzelletta che vien dalla campagna», così riassumeva lo stato dell’arte della docenza umanistica: «Mettete quest’opera nelle mani di un medio professore universitario. Uno, non la capisce. Due, non ha tempo di leggerla: deve pensare alla carriera e a leccare i piedi agli studenti» (Isotta, 2020).

Cattiverie e provocazioni, certamente, però, perso il traghetto della rivoluzione digitale trent’anni fa, da allora l’Italia si è insabbiata nelle secche, in primis per il basso livello dell’istruzione. Altra causa dell’arenamento è stata la mancanza di meritocrazia nella selezione di élites degne di questo nome: «not simply the result of a failure to adjust, but an optimal response to the Italian institutional environment. Italy’s case suggests that familism and cronyism can be serious impediments to economic development» (Pellegrino-Zingales, 2017). Mentre noi contiamo sulla spintarella del cugino assessore, nei paesi cresciuti meglio l’applicazione dell’informatica, la ricerca, la ricchezza e la flessibilità del capitaleumano hanno favorito profonde innovazioni e uno spostamento della produzione verso beni a più alto contenuto tecnologico, corrispondendo il divario di Research & Development a una ben diversa qualità della scuola (Bastasin-Toniolo, 2020). Purtroppo le risorse umane sono uno dei pilastri della TFP, la Total Factor Productivity, moribonda da oltre un quarto di secolo in Italia, fanalino di coda in Europa per stipendi e produttività. Negli ultimi anni se ne sono andati i giovani più capaci, soprattutto con lauree STEM (ma anche umanistiche), «un drammatico impoverimento cognitivo che è anche un impoverimento morale. Nessuna inversione di tendenza è immaginabile ed è improbabile che il riscatto parta dalle humanities» (Corbellini, 2017). A proposito di scienze umane – appurato che le belle lettere «are not just dying. By some measures, they are almost dead» – così ha concluso il rassegnato Justin Stover a Oxford (Stover 2019): «somewhere inside we all know that there is no case for the humanities». Che peccato.


Le fotografie sono di Roberto Cavallini

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