Lidia Lombardi
Alla Galleria Nazionale d'Arte Antica di Roma

L’arte di Urbano

Una grande, bella mostra celebra il talento da mecenate di Maffeo Barberini, papa Urbano VIII. Dall'invenzione del barocco (soprattutto grazie al Bernini) fino alla scoperta di una dimensione puramente teatrale della città

Non è poca cosa attribuirgli la nascita del Barocco. A Roma. E, se potesse resuscitare, sarebbe questo il maggior vanto per Maffeo Barberini, ovvero papa Urbano VIII. Perché Roma è soprattutto antichità e barocco e i Barberini la plasmarono dominando come nessun altro il binomio che oggi ne suggella di fronte al mondo la specificità. È il nocciolo della fondamentale mostra che celebra i 400 anni dalla elezione al soglio pontificio del rampollo più lungimirante della famiglia di mercanti toscani. “L’immagine sovrana – Urbano VIII e i Barberini” prodotta e allestita dalle Gallerie Nazionali di Arte Antica nell’imponente Palazzo Barberini salda i capolavori esposti e il contenitore: perché quell’edificio smisurato – in faccia al Quirinale – e quegli oggetti – commissionati, acquisiti al mercato antiquario, fatti costruire – non hanno senso gli uni senza l’altro e rimandano alla visione di Potere attraverso la Bellezza che Urbano ebbe sempre fissa negli occhi. L’Immagine propagandistica di se stesso e della propria stirpe – la Ditta, si direbbe oggi – in un sistema totalizzante.

Uno spunto, per tutti: Maffeo Barberini Urbano VIII creò – un papa imprenditore, anche – l’arazzeria. E tre arazzi giganteschi (ciascuno appartenente a un ciclo, Vita di Cristo, di Costantino e di Urbano VIII) sono collocati eccezionalmente accanto ai cartoni preparatori nel Salone di Pietro da Cortona, chiamato così per quel soffitto affrescato con il “Trionfo della Divina Provvidenza” nel più rutilante, immaginifico stile barocco, figure ardite dipinte dal sotto in su, dai piedi al capo, come nelle spregiudicate prospettive volte a destar la “meraviglia” in chi guarda.

Nicolas Poussin, “Distruzione del tempio di Gerusalemme”

Inconcepibile altrove, insomma, questa esposizione (fino al 30 luglio 2023, a cura di Maurizia Cecconi, Flaminia Gennari Sartori e Sebastian Schutze). Si snoda dalle sale a piano terra e poi su, salendo lo scalone del Bernini, negli ambienti che parlano del progetto totale del pontefice più a lungo regnante nel XVII secolo (1623-1644), colui che diede alla Basilica di San Pietro il manufatto caratterizzante, il baldacchino di colonne tortili inventato dal Bernini. La sequenza cronologica è il fil rouge della rassegna. Nella prima sala già si delinea la vocazione all’egemonia culturale di Maffeo, poeta e letterato prim’ancora di diventare cardinale. Egli prende a collezionare opere spettacolari (ci sarà anche “La Fornarina” di Raffaello), come il “Sacrificio di Isacco” di Caravaggio e il “San Sebastiano gettato nella cloaca massima” di Annibale Carracci (prestito del Getty Museum di Los Angeles). Poi si fa subito imperativa la presenza della sua dinastia con ritratti e sculture: lo zio Francesco, che lo rifornisce di denari per l’istruzione nel Collegio dei Gesuiti, i “cardinal nepoti” Francesco e Antonio, il fratello Carlo morto anzitempo, il principe Taddeo Barberini, raffigurato da Andrea Sacchi, lo stesso Urbano in un ritratto da giovane avvocato di curia ad opera del Caravaggio, oppure in un bronzo del Bernini commissionato dal nipote dieci anni dopo la morte del Pontefice.

Giovanni Lanfranco, “Venere che suona l’arpa”

Ecco che si delineano gli artisti lanciati da Urbano: Bernini e Pietro da Cortona, certamente, ma anche tre francesi, una scelta centrifuga che si spiega con il favore che Maffeo nutriva verso il Paese d’oltralpe, dove fu nunzio apostolico (“e ottenne la porpora grazie all’influenza del sovrano francese”, spiega Schutze, tra i maggiori conoscitori della vita di Urbano VIII). Ed ecco, allora, le firme di Vouet, di Valentine de Boulogne, di Nicolas Poussin. E’ di quest’ultimo il commovente “Morte di Germanico” (da Minneapolis) nel quale l’agonia del condottiero avvelenato da Tiberio per indivia adombra i tragici risvolti di una eccessiva gloria ai quali Maffeo deve aver pensato.

Oltre all’arazzeria, la cerchia Barberini si impegnò in una stamperia, a sostegno della mole di testi usciti da Propaganda Fide. E ai libri è dedicata una sezione, con i testi letterari e i panegirici seicenteschi, compresi i “Poemata” di Maffeo e una rappresentazione della sua biblioteca ricca di quattromila volumi, dove c’era il meglio della filologia europea. Così il busto di Urbano (copyright ancora del Bernini, ma stavolta la materia è il marmo) dialoga con quello di Francesco Bracciolini, poeta toscano beneficato tanto da concedergli sull’”arme” tre api. Già, le api, operose e carismatiche nella loro gerarchia, dunque simbolo perfetto dei Barberini, che sciamano anche nell’affrescato Trionfo della Divina Provvidenza. Non mancano in disegni e dipinti allegorici sulla potente famiglia, rilanciate nelle argute didascalie della mostra e nei titoli di due sezioni, “Le api munifiche” e “Intorno all’alveare”, a dire della rete di relazioni e incarichi intessuti con i potenti d’Europa (esposto anche un busto beniniano del cardinale Richelieu) e all’interno della Curia, a perfezionare la macchina del controllo culturale. Esercitato anche nella musica (come testimonia tra l’altro una raffinata arpa dorata): qui tiene campo il ritratto del castrato cantante d’opera “Marc’Antonio Pasqualini incoronato da Apollo” di Andrea Sacchi, a sottolineare il favore da parte del cardinal nepote Antonio, che lo nominò Maestro di Cappella della Sistina. Proviene dal Metropolitan Museum, questo dipinto, uno dei 40 tornati nella sede originaria. La sua storia rientra nella diaspora della collezione Barberini dopo il via libera alle alienazioni disposto durante il Fascismo, mentre gli altri 80 pezzi in mostra appartengono alla Galleria Nazionale d’Arte Antica.

Maffeo prese il nome pontificale di Urbano, a cementare l’attenzione maniacale sull’Urbs. La quale divenne lo sfondo di cerimonie sontuose, rese uniche da macchine spettacolari realizzate ad hoc. Vengono da Palazzo Braschi, Museo di Roma, imponenti tele che fotografano avvenimenti epocali, contraddistinti da fiumi di folla, coreografie, sgargianti colori. Come nel “Carosello per l’ingresso di Cristina di Svezia” di Pietro Gagliardi e “La giostra del Saracino” affidata alla regia del fedelissimo Andrea Sarti. Eppure a Roma non sfuggì il cinismo dei Barberini, che molto edificarono spogliando antichi monumenti (i bronzi del Pantheon per fare cannoni) o imponendo i loro protetti nei luoghi più “sacri” della città: avvenne per esempio con la commissione a uno straniero, Poussin, della pala d’altare della Basilica di San Pietro. Se la legarono al dito, i romani, e quando Urbano VIII morì, corsero in Campidoglio nel tentativo di distruggere la grande statua del Papa commissionata dai Conservatori al Bernini. Senza dire della sarcastica pasquinata “Quod non fecerunt Barbari, Barbarini fecerunt”.

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