Michela Di Renzo
Una storia "sanitaria"

Il professor Grifanti

«“Non ho chiesto la diagnosi, ma i sintomi”. La voce del Grifanti si alzava di un paio di decibel. “Viene per dispnea, professore”. Era impossibile indovinare la risposta giusta perché se si nominava per prima la sintomatologia, il Grifanti voleva la diagnosi»

L’agitazione cominciava una mezz’ora prima: specializzandi e strutturati iniziavano ad accelerare il passo lungo il corridoio, mentre andavano a prendere i fogli della diaria in cima alla corsia e cercavano di accaparrarsi per primi l’apparecchio della pressione. “Io non l’ho ancora presa ai miei pazienti” “Ti potevi alzare prima stamani” “Se me lo presti, dopo ti pago il caffè” “Non ci penso nemmeno”.

Mentre ritagliava i referti con le forbicine di plastica e li attaccava con lo scotch trasparente – la cartella doveva essere ordinata e Anna aveva sempre nella tasca del camice tutto l’occorrente, e si alzava alle sei di mattino per non dover discutere con nessuno e misurando la pressione ai pazienti ancora mezzi addormentati – insomma mentre cercava di svolgere al meglio il suo lavoro, l’immagine che le veniva in mente era sempre la stessa: i lombrichi giallognoli che si agitavano sul fondo del barattolo in attesa che uno di loro venisse afferrato e infilato sull’amo. “Ma a che pensi? Tanto sono tutti uguali”. La voce di suo padre, roca per le troppe sigarette, la spronava a non perdere tempo, in una di quelle mattine estive in cui si erano alzati presto per andare a pescare. Guardando altrove, Anna allungava le dita verso la matassa grigiastra dentro al contenitore di plastica e prendeva il primo verme che le capitava.

“Tra cinque minuti arriva”. La caposala passava sempre di stanza in stanza a ricordare l’inizio della visita. Perché il professor Grifanti era preciso come un orologio svizzero, nonostante le sue origini toscane. Alle dieci in punto la porta del Reparto si spalancava davanti a un omone alto due metri, la testa a punta incassata tra le spalle larghe, i capelli rasati a spazzola, il naso schiacciato e il labbro inferiore sporgente sotto un paio di baffi rossicci. “Da giovane non era mica male, sai” diceva ogni tanto la madre di Anna che lo aveva conosciuto quando faceva l’infermiera, e il Grifanti era studente di medicina.

“Ma davvero?”

“Davvero, e poi altezza mezza bellezza”, giusto per ricordare a sua figlia che era alta un metro e cinquanta, come suo padre del resto, da cui aveva ereditato i lineamenti minuti, ovvero a Madonnina Infilata, come diceva qualche volta sua madre, una donna alta e snella ma dai lineamenti arcigni, le rare volte che la figlia osava contraddirla. “Il professore ha sposato una donna bellissima, una signora del Nord, di buona famiglia, ma che a giro per Siena si vede poco- e a questo punto il tono di voce della mamma si abbassava- perché soffre di depressione”.

Quando il Grifanti spalancava la porta del Reparto, Anna si faceva sempre trovare sull’attenti davanti alla stanza che seguiva come specializzanda, la prima del corridoio. “Iniziamo la visita”. La sua voce da baritono arrivava fino in fondo alla corsia; i suoi occhi neri come il carbone fissavano per una frazione di secondo i colleghi che gli si avvicinavano a capo basso, in segno di riverenza, e un sorriso malevolo gli compariva sul volto, facendo intravedere i due denti giallastri davanti, separati da una fessura. Poi entrava nella stanza, e si metteva seduto davanti al primo malato che si rincantucciava sotto alle coperte diventando pallido come il lenzuolo.

“Come mai si ricovera questo paziente?”

“Viene per uno scompenso di cuore” rispondeva Anna sforzandosi di non balbettare e avvicinandosi al suo strutturato, il Cigna, nella speranza che il suo sapere le si trasmettesse per osmosi.

“Non ho chiesto la diagnosi, ma i sintomi”. La voce del Grifanti si alzava di un paio di decibel.

“Viene per dispnea, professore”. Era impossibile indovinare la risposta giusta perché se si nominava per prima la sintomatologia, il Grifanti voleva la diagnosi.

Subito dopo, senza degnare di uno sguardo l’anamnesi compilata da Anna in prima pagina con la sua calligrafia ordinata, il professore si metteva a sfogliare la cartella, finché con il dito indice non puntava qualcosa di suo gradimento.

“Ha le mani che sembrano due ragni pelosi” aveva detto a sua madre, evitando di raccontare che se le era sognate anche di notte quelle dita affusolate, ricoperte di peli scuri, mentre percorrevano il suo corpo in lungo e in largo e si trasformavano in due vedove nere.

“Uhm…vediamo un po’, come mai questa paziente è ipocalcemica?”

“Non lo so professore”

Il pomeriggio precedente lei e il Cigna ne avevano parlato a lungo di quella ipocalcemia, l’unico esame sballato della malata, ma non erano riusciti a trovare una spiegazione.

“Non lo sai o non te lo sei chiesto Paparelli? Ti devi fare delle domande se vuoi fare il medico, altrimenti era meglio se facevi un altro mestiere”.

A quel punto l’unico obiettivo di Anna era quello di non mettersi a piangere, come era successo la prima volta che era stata trattata male dal professore, ed era scappata via dalla stanza in lacrime per chiudersi nel bagno della Direzione. Costanza, la segretaria, aveva cercato di consolarla.

“Non prendertela così, lo fa con tutti, mica solo con te”. Con Costanza erano state in classe insieme alle medie, Anna poi era andata al classico e lei a ragioneria. “Tra l’altro sa che sei sempre stata brava a scuola, mi ha chiesto informazioni quando ha visto che ci conoscevamo, gli ho detto che avevi ottimo in tutte le materie e che la professoressa di italiano leggeva sempre i tuoi temi in classe da quanto erano scritti bene”.

“Già” Anna aveva sospirato perché finito il liceo aveva avuto la tentazione di iscriversi a Lettere anziché a Medicina. “E il Grifanti che ha detto?”

“Strano che fosse così brava, ha risposto, di medicina non ci capisce niente”. A quel punto Anna aveva ricominciato a piangere.

“Non ci credo nemmeno che abbia detto così…”. Sua madre aveva scosso la testa. “Quella si vuole vendicare di quando all’esame di terza media non le hai passato il compito di italiano. E hai fatto bene. Te stavi a studiare dalla mattina alla sera mentre Costanza faceva le giratine per il corso.”

In realtà Anna più che studiare, spesso leggeva un romanzo, ma sua madre la vedeva comunque seduta tutta il giorno alla scrivania di camera, e a scuola i voti erano buoni. All’esame di terza media le era dispiaciuto non aiutare l’amica, ma siccome Costanza non sapeva mettere per scritto nemmeno due parole una dietro all’altra, qualunque professore leggendo il tema di italiano avrebbe capito che non era farina del suo sacco. Con matematica era stato più semplice, perché era bastato aggiungere un paio di errori a caso, ma con italiano Anna non se l’era sentita. E le era dispiaciuto che Costanza se la fosse presa così tanto da non salutarla più quando la trovava per strada. “Ti saluterà di nuovo quando sarai diventata medico, vedrai”. Su questo la sua mamma aveva avuto ragione, perché Costanza era stata cordiale quando l’aveva trovata a fare la specializzazione dal Grifanti.

“Comunque te dal Grifanti hai solo da imparare. E se non era per lui tua nonna sarebbe morta vent’anni prima”. Anche su quello la mamma aveva ragione perché il Grifanti era un bravo clinico, gli bastava guardare il malato dalla porta della stanza per fare la diagnosi giusta; ed era stato l’unico a ipotizzare, laureato da poco, che la nonna di Anna avesse la leishmaniosi, tra l’altro l’ultimo caso descritto in Toscana. Per non parlare del fiuto che aveva per la morte, di cui riusciva a prevedere persino l’ora in cui sarebbe avvenuta. Si raccontava che una volta l’avesse detto alla moglie di un malato che anziché venire in ospedale con i soliti vestiti sgargianti, si era presentata vestita di nero al letto del marito una mezz’ora prima che il poverino spirasse.

Alle undici, finito l’incubo di quella che era definita “la visita contro”, i medici della Clinica Medica andavano tutti al bar e c’era sempre qualcuno di loro che cercava di sdrammatizzare, magari proprio quello che era arrossito di vergogna davanti al professore. Lui non veniva mai, come non andava mai a mensa, ma si mangiava un panino portato da casa nella sua stanza dell’ottavo piano. “Non spende nemmeno per un caffè” diceva qualcuno, “deve smaltire la cena di ieri” aggiungeva un altro sollevando le sopracciglia, perché si vociferava che il Grifanti bevesse e c’era chi giurava di averlo visto barcollare una sera in via Franciosa, poco lontano dal portone di casa, dove viveva quasi sempre da solo, perché la figlia si era trasferita in Australia subito dopo la laurea e la moglie stava spesso a Milano.

In casa del professore era entrato solo una volta il Cigna, per portargli dei farmaci una volta che era malato: l’appartamento signorile arredato con dei mobili di antiquariato dal gusto pesante e con le pareti coperte di quadri dai colori cupi era pieno di polvere e in camera il professore era sdraiato su un letto a baldacchino dal gusto barocco, con le ragnatele negli angoli. Il Cigna, che era allergico agli acari, aveva iniziato a tossire subito dopo aver fatto l’iniezione al professore e se ne era dovuto scappare a gambe levate, fermandosi spesso per le scale a inalare il Ventolin da cui non si separava mai.

“Che malelingue che sono. Dal Grifanti ci va da anni a fare le pulizie Marisa, la sorella del cognato del fratello di Giulietta…” La mamma di Anna aveva iniziato a evocare dei parenti alla lontana che sua figlia non aveva mai conosciuto. “Una donna che vale oro quanto pesa”.

“E soprattutto una bella sposa” aveva aggiunto suo padre prima che la moglie lo fulminasse con gli occhi.

Quel giorno però il Grifanti era diverso dal solito: non aveva mai avuto un bel colorito ma quella mattina era ancora più grigio e mentre stava seduto sulla sedia in fondo al letto del malato storceva la bocca, in una smorfia di dolore più che di disgusto per quello che vedeva scritto in cartella. Persino i tre peli che gli spuntavano dalla verruca sulla guancia erano afflosciati verso il basso.

“Non ci siamo Paparelli, non ci siamo” fece scuotendo la testa dopo che Anna ebbe descritto il ritmo che vedeva all’elettrocardiogramma come una fibrillazione atriale, leggendo quello che il Cigna aveva scritto sopra la carta millimetrata. Ma il professore lo disse con una specie di borbottio, come se stesse masticando qualcosa; un secondo dopo gli uscì dalle labbra un grosso grumo di sangue che andò a finire sul tracciato del paziente. Anna sussultò. Quando sul grumo colò una boccata di sangue rosso vivo si dovette aggrappare alla pediera del letto perché si sentiva girare la testa. “Professore!” gridò il Cigna. Anna rimase immobile, con i piedi incollati al pavimento, a guardare il Grifanti che di un pallore mortale cadeva a terra; il suo corpo voluminoso ingombrava il pavimento e dalla sua bocca fuoriusciva materiale rosso scuro che colava sul pavimento. Il professore aveva il viso immerso in quel liquido dall’odore nauseabondo, che gli si era appiccicato ai capelli rasati a spazzola e in cui agitava la mano destra che sembrava un ragno che cercava di non affogare. Solo quando un conato più forte degli altri raggiunse gli zoccoli bianchi di Anna, lei ebbe la forza di muoversi e andare a vomitare nel bagno della Direzione. Costanza, che era accorsa anche stavolta, rimase di sasso sentendo il suo racconto; andò alla svelta in corsia e tornò sconvolta perché il professore era già morto. Questa volta toccò ad Anna consolarla, guardandola di stucco mentre, con gli occhi celesti pieni di lacrime, raccontava di un Grifanti sconosciuto. “Era brusco, è vero, ma sapessi quanto mi è stato accanto in certi momenti” “Brusco? Era un mostro” “Ma mio figlio non sarebbe vivo senza di lui”. La segretaria, continuando a piangere, le raccontò di quando era incinta e all’ecografia prenatale era emerso il sospetto di una malformazione cerebrale. Il Grifanti non ne era mai stato convinto –“Ma che ne sanno i ginecologi? Quelli non sono nemmeno medici!” aveva esclamato e Costanza, che non aveva abortito, aveva partorito un bambino normale. 

Anna controlla l’orologio e mentre suona la campanella è già a pochi metri dalla porta della classe, la prima B. “Eccola, eccola che arriva” sente bisbigliare due ragazze che si affrettano ad entrare. Chissà se conoscono già il suo soprannome, la Papessa. Non solo perché fa cognome Paparelli ma perché è la professoressa più rispettata e più temuta di tutto il liceo. E non solo dagli studenti: corre voce che persino il preside non muova foglia senza la sua approvazione.

Prima di iniziare la sua lezione sull’importanza della letteratura nella nostra vita, Anna alza gli occhi verso la classe e si sofferma su un alunno in ultima fila, un ragazzo con gli stessi occhi azzurri e lo stesso viso tondo di sua madre. Costanza ha voluto che fosse nella sessione dove insegna la sua ex compagna di scuola. “Guarda che io sono una tosta, non è che lo passo perché ci conosciamo” ha sottolineato Anna. “Questo lo so, ma di sicuro ti piace quello che insegni. E questo è importante”

Costanza è l’unica persona che quando ha saputo che Anna aveva interrotto la specializzazione per iscriversi di nuovo all’Università, questa volta a Lettere, non è rimasta sorpresa. “Il Grifanti lo aveva sempre detto che fare il medico non era la tua strada”. “Lo pensava di tanti, non solo di me. Che incubo che era quella visita che faceva alle dieci di mattina” “Pover’uomo, c’è anche morto in corsia” “Che orrore, non mi ci far ripensare, me lo sono sognato per mesi tutto quel sangue che colava sul pavimento” “Che poi non si è mai capito di cosa sia morto, se di un’ulcera perforata o di un tumore allo stomaco. Io comunque non ci ho mai creduto che bevesse.” “Ci credo poco anche io” “Comunque te hai avuto un bel coraggio a ripensarci”.

Altro che coraggio. Quando Anna era tornata a casa la sera del funerale del Professore, annunciando ai suoi che voleva iscriversi a Lettere, sua madre aveva avuto una crisi isterica. “Ma sei impazzita? Con tutti i sacrifici che abbiamo fatto per fare di te un medico”. “Mamma, ho capito che non mi piace” “Te sei sconvolta dalla morte del professore. Che poi se l’è cercata, perché lo diceva anche Marisa, la sua donna di servizio, che beveva come una doga” “La morte del Grifanti non c’entra niente” “Lui ti metteva in difficoltà tutti i giorni, ti diceva che non c’eri portata, e ora che lui è morto e la strada è in discesa, te vuoi smettere? Ma che ti dice la testa?”. Il volto di sua madre sembrava quello di una strega che sta per lanciare una maledizione e Anna aveva avvertito un sudore freddo lungo la schiena. In quel momento era intervenuto suo padre che con la sua voce roca aveva fatto: “Ma la vita è la sua”. “Ma te che ne sai? Te che hai sempre fatto il commesso al Monte dei Paschi, te che non hai mai avuto nessuna voglia di migliorare. Ecco da chi ha preso tua figlia. La professoressa di Lettere, sai che futuro? Io invece sarei diventata caposala se non fossi rimasta incinta, incinta di…di questa figlia degenere”. Dopo quella scenata padre e figlia avevano cenato da soli, in un clima di complicità nuovo per entrambi, perché la mamma di Anna si era chiusa in camera da sola. Da allora la signora Paparelli non aveva mai perso occasione per rinfacciare la mancanza di ambizione alla figlia o al marito, a seconda dell’occasione, finchè la sua rabbia non si era placata grazie all’aiuto degli antidepressivi.

A volte Anna si ritrova a pensare a quei momenti, incluso il funerale del Grifanti, dove tutto il mondo accademico aveva omaggiato il professore e dove il segretario del Vescovo dell’altare aveva parlato del “fuoco sacro della Medicina che il Grifanti definiva un’arte più che una scienza”. Parole che Anna non aveva mai sentito uscire dalla sua bocca. Mentre ricorda bene, come se fosse ieri, una cosa che non ha mai detto a nessuno, ovvero quando pochi giorni prima di morire il Grifanti l’aveva chiamata all’ottavo piano, nella sua stanza.

“Ha detto che vuole vederti” Costanza glielo aveva comunicato in un sussurro.

“Mio Dio, che ho fatto stavolta?”

Anna aveva salito le scale col cuore in gola, come se andasse al patibolo. Il Grifanti l’aveva fatta sedere davanti alla sua scrivania, dove si ammassavano uno sull’altro i libri di medicina e le riviste scientifiche, e a bruciapelo, come faceva lui, le aveva chiesto: “Ma te Paparelli, perché hai fatto Medicina?”

“Che domanda professore…perché mi piaceva”

“Ne sei sicura?”

Anna era rimasta zitta.

“No perché vedi Paparelli, te non mi sembri una stupida, ma ho l’impressione che il paziente in quanto tale non ti interessi. E sai, nella vita non sempre le cose vanno come avevamo sperato; e se il lavoro che ti ritrovi a fare dalla mattina alla sera è l’unica cosa che ti resta e non ti piace nemmeno quello, come piace a me – il professore aveva indicato il caos della sua stanza zeppa di volumi – allora sono cazzi amari”

Ad Anna era sembrato impossibile che uno come il Grifanti potesse dire due parole del genere e col tempo si era convinta che l’emozione le avesse giocato un brutto scherzo. Probabilmente lui aveva detto “guai seri” e lei aveva capito male.

Però tutte le volte che entra in classe e vede uno dei suoi studenti che annuisce in segno di approvazione o che la guarda a bocca aperta, affascinato dalle sue spiegazioni, è sicura di aver compreso fino in fondo la sua lezione.


Le illustrazioni sono di Teresa Maresca

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