Giancarlo Cauteruccio
L'indignazione e la testimonianza/1

Cutro, un mese dopo

Il regista Giancarlo Cauteruccio spiega per Succedeoggi le ragioni che lo hanno spinto a chiamare a raccolta intellettuali e artisti a Cutro. Domenica, a un mese dalla strage, tutti sulla spiaggia maledetta per riprenderci l'identità vera!

Se scrivessi che la tragedia di Steccato di Cutro mi ha addolorato, non riuscirei nemmeno leggermi. Alle porte di casa mia un orrore del genere non l’avrei mai immaginato. Le morti nel Mediterraneo non si contano più, lo so, ma in questo caso non si era neanche mosso un gesto per salvare quante più vite possibili. Al di là di ogni trita retorica, ancor più colpevole, quell’inerzia era figlia di una spietatezza verbale senza misura, dinanzi a cui oggi monta la furia dell’impotenza. Nei fatti tutto questo mi aveva annichilito, azzittito, e mi aveva ricordato la sentenza di Primo Levi, secondo il quale dopo Auschwitz si potessero solo creare opere su Auschwitz. Eppure quelle opere su Cutro erano già in atto, tanto che il mio silenzio e il mio annientamento sono stati presto superati da un urlo che ho udito dentro di me e che suonava come il medesimo grido della gente che, nel buio, provava a salvare le persone che vedeva affiorare.

Così ho deciso di chiamare a raccolta attori, poeti, musicisti, autori e creativi calabresi ma non solo, anche mediterranei e nemmeno bastava quello… di invitare tutti allo Steccato di Cutro per dare una testimonianza di quel dolore incommensurabile e, insieme, di un’accoglienza e di una solidarietà esemplari da parte dei figli della Calabria, di cui faccio parte. Un’azione artistica collettiva, che vorrei fosse introdotta da una vaticinante poesia di Pier Paolo Pasolini.

Alì dagli Occhi Azzurri
uno dei tanti figli di figli,
scenderà da Algeri, su navi
a vela e a remi. Saranno
con lui migliaia di uomini
coi corpicini e gli occhi
di poveri cani dei padri
sulle barche varate nei Regni della Fame.
Porteranno con sé i bambini,
e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua.
Porteranno le nonne e gli asini,
sulle triremi rubate ai porti coloniali.
Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,
a milioni, vestiti di stracci
asiatici, e di camicie americane.
Subito i Calabresi diranno,
come da malandrini a malandrini:
«Ecco i vecchi fratelli,
coi figli e il pane e formaggio!»
Da Crotone o Palmi saliranno
a Napoli, e da lì a Barcellona,
a Salonicco e a Marsiglia,
nelle Città della Malavita.
Anime e angeli, topi e pidocchi,
col germe della Storia Antica
voleranno davanti alle willaye.
Essi sempre umili
Essi sempre deboli
essi sempre timidi
essi sempre infimi
essi sempre colpevoli
essi sempre sudditi
essi sempre piccoli,
essi che non vollero mai sapere,
essi che ebbero occhi solo per implorare,
essi che vissero come assassini sotto terra,
essi che vissero come banditi in fondo al mare,
essi che vissero come pazzi in mezzo al cielo,
essi che si costruirono
leggi fuori dalla legge,
essi che si adattarono
a un mondo sotto il mondo
essi che credettero
in un Dio servo di Dio…  

Foto Ansa/Carmelo Imbesi

“Alì dagli occhi azzurri” l’avevo già usato per una performance intitolata “Clan, croce, destino”, quando arrivarono a Firenze i primi migranti sbarcati a Lampedusa. Sarà domenica 26 marzo, tra due giorni. Tutto avverrà lungo la spiaggia di Steccato dalla mattina alla sera, a due settimane dalla Pasqua di Risurrezione e a un mese dal sacrificio spietato di tutti quegli esseri troppo umani, di quei bambini e di quelle madri nati e morti abbracciati gli uni con le altre.

L’evento avrà il suo titolo “ARITHMOS – KR46M0, KR14F9”. “Arithmòs” sta per “Numero noumenico immobile”. È un termine che appartiene alla nostra civiltà e il suo significato ci si sta rivoltando contro. A esso si aggiungono due numeri di serie: sono gli agghiaccianti riconoscimenti di due vittime:
KR46M0: KR = krotone, 46 = n. vittima, M = maschio, 0 = n. anni o pochi mesi.
KR14F9: KR = krotone, 14 = n. vittima, F = femmina, 9 = n. anni. 

Contro quei simboli che ignorano ogni dolcezza, domenica ci riprendiamo un’identità vera! La Calabria è da sempre terra di accoglienza e di solidarietà. In questo caso si è comportata nel suo modo antico, caritatevole, compassionevole, umano. Ero sicuro che il mondo delle sue arti, il mondo della creatività, del teatro, della musica e della danza avrebbe dato un segnale, una prova di civiltà. Noi artisti dobbiamo capire una volta per tutte che l’emigrazione e la peregrinazione sono condizioni esistenziali dell’uomo. Migrare è la condizione dell’esperienza. E aggiungo una cosa: chi crea delle opere d’arte deve farsi straniero. Io sono cresciuto straniero, e come tale mi sono detto che dovevo organizzare qualcosa. Ci eravamo ridotti a identificare con una sigla alfanumerica delle persone umane senza un nome. Ora è fondamentale tornare umani. Allora mi aspetto un’azione concreta degli artisti rispetto al futuro della nostra terra, dopo la tragedia di Cutro. Perciò ho invitato tutte le realtà culturali, teatrali, musicali e rappresentative che conosco. Ci troveremo tutti lì per guardarci in faccia, per guardare il mare che ancora porta in sé persone disperse, e per sentire che ci siamo. Sarà una testimonianza, non uno spettacolo. Questo non è il tempo né il luogo dello spettacolo, è il tempo della poesia. Dobbiamo proporre i nostri materiali letterari, musicali, filosofici, tutto ciò che significa civiltà e consapevolezza. Questo è un momento storico per la Calabria. Sono rimasto sorpreso, vedendo sulle pagine di alcuni giornali il crocefisso realizzato da un artista calabrese per lo svolgimento della Via crucis sul lungomare di Cutro. È un’immagine bella. E poi i detriti di questa sconcezza che è accaduta non vanno nascosti o gettati via per nessun motivo. Sono il memoriale spaventoso di tutte quelle materie e quegli oggetti che hanno galleggiato sino a riva: legni, plastiche, indumenti, scarpe, biberon… ciò che era vita.

Oggetti che sono appartenuti a persone umane e che sta a noi custodire, difendere, ricordare. Anche per questo gli artisti delle terre di sbarco e quelli della terraferma hanno capito che era urgente arruolarsi. Che era, la mia, una chiamata alle arti.

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