Daniela Matronola
A proposito di “Azzurro Amianto”

Di madri in figlie

Il nuovo romanzo di Emilia Bersabea Cirillo è la storia di due donne che vivono ai confini della società dell'abbondanza. Il loro rapporto si riverbera nelle intimità e nelle incomprensioni che scoccano tra madri e figlie

Azzurro Amianto di Emilia Bersabea Cirillo, edito dalla casa editrice Le Plurali, è un romanzo che a partire dal titolo fa già due cose che la letteratura può fare, e, messa in buone mani, puntualmente fa: evoca e indica. La scrittura di Emilia Bersabea Cirillo, architetto, per felice intreccio, risulta poetica e civile nello stesso momento, una combinazione già mirabilmente espressa dall’autrice irpina attraverso prove precedenti in cui ha mostrato di avere un passo nella scrittura che, senza nulla togliere alla potenza (lo si diceva poco fa) evocativa di una parola pulita e nitida, è agita da passione civile: non solo per l’esposizione accurata che ricostruisce vicende pubbliche non ignote  su cui vale la pena riaccendere l’attenzione generale, ma anche per quel senso di cittadinanza sensibile, capace di farsi carico di casi scomodi per la convivenza sociale.

Lo abbiamo visto nei suoi libri precedenti: su tutti Non smetto di aver freddo (L’Iguana, 2016) in cui il focus era l’amicizia tra due donne attraverso l’intero arco delle loro vite, prima legandole nell’infanzia, poi riavvicinandole da adulte. Le vicende e le persone narrate da Emilia Bersabea Cirillo sono sempre figure compiute di itinerari in cui l’esperienza illustra e in certo modo avvalora la conoscenza traendone linfa.

In Azzurro Amianto, l’esordio della vicenda è affidato a due donne che vivono di stenti presso la ferrovia di Avellino, dormono alla meglio in una littorina abbandonata, e fanno mucchietti di una strana polvere. Il loro stato è talmente degradato che qualcuno le vorrebbe eliminare, qualcuno le vorrebbe salvare. E c’è chi per eliminarle vuol mettere in piedi un modo per salvarle, togliendole da lì. Sembrano una madre e una figlia (duo che tornerà più avanti in altra, diciamo, figura) ma non lo sono: sono suocera e nuora. Il legame che le tiene insieme è la disperazione che esprimono entrambe però con atteggiamenti e linguaggi diversi.

La loro ancora di salvezza sarà Beatrice, antiquaria, che da Avellino è andata a vivere a Firenze. Lì da sola si occupa di sua figlia senza occuparsene, tenendo viva dentro di sé la preoccupazione per lei: Bianca ha un ritardo cognitivo ed è in un istituto, accudita da altre e separata da sua madre.

La vera coppia, stavolta, madre-figlia non può non ricordarci il mondo evocato da Fabrizia Ramondino, non a caso una delle stelle polari per Emilia Bersabea Cirillo, specie in romanzi come Althènopis o come L’isola riflessa oppure come una pièce teatrale (fenomenale e introvabile) che è Terremoto con madre e figlia. C’è un’altra madre qui, una madre nascosta, Stella (il secondo nome di Bianca), madre fragile e disturbata di Beatrice, una creatura sensibilissima, da tutti “archiviata” come “strana”, finita poi (lei pure) in una clinica. Stella appartiene non solo alla Avellino dell’infanzia di Beatrice, insieme alla nonna e alla bisnonna, e alla carissima zia Anna, e alle domestiche quasi zie provenienti dalle campagne, eredi e depositarie di altre sapienze ed esperienze, e custodi di armonia, ma anche al Cilento e al mare dove la maggior parte di queste donne erano e sono, si trovavano e si muovono.

Del tutto disarmonica è Maria Nives, cugina e amica d’infanzia di Beatrice, come le sue amiche, signore dei salotti bene della città, piene di anelli e collane, abituate ai tè come altrettante soroptimists, avvezze a una carità pelosa con cui, mentre intendono soccorrere le due infelici dell’inizio, Matilde la suocera e Ausilia la nuora, desiderano che le due spariscano alla vista della città e smettano di turbarla dando immondo spettacolo di sé. Una borghesia senza sentimento, cinica e avvezza al potere come certi pietroburghesi dei grandi russi, specie di Anton Čechov nei racconti.

Il quartiere della ferrovia è infestato da una finissima e pervasiva polvere azzurra, amianto. È ovunque, residuo di una fabbrica impiantata nella zona dopo il terremoto dell’Ottanta. La malattia polmonare causata dall’amianto ha fatto strage di operai e di chiunque sia venuto a contatto con la sostanza, che essendo peraltro volatile ha effetto ammalante endemico quasi come certi virus di più recente storia clinica. Il malanno soffocante e cancerogeno è l’asbestosi: il nome dell’amianto, asbesto, dice già tutto, “non si spegne mai”. A un certo punto una specie di apocalisse investe la città, la segrega e la isola, con esodi biblici di gente che fugge: un vento gelido e potente ha sparso la polvere azzurra e riattivato la contaminazione.

La protagonista, Beatrice, è la chiave di volta in una vicenda che lentamente prende il suo dovuto verso giudiziario, in cui tutti come in un balletto tragico e grottesco volteggiano saltellando sui fuochi ardenti della contaminazione, ed è lei dopotutto, esule ritornata, a coordinare l’azione che porterà a depositare testimonianze (il diario per esempio di un operaio, tenuto proprio negli anni di attività della fabbrica) utili ad imbastire il processo.

Il romanzo prende le mosse, per tornarvi nell’epilogo, da un caso reale che il libro testimonia: la vicenda dell’Isochimica (nel romanzo NEWCHEMISTRY, nome che adombra comproprietà multinazionali tipiche del pedigree di altre realtà industriali avvelenanti) e i risultati, deludenti, dell’iter processuale reale conclusosi il 28 gennaio 2022.

Torno sulla coppia madre-figlia, Beatrice e Bianca, per segnalare che Stella, madre di Beatrice, e Bianca, figlia di Beatrice, nonna e nipote (“duo” distante e in colloquio sotterraneo, senza fili), costituiscono un sistema di tangenti all’infinito, di rette parallele narrative, sorprendente: con la loro inermità di creature pure, ribelli per istinto alla violazione della vita naturale, esse animano il lato filosofico della discussione, posta da questo libro, nei confronti della “civiltà”– un aspetto tematico quasi rousseauiano, senonché, semmai, questa sensibilità graffiata dalla “guerra” che l’uomo fa alla Natura, in nome di una progressione cieca e scriteriata, tira in ballo, credo, la purezza dell’acqua e degli elementi oltre che la cura del mondo a partire dal grembo materno, cardini tematici per la nostra cara Virginia Woolf.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini

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