Alberto Sagna
Tra giallo e memoria

Scandalo a luci blu

«Il proiettile era altrove. Qualcuno doveva averlo utilizzato, pensai dopo che quell’uomo rimasto in piedi con la divisa e il berretto blu mi chiese di andare a riconoscere la salma di mio padre. Era morto di infarto vicino al Testaccio»

Le forbici di metallo passarono davanti al mio viso e vidi la mano veloce che formava nell’aria il disegno di un numero, il sei, per poi tornare accanto alle orecchie. Lo stridio delle lame penetrò nel mio cervello.

Non posso dire il mio nome, dentro la tasca della giacca ho una pistola.

Chiamatemi come volete, tra poco sparirò.

Non ho mai amato i giocattoli colorati di verde, quando ero piccolo li buttavo per terra o li scaraventavo sul muro della stanza aspettando che si spaccassero. C’era un camion di plastica rosso con un lampeggiante, ha resistito sempre a ogni urto, era l’unico che nascondevo sotto il letto.

Mia madre diceva alle maestre che ero ipersensibile, un bambino buono. Anche lei nascondeva qualcosa sotto il letto, un giorno ho visto tre foto legate da un elastico. C’era un altro uomo, non mio padre. Dopo sei mesi scomparvero le foto e mia madre non tornò più a casa.

Lacrime essiccate e bocca acida, questo lo ricordo bene.

Mio padre era un tipo semplice, guidava un autobus tutto il giorno.

Quando tornò a casa iniziò a girare su e giù per le stanze come una trottola, sembrava un giocattolo impazzito. Aveva le scintille negli occhi. Apriva e chiudeva gli armadi. Non mi chiese nulla, poi si fermò e prese a calci il televisore. Tagliò in due la federa del cuscino dove aveva dormito mia madre fino alla notte precedente e la gettò in un secchio. Aprì il frigo cercando la pasta e trovò due mozzarelle. Le mise sul piatto nel tavolo della cucina, e andò nel salone. Quella fu la mia prima cena da solo. Ho iniziato a vomitare al secondo boccone, due dita in gola mi salvarono da quel cibo acido.

Contavo il numero delle mattonelle, la faccia incollata al pavimento.

Colla da rigurgito e i polmoni senza più aria.

Lui uscì a fumare una sigaretta, poi tornò dopo due ore. Era stralunato, senza cappotto nonostante il freddo di gennaio. Restò immobile e in piedi al centro del salone, poi si avvicinò e mi diede una carezza. Quella che di solito ricevevo da mia madre quando giocavo con i treni e la ferrovia. Staccavo con le mani la carrozza principale e smontavo le ruote, poi ululavo correndo intorno ai binari di plastica. Mi fermavo solo quando lei entrava nella stanza. Avevo un senso di pace, anche se non la sfioravo. Era il suo odore, erano i suoi vestiti. Mi piacevano quei colori, ho iniziato a vedere chiazze gialle davanti ai miei occhi.

Quando l’ho detto alla maestra mi hanno portato dall’oculista.

Il dottore mi chiese cosa vedevo dentro due grosse lenti di un cannocchiale o qualcosa di simile. Dissi la verità, il vestito da mare di mia madre, sentivo la salsedine.

Mio padre ci sapeva fare con le gambe, correva ogni mattina sul Lungotevere, si alzava alle cinque e usciva di casa con una maglietta blu e i pantaloni grigi della tuta. Sempre gli stessi, e non sudava mai. A sedici anni abbiamo iniziato a correre insieme. La mia maglietta era celeste e non portavo più la canottiera. Avevo anche cominciato a lavorare dentro un bar.

«La tua faccia è da adulto, puoi stare qui», mi aveva detto l’amico di mio padre indicando lo sgabello vicino alla cassa. Poi ogni fine settimana mi metteva cento euro in mano. I soldi li nascondevo sotto il letto.

Ricordo perfettamente anche quel secondo giorno maledetto, il mercoledì di un pomeriggio freddo, la cesta di frutta sul mobile del salone era piena di mele quando un poliziotto bussò alla porta.

Toc toc, come uno sparo.

Il proiettile era altrove. Qualcuno doveva averlo utilizzato, pensai dopo che quell’uomo rimasto in piedi con la divisa e il berretto blu mi chiese di andare a riconoscere la salma di mio padre. Era morto di infarto vicino al Testaccio mentre correva, lo avevano trovato con le chiavi di casa incastrate nel pugno chiuso. È stato difficile aprirlo, le falangi erano rimaste dure come un sasso, mi disse senza sorriso.

A sei anni mi ero strappato con i denti tutte le unghie di una mano dopo che mia madre aveva deciso di fuggire da casa.

A diciotto anni avevo dato una testata al mobile del bagno, volevo spaccarmi il cranio. Non potevo andare a vedere mio padre sdraiato per terra. L’immagine era già nella mia mente, il suo corpo altrove. Inerme, con i suoi calzini rossi arrotolati sulla caviglia e il terriccio sporco attaccato alla pelle del gomito. Il poliziotto mi buttò a terra. La caduta mi storse il naso. Lui mi parlava, io non capivo nulla. Scalciavo, anche contro il suo stinco. La foto di mio padre cadde dal mobile e il vetro della cornice andò in frantumi.

Poi arrivò il sudore, qualcosa che sembrava uscisse dal torace, era freddo. Anche io stavo per morire. Quando uscii dall’ospedale c’era ancora il poliziotto. Era grasso, con i capelli corti, il naso aquilino e un neo spiaccicato sopra. Mi chiese di andare con lui, a casa sua. Dopo due anni entrai nel corpo della polizia, vinsi il concorso.

Due padri, due vite strane. Il naso nuovo di zecca.

E ora mi trovo dal barbiere. Si vede che è un bell’uomo, profumato di vaniglia. Sa il fatto suo, è venuto ad aprirmi la porta velocemente non appena mi ha visto fermo davanti all’ingresso. Ho esitato ancora qualche istante, mi sono guardato in giro.

Poi ho chinato leggermente il capo, e sono entrato togliendomi le mani dalle tasche dei pantaloni.

Non c’erano i due dipendenti. Lo sapevo, era la prima domenica del mese.

Ho impiegato sei anni per trovarlo.

Non è stato facile. La memoria non gioca mai con il caso, ti trascina dritta nel suo mondo e lo capovolge quando vuole lei.

Mi ero ricordato di uno sguardo, quello di mia madre davanti a una bottega di ceramica. Uno sguardo diverso, non rivolto verso di me anche se mi portava per mano. Era differente da quelli che lanciava a mio padre. Non c’era cattiveria, i suoi occhi si erano allargati in quel primo nuovo giorno.

La donna dagli occhi che si ingrandivano quando vedeva l’uomo delle ceramiche.

Quel negozio non esisteva più, si era spostato al Pigneto, poco dopo la ferrovia.

Anche lui aveva imparato un nuovo mestiere.

E ora tutto mi sembrava più piccolo, le spalle di quell’uomo, la sua testa, le mani, anche se erano fin troppo veloci. E io avevo la pistola sotto l’asciugamano arrotolato sul mio collo, il busto imprigionato in una camicia di forza color crema, e tra poco la mia testa sarebbe stata riempita di shampoo.

Ero lì per fare i conti di quei sorrisi nascosti.

In fondo avevo sempre avuto l’animo del poliziotto.

Il barbiere mi parlava della partita di calcio e lo immaginavo con la testa trafitta dal proiettile che avevo lasciato nella canna della pistola.

C’era solo una pallottola nel caricatore.

La mia preferita, incisa con il suo nome.

L’angelo della morte.

Mi asciugò la testa delicatamente. Si prese cura dei miei capelli e della mia barba. Aveva molte lame sul lavandino di porcellana, anche quelle da rasoio poggiate su un panno bianco.

Avrei dovuto fare in fretta, più in fretta di lui.

«Lei dove vive, sta nei paraggi?» e tante altre domande soffocate dal silenzio nero.

Aveva due occhi scuri, come i miei. Carnagione olivastra.

Appena mi tolse l’asciugamano, lo guardai meglio.

Ogni ladro sa mentire, lui mentiva a tutti mentre tagliava i capelli e portava via le donne degli altri. Tutti i ladri si sentono più furbi degli altri, e prima o poi commettono un errore fatale.

Il ladro deve vantarsi, ha bisogno di essere ascoltato da qualcuno.

Non riesce a starsene zitto. Nelle celle del carcere scopriamo la verità, quella dei ladri o degli assassini.

Le mura parlano. Respirano di delitti.

Sempre.

Lui però non andrà mai in prigione.

C’è una bara sottoterra che lo aspetta. Il legno già profuma.

Non voglio sentire scuse, nessuno può essere scusato da un delitto così bastardo.

Mi dirà che lui non avrebbe mai voluto scassare una famiglia, e non sapeva che mia madre fosse davvero mia madre o che lei avesse un figlio maschio. Ma io la tenevo per mano quel giorno che era passata davanti alla sua vetrina aggiustandosi la gonna.

Era colpevole, il corpo di un bambino non può passare inosservato. Ho sempre avuto le gambe sottili.

Mia madre era stata sicuramente ingannata con la forza. Quell’uomo era un vigliacco. Lei non sarebbe mai scappata così, lasciandomi solo senza più chiamarmi sottovoce non appena apriva la porta della mia stanza. Un suono delicato, mentre ora le mie orecchie sono bollenti.

«Cosa le hai promesso?» questa volta ero io che domandavo. E la voce uscì dura, più del solito. Ci guardammo per un istante allo specchio. C’era qualcosa di strano nel suo sguardo. Del ladro che viene sorpreso con il bottino.

Quel piccolo miserabile ladro.

«È arrivato il giorno, eh. L’ho visto non appena sei entrato.»

Sembrava tranquillo, il vero ladro modula la voce e inganna con lo sguardo. I ladri sono dei traditori. Lui era un ladro abituale, un traditore seriale.

Non si meritava solo la galera.

«Lei non mi dia del tu.»

«Ho sempre parlato così ai poliziotti, mi suonerebbe strano cambiare adesso.»

Passai una mano sul collo per massaggiarlo, con l’altra iniziai a frugare nella tasca della mia giacca. La pistola era ancora lì.

Un ladro demonio, sapeva già tutto.

La voce, quella voce. Dove l’avevo già sentita?

«Poche chiacchiere, voglio sapere dove sta mia madre?»

«Da lontano venivo a vederti. Ma non mi potevo avvicinare.»

Cosa diavolo stava dicendo?

«Tu non sai nulla, era giusto così.»

Tirai fuori la pistola. Avevo lasciato la divisa a casa, arrotolata sulla sedia del salone. L’avrei lasciata lì per sempre. Era il terzo tempo della mia vita.

Ora premo il grilletto. Uno sparo in bocca, a lui o a me.

L’odore strano della sua pelle mi frenò.

«Sono tuo padre, Antonio. Questo era il tuo primo vero nome che avevamo scelto. Sei stato riconosciuto alla nascita dal compagno di tua madre. Lei mi aveva lasciato, ma poi è tornata da me.»

Il pavimento crollò sotto i miei piedi. Si aprì una voragine.

Non ero stato un buon poliziotto, non sono degno di indossare la divisa blu.

«Al tempo della malattia lei è tornata a casa mia. Non voleva che tu la vedessi.»

«Quale malattia?» urlai, non mi importava più di essere scoperto.

«Il cuore si è fermato all’improvviso. Quello che tu chiami padre non sapeva nulla, neppure di essere l’uomo sbagliato in ospedale al momento in cui sei stato messo nella culla. Era convinto di averti come figlio. E io non ti ho mai riconosciuto, poi mi sono pentito.»

«Non puoi pentirti ora, ti ammazzo lo stesso.»

«Non devi sentirti in colpa, tu non hai fatto nulla.»

Con il calcio della pistola lo colpii sulla spalla. E poi sul petto.

«Cerchi la pace quando in terra hai seminato la guerra. A casa, da solo, c’ero io.»

Lo guardai mentre era chinato, con le braccia ricurve sul torace.

Un semplice click del grilletto e avrei avuto la pace.

Uno schizzo di sangue preciso che sarebbe uscito dal cervello.

Sangue scuro, melmoso.

Poi vidi che con un dito indicava qualcosa dietro di me. Indietreggiai e guardai una cornice. Eravamo io e mia madre, seduti su una panchina.

Al parco di Monteverde.

Lo sparo fece un buco rotondo sul marmo.

Il vetro andò in frantumi, il proiettile passò direttamente al centro.

Nessuna chiazza di sangue.

Nella fotografia svanirono il viso di mia madre e metà del suo corpo.

Rimasero le sue scarpe rosse, le gambe coperte da una gonna blu e un grosso buco.

Me ne andai, ancora una volta senza avere più un nome.


Le fotografie sono di Roberto Cavallini

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