Lidia Lombardi
Al Maxxi di Roma

Fotografare l’arte

Grande, imperdibile omaggio a Claudio Abate, fotografo che dagli anni Sessanta in poi ha testimoniato la creatività underground romana. Da Carmelo Bene a Jannis Kounellis, da Mario Schifano a Anselm Kiefer.

«Benedette foto, mi hanno salvato!». Dalla galera, intendeva Carmelo Bene sessant’anni fa. Era successo che l’attore-regista aveva portato in scena Cristo ‘63 con tutta la carica di trasgressione che gli aveva gonfiato il petto. In un teatrino off di Trastevere, com’era regola nell’epoca in cui tutto doveva cambiare, in primis il rito borghese del teatro. Fu una recita che destò scandalo (Maria Maddalena prostituta, Cristo insonnolito invece che in cammino sul Calvario). Ma ciò che fece scattare l’irruzione della polizia nel locale underground (era il Teatro Laboratorio in via Roma Libera 23) con conseguente stop della rappresentazione (dopo lo sciagurato debutto del 4 gennaio non si ebbero repliche) fu l’exploit di Alberto Greco, nel ruolo dell’apostolo Giovanni: ubriaco, orinò addosso all’ambasciatore d’Argentina, seduto in prima fila. Nel parapiglia generale, Bene spense le luci, ma non prima che scattassero i flash dei fotografi. Il giorno dopo titoloni di riprovazione sui giornali. E una denuncia per oltraggio e atti osceni contro il provocatore-capo sul palco per l’atto assai poco signorile verso il diplomatico. Bene sparì per un po’ dalla circolazione, condannato in contumacia ad otto mesi con la condizionale. Ma alla fine fu prosciolto per non aver commesso il fatto. A discolparlo le immagini – un bianco e nero icastico – di Claudio Abate, suo fotografo di scena. Quegli scatti mostrarono che Bene-Cristo nel momento clou era steso sulla Croce e un altro, Greco appunto, aveva compiuto il gestaccio.

La mostra “Amore mio” a Montepulciano, 1970

L’episodio è documentato – e illustrato – nella mostra dedicata ad Abate, allestita al MAXXI di Roma fino al 4 giugno prossimo e curata da Ilaria Bernardi e Bartolomeo Pietromarchi. Un’esposizione dalla tripla valenza: per il carisma delle foto di Abate, per la palpitante testimonianza dei rivoluzionari anni Sessanta/Settanta e per la documentazione di opere d’arte, di teatro, di danza che le stesse fissano sulla pellicola, prevalentemente in un bianco e nero disadorno e insieme ricco – nel digradare dei grigi – di effetti “coloristici”. Perché Claudio Abate, nato a Roma nel 1943, figlio di un pittore, cresciuto in via Margutta dove nel 1958 aprì il proprio studio, è stato fotografo totale d’arte: il lavoro combaciava con la vita, in sodalizi ultradecennali con pittori, scultori, attori d’avanguardia, sperimentalismo, Arte povera. Undici anni di collaborazione con Carmelo Bene, appunto, ma poi un legame lunghissimo con Jannis Kounellis (nella foto accanto al titolo), con Pino Pascali, con Gino De Dominicis. Cominciando con il giovane Mario Schifano, continuando con Joseph Beyus ed Eliseo Mattiacci e fino ad Anselm Kiefer.

Non solo gli studi degli artisti, ma le gallerie, anche queste anticonvenzionali, delle quali rivediamo gli spazi disadorni, dove si realizzano happening, e l’espressività è istantanea, vive dell’attimo. Ecco allora il garage di via Beccaria, a Roma, nel quale Fabio Sargentini trasferisce da piazza di Spagna la sede della galleria L’Attico. Qui Kounellis espone – era il gennaio 1969 – dodici Cavalli attici bianchi. Qui si mette in scena un allagamento, e dodici personaggi accostati a una parete sono Lo Zodiaco. Marisa Merz è ripresa di spalle, sullo sfondo di una finestra, ma poi il fotografo ritrae una sua opera “Scarpette”, trine abbandonate su un bagnasciuga che pare sconfinato. E del marito, Mario Merz, oltre alla serie di igloo, documenta “Che fare?”, grande scritta in corsivo, tremolante, su uno spoglio muro d’interni. Era il 1969, l’Arte Povera è per lui un’affascinante scoperta, che orienta il suo mestiere. Ma aveva già operato, dieci anni prima, nell’atelier di Schifano, dove si fotografano a vicenda. E con Pino Pascali si instaura una complicità ironica: l’artista gli chiede di riprendere i suoi assemblages surreali: una ruota di bicicletta, un ombrello, la punta di ala di un aereo, perfino l’azione (di fronte a L’Araba fenice) con la quale l’artista, indossata una maschera, anima l’opera grazie a un grande fallo meccanico semovente. Sono scatti preziosi perché Pascali non esporrà mai tali lavori e, rispettandone la volontà, il padre li distruggerà dopo la sua morte, nel 1968. Altre foto memorabili: lo stesso Pascali che mima il suo gigantesco Ragno, Giuseppe Penone con le orbite bianche in Rovesciare gli occhi, Roy Lichtenstein di passaggio a Roma nel 1988, ritratto sullo sfondo di antiche arcate che paiono bianche angeliche ali attaccate alla schiena.

Pino Pascali e la “Vedova blu”, 1965

E c’è l’Abate che parte con l’obiettivo verso le rassegne di grido e fissa incontri e abbandoni. È il 1970 e a Montepulciano Achille Bonito Oliva cura la mostra “Amore mio” e sul belvedere siedono gli espositori mentre arriva Kounellis, vestito di nero, pantaloni a zampa d’elefante e dolcevita. Ed è il 1972, Biennale di Venezia, con uno scatto profetico del passaggio tra due generazioni: Giorgio De Chirico – giacca e cravatta – esce, faccia sconcertata, dopo aver visto il ragazzo disabile esposto come opera d’arte vivente da De Dominicis il quale, sullo sfondo, capelli lunghi e blazer bianco, lo segue con ironico sguardo. Eppure De Chirico si presterà come silhouette alle foto sperimentali di Abate realizzate con tecnica chiamata Superficie sensibile. La quale dà il titolo alla rassegna del MAXXI, oltre 150 immagini provenienti dall’Archivio che reca il suo nome ed è curato dai figli. Scrive Riccardo Abate, nel catalogo alla mostra (Silvana Editoriale, prefazione postuma di Germano Celant): «La sua risorsa più grande, la luce. Soprattutto quella a cavallo tra il giorno e la sera con cui giocava con abilità a dar vita al Blu Abate». Come nello sfondo di Die Frauen der Antike che Anselm Kiefer espone a Villa Medici, di cui dagli anni Novanta Abate è fotografo ufficiale. Però egli resta pervicacemente attaccato al fermento delle nuove ricerche: è per questo che trasferisce il suo studio nel quartiere romano di San Lorenzo, dove vibra la scena artistica e la vita si fa controcorrente. La sua finisce nel 2017.

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