Roberta Passaghe
A proposito di “Grande terra sommersa”

Educazione al dubbio

Il nuovo romanzo di Alessandro De Roma racconta la storia di un ragazzo i cui sogni non coincidono con la realtà. Il ritratto fedele di una lenta trasformazione fisica e caratteriale per un grande percorso di formazione

«Abbastanza bello, ma un po’ pedante» verrebbe da dire di Grande terra sommersa di Alessandro De Roma (Fandango, 545 pagine, 20 euro) riprendendo le parole di uno dei suoi personaggi. Il dolore per una perdita, la rabbia inespressa che diventa violenza e desiderio di possesso, la frustrazione e le elucubrazioni tipiche dell’adolescenza, momento non necessariamente spensierato e idilliaco, il continuo perdersi e cercarsi vengono raccontati da Alessandro De Roma tramite le vicende di Pietro Stefano Mele, un ragazzino, all’inizio della storia, orfano di madre e che in un lungo tragitto verso la maturità approda a sponde meno rosee di quanto avrebbe sperato. In un lavoro in cui si gioca un’accesa contesa tra pulsioni istintuali e terrene e smanie di accettazione, un complesso di riflessioni e emozioni che regge in toto la tensione narrativa, la trama potrà forse non esibire particolari novità (il richiamo all’impianto tipico del romanzo di formazione è evidente), ma a una buona penna si concede volentieri il riuso di temi già sdoganati se sono resi con uno stile e una lingua notevoli. Che è per l’appunto ciò che accade qui: attraverso una scrittura ben controllata, dalla voluta medietà, i rovelli di Pietro, che sempre più con la crescita si aggroviglia nelle sue speculazioni, conducono per mano il lettore a visioni del mondo inaspettate. È questo, certamente, uno degli aspetti che più si apprezza, anche considerato che contribuisce al tentativo di scardinare potenziali stereotipi e luoghi comuni sulla pubertà prima e sull’età adulta poi.

Allo stesso tempo è difficile non notare che, nella prima parte, certe soluzioni stilistiche si ripresentano uguali in più passaggi: la lentezza della narrazione è senz’altro funzionale a rendere il parallelo lento processo di consapevolezza del protagonista, ma troppo spesso si ha l’impressione che medesime situazioni o medesimi passaggi siano ripresi con eccessiva insistenza («Ero dunque un ragazzino così patetico?;  Un lagnoso, futile ragazzino; Ero un insulso moccioso; Un ragazzino invidioso; E io diventavo una cosa inutile e perfino dannosa; Non ero che un ragazzo scialbo, privo di qualità e di nerbo; Un ragazzino col cuore spezzato; Io, destinato a veder la vita passare e a non capire niente, non ero ancora abbastanza saggio né abbastanza pazzo da arrivare a farmene una ragione»). Un esempio è la fenomenologia del rapporto con Luca Campus e la sua famiglia, verso i quali De Roma cuce addosso a Pietro una curiosità morbosa che ricorda quella di Giorgio per i Finzi-Contini nel celebre romanzo di Bassani: ecco dunque rocamboleschi spionaggi, un’attenzione smodata per la casa azzurra oltre il giardino e una frequentazione il più possibile assidua dei due Campus preferiti dal nostro, Luca e Laura, con un’aggiunta di stima e timore reverenziale per il padre padrone Roberto.

Ma quando sembra che tutto ruoti attorno ai Campus, a dare una svolta subentrano sia le dinamiche maniacali della dura esperienza in una setta, sia Giacomo, ragazzo di cui Pietro subisce il fascino. De Roma al suo meglio emerge soprattutto qui, nella capacità di mantenere toni asciutti nonostante le inclinazioni spesso vittimistiche che connotano il personaggio principale; sarebbe difficile, altrimenti, seguire senza smarrimenti lo svolgersi della storia. L’autore, poi, non manca di inserire elementi di tagliente ironia che risollevano ad hoc un andamento volutamente statico, dal pirandelliano riconoscimento allo specchio (un perenne ciuffo ribelle che rievoca il naso di Vitangelo Moscarda), alle blande blasfemie sparse ad arte («Mia madre era mistica, ma mai stronza»), dal farsesco tentativo di suicidio («patetico») alle scrupolose reinvenzioni fantasiose della realtà (che conducono puntualmente a obiettivi estremi e impossibili da ottenere). Nel prosieguo si apprezza, con un modus operandi e una lingua coerenti con quanto via via inscenato, un’evoluzione delle dinamiche narrative; il protagonista, che pur resta animato dalle solite smanie di accettazione, veicola i dubbi e le insicurezze di chi entra nella vita adulta senza sentirsi adeguato o preparato alla sua incombenza. E difatti, è rilevante la resa della sfera della sessualità; è più che apprezzabile la strategia con cui viene dato corpo a un individuo che non ha alcuna certezza o chiarezza sul suo orientamento sessuale, e che se da una parte indulge in qualche autointerrogatorio dall’altra vive con naturalezza le inclinazioni che, di volta in volta, lo animano. Nonostante l’universalità di alcuni argomenti, non si rintraccia alcuna pretesa di verità e anzi sono proprio i dubbi e il continuo mettere tutto in discussione che fanno di questa una lettura di deciso impatto. In molti, tra quanti dubitano di avere compreso il mondo e di avervi trovato un posto o un senso, scopriranno nel giovane Mele un compagno.

Merita infine almeno una menzione la delicatezza con cui si affronta la morte, spogliata sì, essa, di ogni patetismo e immortalata nella sua durezza: «Quella era una pietra, solo una stupida pietra. Mentre lei era mia madre; E Dio si accanisce, come e quando vuole lui; o forse non si accanisce affatto: lascia semplicemente che tutto il male accada, e le più terrificanti tra le terre che riposano nel fondo dei mari, si destino e vengano a galla per riempire il mondo di sgomento». Sarà pure, come si è detto in apertura, un po’ pedante, ma non si indugi a godersi l’immersione nelle inestricabili profondità di questa grande terra sommersa.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini

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