Fabio Orso
Al Minskoff Theatre di New York

L’altro Re Leone

Dopo 26 anni, il mitico spettacolo di Julie Taymor tratto dal film "Il Re Leone" della Disney mantiene intatto il suo fascino. Perché? Perché dimentica il cartone animato e punta tutto sul teatro. Obbligando gli spettatori a "immaginare"

Come si fa a scrivere un articolo sullo spettacolo de Il Re Leone in scena a New York senza fare un excursus interminabile su ciò che questo titolo rappresenta a livello culturale e, soprattutto, (per lo meno per la Walt Disney Company) economico? Partiamo da qui: il film animato di circa novanta minuti esce nel 1994 e narra la storia di come il leone Simba, figlio del Re Leone originale Mufasa, sia chiamato a vendicare la morte del padre causata dallo zio-leone Scar, che ha ucciso suddetto leone-padre per diventare egli stesso Re Leone. Il tutto ambientato in Danimar… ah scusate, in Africa.

Quello che all’inizio poteva sembrare nient’altro che un Amleto in salsa felina si è rivelato essere uno dei brand più redditizi non solo della storia del cinema, ma di tutta l’economia capitalista dal 1700 ad oggi. Solo per dare un’idea al lettore: il sottoscritto, nell’arco della sua vita ha visto ben quattro film, due serie animate, due spettacoli in un parco a tema, e posseduto cinque pupazzetti e un videogioco a tema Il Re Leone. Tutto questo prima di assistere allo spettacolo teatrale in scena a Broadway, appena ieri sera. 

Tutto mi aspettavo quando sono entrato al Minskoff Theatre di New York, tranne quello che ho visto. 

Il film originale infatti, oltre che un musical, è un kolossal: spazi enormi, migliaia di “comparse” e grande senso di grandiosità, sottolineato dalla colonna sonora molto sturm un drang di Hans Zimmer.

Eppure il palco non è enorme. Gli attori sono poco più di una ventina. Ma come fai? Come fai a portare Shakespeare dalla sconfinata savana al terzo piano di un palazzo sulla 42esima strada di Manhattan?

Aspetta un attimo. 

Shakespeare era un teatrante. Non sapeva neanche che cosa fosse il cinema. Eppure quella roba l’ha scritta lui. L’ha pure portata in scena. E ci ha fatto un mucchio di soldi. Certo, i protagonisti non erano mica animali. Tuttavia sono abbastanza sicuro che, se l’avesse scritta con gli animali, la sua rappresentazione non sarebbe stata troppo lontana da ciò a cui ho assistito appena qualche ora fa: gli attori, gli scenografi e i costumisti hanno semplicemente fatto quello che attori, costumisti e scenografi sono chiamati a fare a teatro, ovvero NON portarti la savana e tutta l’arca di Noè davanti agli occhi, ma fartela vedere. Farti usare l’unica vera capacità che l’uomo del 2023 è meno abituato ad esercitare, ovvero l’immaginazione.

Certo, attori palesemente dietro o all’interno di marionette animali a grandezza umana possono piacere o no, a prescindere dalla loro capacità eccezionale di farti scegliere tra la propria performance fisica e quella della marionetta, senza rimpiangere né l’una né l’altra (in particolare Cameron Pow nel ruolo di Zazu e Fred Berman in quello di Timon). Però non si può uscire dal teatro senza rimanere sbalorditi dal fatto che questa scelta, come quella di una scenografia da teatro delle ombre giapponesi, sia stata fatta. E che sia la vera chiave del successo di questo spettacolo.

Immaginate per un momento di essere il regista di questo spettacolo, Julie Taymor, nel 1997: Disney ti chiama dicendoti che ti darà una barca di soldi per portare in scena la loro storia più famosa e redditizia di sempre. «Un gioco da ragazzi no? Sicuramente si venderà da solo!».

Ed è qui che rischi di rompere il giocattolo: io Il Re Leone, da bambino, l’ho visto centinaia di volte. Così come probabilmente gran parte dei più di cento milioni di spettatori che hanno assistito allo spettacolo negli ultimi ventisei anni. Conosco ogni singola canzone, battuta, immagine e soprattutto emozione che queste mi danno ogni volta che schiaccio play. Tutto quello che porterai in scena traslandolo dal cartone mi annoierà, perché semplicemente non sarà l’originale. Lo dirò a tutti i miei amici, che conviene risparmiare soldi e guardarselo a casa. Lo spettacolo diventerà puramente un’attrazione per bambini e finirai per diventare l’ennesima succursale di Disneyland. E di certo non vincerai mai un Tony (gli “Oscar del teatro”, ndr).

Per carità, non posso dire che questa sensazione non l’abbia mai avuta durante due ore e mezza di spettacolo. È pur sempre ispirato ad un cartone animato. A dirla tutta, sono proprio i momenti in cui si percepisce che lo spettacolo devefarsi carico di alcune scene del film che il tutto scricchiola. Insomma, lo spettacolo è grandioso fino a quando non ti ricordi che è un derivato di un film. Ovvero a quando il Teatro smette di essere tale e diventa emulazione di qualcos’altro.

Per anni dentro di me (in quanto fan sfegatato di Disney, se non si fosse notato) ho desiderato che in Italia sbarcasse questo spettacolo. Pensavo sarebbe stato quello il segno della fine della crisi che il teatro nostrano sta attraversando, tornando ad essere pop e non più snob. Il più delle volte gli addetti ai lavori mi hanno detto che non si può per mancanza di soldi. Perché non c’è mercato e gli americani vogliono troppi soldi per concedere il brand

Oggi mi rendo conto che il brand già lo abbiamo, e non costa nulla. Del resto Disney, su Amleto, la SIAE non l’ha mica pagata.

Per quanto riguarda attori, registi, scenografi e costumisti di certo nulla abbiamo da invidiare a New York City. Figuriamoci i palchi, che li abbiamo inventati noi. Ma allora cosa è che manca? Forse solo un po’ di fiducia. Nella fantasia, nostra ed altrui. Nel fatto che i viziatissimi esseri umani del 2023 vogliano ancora scommettere su qualcosa alla quale non sono più abituati. 

Che vogliano uscire dal palmo della loro mano ed essere pronti a stupirsi nel credere che quell’aquilone attaccato ad un bastone sia un airone del Serengeti. O che un leoncino giocattolo issato al loro cospetto sia, in fondo, il vero re di Danimarca.

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