Daniela Matronola
Per una poetica del vuoto/1

Il romanzo di Iris

Il nuovo romanzo di Ilaria Palomba, "Vuoto", riflette su una condizione individuale molto difficile: il vuoto inteso come desertificazione interiore e indebolimento; come corpo vuoto candidato ad essere infestato

Chi è Iris, protagonista di Vuoto, romanzo di Ilaria Palomba (Les Flâneurs, pagine 268, 18€) la cui natura meriterà di essere ben definita? La risposta è sulla porta del romanzo, in una manciata di versi, trascritti dal poema gnostico Tuono, mente perfetta, che si riannodano a una loro ulteriore selezione tessuta nella penultima pagina, chiudendo il cerchio più grande di un romanzo che procede per cerchi successivi.

State in guardia! / Non ignoratemi., avvertono quei versi. // Perché io sono la prima e l’ultima / Io sono l’onorata e la disprezzata. / Io sono la prostituta e la santa. / Io sono la sposa e la vergine. / Io sono la madre e la figlia. / Io sono le membra di mia madre. / Io sono la sterile / E molti sono i miei figli. // Io sono colei il cui matrimonio è grande, eppure Io non ho marito.

Colei che parla nel poema è Iside, dea della femminilità. A parlare nel romanzo di Ilaria Palomba è Iris, dea messaggera ammantata di rugiada, arcobaleno, pupilla. Nei versi stralciati dal poema si sente l’eco di storie bibliche di donne sterili e poi miracolosamente fertili – nel romanzo di Ilaria Palomba, che ruota, anzi si attorciglia, attorno a Iris, dea di trentacinque anni, balenano testi sacri simbolici poetici filosofici misterici: una delle molte qualità attraenti del libro è questa fitta rete intertestuale che avvolge il lungo nastro del racconto, a sua volta confessione, pedinamento puntuale da dentro, caparbiamente svolto da Iris in prima persona per un intero anno, tanto che, dovendolo appunto definire, il romanzo risulta essere, come forse è già stato detto o scritto, biografia interiore.

Il tessuto intertestuale, diversamente da quel che si può pensare, non è il dispiegamento di un repertorio sapienziale, né l’invocazione di un patrimonio da cui farsi spalleggiare – però le spalle c’entrano. Si tratta invece di una convocazione di testi e autori quali altrettanti alleati e custodi che appunto tengano Iris abbracciata per le spalle e la sorreggano laddove, Iris con una sua costante attitudine, tenderebbe viceversa a cadere anzi a gettarsi nel vuoto.

In più il coro di testi e autori che la accompagnano sono le lenti con cui Iris riesce a leggere la vita il mondo la realtà i sogni gli incubi le fissazioni le relazioni. Se non avesse questa schiera angelica alle spalle, davvero Iris, incerta, dolente, dubbiosa, non saprebbe come maneggiare ciò che le accade, ciò che lei stessa permette le accada e riesce a colpirla. Sensibilità e talento la mettono in una posizione rischiosa, la espongono e la portano a lanciarsi sulla propria pelle, a muoversi nello spaziotempo e tra esperienze forti, perlopiù a perdere, sempre senza cautele, in genere senza protezioni.

Sul piano della scrittura (una scrittura che non salva, si ripete Iris, toglie semmai, toglie molto, scava, svuota, succhia via le scarse riserve di energia), si determina un doppio nastro che si snoda tra una prevalente analisi, in prima persona e al presente, e un dispositivo di spietato autorimprovero per interludi, in seconda persona e in corsivo: è lo sdoppiamento tra la me chiara e la me scura, duello intermittente tra la Iris luminosa e chiara e la suicida annidata dentro di lei.

Iris, romanziera e poeta di talento, desta rabbie gelose in chi da presso la incalza ponendosi in aperta competizione e svelando viceversa senza vergogna la propria mediocrità, artistica e personale.

Tutto per lei passa attraverso la parola scritta e una forte esigenza di approvazione e riconoscimento che la mette suo malgrado in una specie di sudditanza, fin quasi alla sottomissione. In più negli anni della precoce adolescenza il suo battesimo nell’intenzione di vivere l’amore e il sesso le è costata una violenza, ferita mai risanata che la guida e la orienta, e ha modificato in profondità la sua relazione con i genitori, il suo modo, non più innocente e sereno, di vedere i loro dissidi.

La ferita primigenia ha scavato un vuoto dentro di lei: ciò che colpisce procedendo nella lettura (che è lenta e immedesimativa per la densità della scrittura: non barocca o estetizzante, al contrario nitida e raffinata, esatta e centrata, potentemente evocativa) è la pluralità generativa del senso del vuoto, giusta sigla a sintesi del libro.

È costante in Iris il sospetto che la realtà sia un’allucinazione e tutto sia finzione. C’è da mettere nel conto che lo scrittore, l’artista, vive in un perenne stato di alterazione, che tende a formularsi nel delirio: non è uno stato d’innocenza se non per il fatto che esso si instaura come stato naturale, cioè a conti fatti spontaneo, di per sé insopprimibile. Già solo questo vale l’assoluzione.

Il vuoto, si diceva. Può essere vuoto pneumatico che circoscrive una cavità esistenziale e passa la vita al setaccio. È ciò che si svela quando cade ogni maschera. Può essere morte civile di fatto. È il vuoto dell’assenza: di Giulio, poeta e amico fraterno morto giovane, da cui Iris si sente risucchiata, e di Federico, marito capriccioso, che non regge la rivalità letteraria e la traduce in rivalità coniugale. Vuoto come trasparenza, inesistenza, assenza, psicosi da assunzione dell’identità di altri. Vuoto come desertificazione interiore, e indebolimento, insterilimento. Vuoto come carcassa, corpo vuoto candidato ad essere infestato. Vuoto di identità o di senso. Vuoto come malvagità, sparizione di ogni lumen umano. Vuoto come nulla di fatto, ciò in cui è probabile finirà tanta magnificenza di doti e doni concentrati in Iris che il mondo non vuole, rigetta, punisce. Vuoto come spazio lasciato da un’infanzia defraudata, che Iris sente, e dice a sé stessa, sia venuto il momento di abbandonare.

Iris deve lasciarsi dietro la bambina violata e fare spazio (ecco il vuoto che apra a un’esistenza diversa) a una svolta che la sleghi dalla schiavitù cui ha troppo a lungo indulto – siamo noi tutti nel punto in cui dobbiamo rappresentare e realizzare il congedo: vuoto come disfarsi di tutto.  

Sarà questo il senso del diradarsi via via, dello slabbrarsi quasi, del testo, tra paragrafi sempre più fulminanti e dialoghi all’osso, come se la vita attuale si facesse via via inattuale, sostituendo ad essa man mano una fase ulteriore ancora vuota e ancora piena di disordine, caos e macerie nell’anima. Non a caso, dopo tanto stringente tallonamento di spazio e tempo, l’approdo è un senzatempo in cui il delirio rallenti e si acquieti per smettere di demolire e rigenerar(si). Un iter spirituale, dopotutto.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini

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