Emilia Santoro
Su “Eserciziario di formule brevi”

Poesia come visione

La nuova raccolta poetica di Francesco Terracciano è un viaggio nella lentezza della vita attraverso la velocità delle emozioni

Le poesie raccontano di due esistenze, un uomo e una donna, le cui vite si sarebbero altrimenti perse.  Sogno e realtà si mescolano in modo consapevole perché «non che questo mondo non esista, ma la sua realtà non è una realtà. Tutto ha l’aria di esistere, e non c’è niente che esista» (E.M. Cioran, Il funesto demiurgo).

Eserciziario di formule brevi di Francesco Terracciano (Edizioni Ensamble, 2022) è un libro di poesie per non annegare nelle emozioni industriali, dove i sogni sono schegge veloci. In questi versi si abbraccia invece una lentezza che fa grandi le cose necessarie. È cura, amore, spazio per il dolore. Un andar lenti che è come il ruminare, l’assaggiare col corpo la terra. Un riparo al profugo del pensiero veloce.

Il titolo della raccolta può apparire freddo ma mi ha fatto pensare all’adolescenza, ed è lì che l’autore mette una presenza-assenza: […] gli anni in cui non c’eri/i giorni dove ti ho messo […]  E in copertina vi accoglie una poesia-ambiente, preludio carezzevole. Sono sessantotto poesie raccolte in diciotto #Dream, che il cancelletto tiene insieme nell’etere. È un libro visionario, affatto consolatorio. I versi intaccano la corteccia che il tempo e il progresso costruiscono intorno ai sentimenti, proprio come avviene agli alberi, e arrivano a penetrare come lama affilata e lucente la nostra indifferenza, quella del mondo. E sanguina la ferita che neppure sappiamo di avere.

Dopo aver letto d’un fiato, ho avuto paura. Ho sentito dei passi veloci dietro di me e mi tornavano in mente certe visioni del poeta: in un paesaggio distopico, in uno spazio di confine bianco appare una cattedrale inattesa dai resti affumicati, dove angeli caduti da un affresco ricostruiscono la scena sull’erba con gesti che ripetono a memoria.

Allora mi chiedo cosa deve ritornare, cosa non possiamo perdere in questo cambiamento epocale e dialogo con la mancanza, con la solitudine. Ho affiancato le mie visioni a quelle descritte dai versi per riprendere il respiro dei sentimenti, proprio come se fossero vivi e non detti, dei segni lasciati sui vetri.

Una donna si muove nella casa, quella della quotidianità accorata, struggente, e una musica drammaticamente lieve mi accompagna tra l’astrattismo delle note di un’arpa e un clavicembalo lontano. Le corde del cuore sono temi trattenuti, leggeri come foglie in autunno. Così le parole impalpabili ritorneranno a valere qualcosa, a raccontare la vita e la morte nei piccoli gesti, nelle lampade che si accendono da sole perché chiedono presenza, negli oggetti che ci circondano e delineano i nostri corpi. I corpi sembrano solo sognati, una proiezione, e non importa la loro inconsistenza perché le carezze passano dal disegno dei fianchi nudi, evaporano dal grafismo delle parole. Inoltre, sai che la realtà cambierebbe tutto, trasformerebbe la nostra volontà, le percezioni e anche l’amore, che comunque verrà un giorno seppellito in un cellaio dove la luce arriverà ma senza scopo. Tutto appare senza scopo, e i movimenti lenti dicono sapendo di non poter dire, in una realtà dove tutto ha l’aria di esistere, e non c’è niente che esista.

Mi sono ritrovata nel buio insieme al poeta a combattere ogni forma di oscurantismo perché, viaggiando con la donna presenza-assenza, ho ospitato più altri e più sentimenti, ben sapendo che una domanda retorica aleggia sulla poesia, sulla sua impossibilità di avere un qualsiasi ruolo nella storia: Potrei sotto il capo dei corpi riversi posare un mio fitto volume di versi? Direbbe il poeta Fortini rassegnato… mettiamo una maglia perché il sole va via.

Nel libro di Francesco Terracciano puoi finalmente uscire dalla scena principale e avvicinarti a molti segreti perché la luce non arriva qui […] e sembra disteso su un fianco il palazzo/come quei cani che dormono/ al sole/e aprono appena gli occhi, se uno passa.

C’è un finale che lascia i sassolini sulla strada ma solo in questo epilogo ci innalzeremo al di sopra del dolore, perderemo le gambe di ferro, usciremo dalla casa sognata che diventa a volte abbandonata, dalla strada nella quale non abbiamo visto con gli occhi degli altri, dai giardini dove non abbiamo messo croci e…

Chiamale tutte per nome, le stelle.
Soltanto ripararsi sotto l’arco
Di una finestra, leggere alla luce
Che resta dentro. In un altro palazzo
Più o meno nello stesso posto siede
Una ragazza. È di fronte. Sorride.
Quell’angelo dov’era il buio. Stanze
Che si rincorrono. Ci siamo visti
Da qualche parte, siamo stati insieme
Inizia adesso o finisce, non conta.
Apparterremo sempre a questo cielo
Corpi leggeri che cadono a volte
Dal suo pulviscolo, fili di cera.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini

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