Daniela Matronola
Per una poetica del vuoto/3

Poesia della fisica

La materia riempie gli spazi vuoti: la nuova raccolta di Bruno Galluccio, “Camera sul vuoto”, mescola la poesia e i prinicìpi della fisica

In principio è stato il vuoto: ristretto, denso, opaco, preatomico; che poi si è espanso fino al vuoto relativo; e ormai è vuoto profondo e permanente in cui si muovono in frenetica sospensione i corpi celesti – così i pianeti, così le stelle, così i satelliti, e le intere galassie. Disperso e sparuto in questi universi l’essere umano, che, pure, scruta e conosce, rileva e misura, osserva e specula: legge il libro della vita e il suo rovescio, e ciò che si annida negli intervalli. Unica specie a farlo. L’unica cui e di cui consti.

Camera sul vuoto (Einaudi, pagine 130, 12€), raccolta recente di Bruno Galluccio, fisico-poeta napoletano, riprende una tradizione della poesia e della fisica quando entrambe erano accoccolate nell’ampio reame filosofico: la cosmogonia. E inquadra la (dis)avventura umana, d’altra parte nostra unica possibile felicità (la felicità implicita di essere vivi, Sisifi sì ma felici), dentro un orizzonte ampio, incerto, sfumato, glorioso e gelido al contempo: il mondo e l’universo che gli scienziati ci insegnano a conoscere e valutare per sé.

Il libro, suddiviso in sei sezioni, non perde mai di vista il quadro cosmico che ci comprende: si può forse ascriverlo al filone del pessimismo leopardiano totale, però il senso che si evince procedendo sezione per sezione e a itinerario concluso non è disperante, è semmai tutto raccolto nella posizione dell’interrogante che, mentre si pone la questione con tutto il suo corollario di sottoquestioni sulla condizione umana, poiché la vive la attraversa, e non potrebbe fare altrimenti, ed è eroico in questo, in questo consiste il suo epos. A cui si aggiunga l’altalena tra le minuzie del quotidiano e le grandi questioni, tra ordinaria esistenza e sua significatività in termini ampi, a fronte del suo inquadrarsi in un più vasto sistema, di cui, a ben osservare e ascoltare, oltre che sentire e pensare, pervengono gli echi, e sono percepibili le legiferanti interferenze.

La creazione è identificata come scarto meccanico: ciò che noi classifichiamo come vita nelle sue diverse articolazioni non è, a quanto pare, che una casuale conseguenza le cui linee di sviluppo sono inarrestabili, a loro modo mostruose. Dunque, sempre nell’ottica del discernimento del vuoto, il vuoto cosa è? Uno spazio fisico che implica lo stato di sospensione e subito dopo attrae al precipizio? Un magnete il cui nulla apparente esprime forze negative, e il fatto che siano invisibili non esclude agiscano? È intanto vuoto cosmico: il moltiplicarsi ed esternalizzarsi atomico è come una raggiera di schegge ormai distanziatissime dal punto d’origine – il fisico-poeta indichi nel velo del tempo la sostanza velare che svela in filigrana ma appunto nella realtà nasconde.

Ciò che conta è che è la mente umana a pensare e interrogare tutto questo: “le leggi fisiche andarono formandosi / così come si formava la materia”.

Il prodotto è una rivelazione potente, ricca di pensiero in immagini (il lavoro della poesia, e non il report dello scienziato, che qui pure ha il suo peso), non solo come riduzione della scoperta del cosmo a scie di segnali indicativi per noi naviganti ma anche come indicazione del sistema di cerchi concentrici e rapporti scalari che ridimensionano e ricollocano lo stare al mondo ricomprendendoci nel tutto ampio e mobile. Relatività correttamente da intendersi come correlazione, appunto.

In termini di poetica e di artificio, i cosiddetti rimandi si connotano come meccanismi anche creativi, compositivi, che sono dentro di noi e si destano quando poetiamo: essi in realtà riproducono ciò che sappiamo del cosmo, naturaliter echeggiato nelle nostre segrete intuizioni. Davanti a noi il grande libro: noi dovremmo non solo percorrerlo come ci è dato fare ma sviluppare anche modi per leggerlo e rileggerlo finché il suo senso non si schiuda alla nostra ripetuta e sempre più disarmata attenzione.

Bruno Galluccio giustamente indica nell’interazione uomo-cosmo il dato significante: le nostre vite echeggiano le forze che agiscono nel cosmo, dunque il cosmo con le sue forze opera una pressione su di noi. Però la chiave sta tutta nel nostro pensarlo: “[…] la cecità avanza sull’asse / perpendicolare al vuoto — nella schiera c’è una possibile eccezione / che esce dalla fila [con felice immagine che ricorda la dantesca croce di fiammelle] e si dispone a osservare // qui nell’aria siamo oggetto di uno sguardo felice / dagli occhi magnifici siamo incastri di precisioni nette // il mondo ora si espone come sapienza di vetro / noi da qui mettiamo in mostra la geometria delle nostre ombre / i residui dei nostri frammenti desideranti // ora che vanno che si spostano che cercano la luce / ora non potrebbero più tornare indietro / ormai lo sanno / si arrendono al desiderio / sono perduti”.

Piombiamo nel cuore della questione: il grande spazio-tempo curvo e uguale come è occupato dall’ uomo dagli alberi dagli animali, e dove altro è vita che sia in diretto rapporto col tutto enorme?

Forse il testo significativo su questo è frontiere (sez. 4): dettato oggettivo pieno di interpretazione, dettato fattuale pieno di cuore – lo scienziato umanista non è un borghese saputo, collezionista di nozioni, è invece Filosofo del Cosmo e della Natura, pronipote magnogreco e ulteriore fisico greco, grazie al Tempo e alla Storia sapiente illuminista.

L’io del poeta, emblema e sintesi di un’umanità orfana con riserva, svuotata e indaffarata, distratta nel suo affannarsi, è anche maschera di uno status inindovinabile: “e sono esperto addobbatore di luminarie / per i curiosi che si affacciano” – resta imperscrutabile ciò che ognuno di noi si porta dentro, e ricordo e nostalgia per ciascuno e per il nostro intero genere si sommano nel vuoto che resta producendo una somma negativa.

A Camera sul vuoto, itinerario in versi strabiliante, chiediamo: cosa è diventato qui il vuoto? Eco del cosmo? Scena cava che accoglie le nostre vite? È il teatro in cui ci muoviamo tentando di stabilire o intercettare le traiettorie delle nostre vite e le loro possibili infinite combinazioni?

All the world is a stage, diceva un tale, and we are all mere players: qui si aggiunga il costante dialogo tra microcosmi individuali e macrocosmo totale in una versione delle baudelairiane correspondances da leggersi come riconfigurazioni scalari.

Va da sé che l’ultimo verso è una domanda.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini

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