Alessandro Macchi
Verso il cent'anni dello scrittore

Il ponte di Calvino

Storia di un incontro casuale - nella Liguria degli anni Sessanta - tra Italo Calvino e un ingegnere per parlare dell'arco di un ponte tra culture e tradizioni diverse; un arco che lega scrittori, progettisti e imperatori

In occasione del centenario della nascita di Italo Calvino ho pensato che possa essere di qualche interesse condividere con i lettori un episodio legato al mio incontro col grande scrittore.  Con lui in una giornata serena in Liguria, abbiamo parlato di ponti, quelle strutture che appartengono a tutti perché su di esse si incrocia una gran parte delle attività di interrelazione tra gli uomini. Ma se esse sono opere durature nella loro realtà, vivono anche nell’immaginario capaci come sono di attrarre l’attenzione e dare il volo alla fantasia.

La guerra distrugge i ponti per bloccare il passaggio da una terra all’altra, finita la guerra i ponti si ricostruiscono perché nessuna terra può essere abitata se non ha ponti che permettano di percorrerla, di attraversarla. Ed anche la letteratura, l’arte, la poesia, la musica, hanno bisogno di ponti.

Parlando con Calvino di un ponte che stavo costruendo, l’artista riusciva a cogliere in poche parole l’essenza della struttura che io stavo illustrando: sarà così che la trasfigurerà in un passo indimenticabile nella sua opera “le città invisibili”.

A Genova nel 1963 dirigevo due ponti e due gallerie per l’autostrada Genova Savona a Sestri Ponente in un lotto contiguo al ponte Morandi, e le strutture crescevano assieme e non era difficile scambiar parola con il noto personaggio: i nostri ponti avevano configurazioni statiche agli antipodi, il mio ad archi, sospeso quello di Morandi.

Il mio ponte sulla valle del torrente Ruscarolo a Genova Sesti Ponente era costituito da tre arcate di ottanta metri di luce ciascuna poggianti su pile scatolari larghe otto metri. Ogni arcata era formata da cinque archi o nervature tra loro unite.

Era una bella struttura, gli archi erano progettati a tre cerniere elastiche per far si che la linea elastica, cioè quella linea che governa le sollecitazioni ammissibili nella struttura per le diverse posizioni del carico, fosse obbligata a passare attraverso le cerniere dimensionate al momento flettente. Con questo disegno l’estradosso dell’arco presentava altezze strutturali diverse: più sottili in chiave, solo un metro, mentre alle imposte erano spesse il doppio e ben maggiori erano alle reni dell’arco ben cinque metri e su questi rialzi appoggiavano travi da 33 metri di luce per dare continuità con le arcate viciniori.

Si determina così un gioco di pieni e di vuoti che si rifà ai ponti classici dell’800, quelli di Londra, Parigi, Tolosa. Un tipo strutturale ripreso dall’architetto Calatrava, che ne ha fatto un suo cavallo di battaglia come alla Estacao do Oriente a Lisbona, ma… sono archi più tozzi dei miei di Genova.

Il “Ponte Drago” di Genova

Costruire un ponte a grandi archi è una esperienza straordinaria. L’arco è una struttura nobile di per sé e in quel progetto andava costruito con attenzione agli equilibri in fase di getto da eseguire per sovrapposizione di parti, per conci quasi fossero pennellate successive per un quadro.

Il significato strutturale ed estetico dell’opera dava quel fascino interiore che riescono a regalare le belle strutture così come avveniva per le cattedrali del passato e ora nella civiltà contemporanea vive nelle sofisticate strutture dei ponti o degli aerei dove la bellezza e l’armonia dell’estetica sono spesso direttamente proporzionali alla “quantità di scienza” che essi contengono.

In quegli anni a Genova frequentavo amici carissimi che avevano come centro di unione i miei coetanei freschi sposi Giorgio Ghiron e Laura. Il luogo dell’anima era la casa avita di Giorgio a Cervo Ligure appartata in riva al mare e appariva bella col suo giallo, quasi la casa del guardiano del faro. Qui la Scià Anna, la mamma di Giorgio, aveva preparato la “camera di Sandro”.

Un giorno Giorgio mi disse con entusiasmo: «Avremo con noi Italo Calvino, Sergio Liberovici con Margot e Alessandra, forse Francesco Casorati e sarà bello».

«Fantastico», esclamai.

Dello scrittore avevo apprezzato soprattutto il Cavaliere Inesistente che avevo letto appena arrivato a Genova e in seguito La giornata di uno scrutatore.

Calvino venne con la moglie Chichita, che aveva sposato a febbraio a Buenos Aires. Ecco Margot col marito, il musicista Sergio Liberovici, che aveva musicato su libretto di Calvino La panchina. L’avevo già conosciuto a Coumayeur da Alessandra, la sorella di Margot, la danzatrice. Ma c’erano anche molti altri amici dei Ghiron, una bella comitiva soprattutto di torinesi, allegra e composta… Più tardi arrivò Francesco il pittore, che subito parlò fitto fitto con Giorgio.

Io stavo un po’ in disparte, in silenzio in mezzo a così nobile consesso. Calvino parlava del più e del meno e tutti erano rilassati e allegri. Chichita rideva volentieri. Protagonista era il mare, la barca Vega, storie leggere.

Giorgio mi presentò dopo un po’ e disse: «Un altro amico torinese, ingegnere, che a Genova costruisce autostrade».
Calvino domandò: «E che cosa costruisci in particolare?».
«Ponti e gallerie».
Giorgio precisò: «Sandro, come me d’altronde – lui era medico – è un tecnico, ma appassionato di arte e di estetica». Poi aggiunse: «Racconta a Italo qualcosa del tuo famoso ponte ad archi, quello che tu chiami “Ponte drago”».
«È costituito da tre grandi arcate di ottanta metri di luce – risposi – molto interessanti perché l’arco è a tre cerniere elastiche, ciò che consente anche un’architettura di notevole impatto estetico».
E Italo: «Tre cerniere elastiche cosa significano?».
«Sono come dei conci di dimensioni particolari che fanno si che la linea elastica, che governa l’arco, sia guidata e le sollecitazioni siano giuste».
«Ma quindi quella linea determina la vita del ponte».
«Esattamente, le cerniere determinano la linea d’arco vitale del ponte e così l’arco esiste con funzioni ottimali».
Calvino rimase pensieroso, poi disse: «Bello».
E non aggiunse altro ed io cercai Alessandra.

Margot intonò con la chitarra un motivo delle sue “Cantacronache” e Alessandra parlò di un album, uscito nel ’63, di alcuni giovani inglesi che non avevo mai sentito nominare, certi “Beatles”.

Dissi qualcosa a tavola, quando Giorgio e Laura versarono il vino “Favorita” che avevo portato io e che nessuno conosceva, e parlai delle virtù di terre diverse e di radici.

Quando nel 1972 Italo Calvino pubblicherà Le città invisibili dove il protagonista è Marco Polo che parla con l’imperatore della Cina Kublai Kan, un colloquio tra Marco e l’imperatore attirerà subito la mia attenzione:

Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.
– Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? – chiede Kublai Kan.
– Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra, – risponde Marco, – ma dalla linea dell’arco che esse formano.
Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: – Perché mi parli delle pietre?
È solo dell’arco che m’importa.
Polo risponde: – Senza pietre non c’è arco.

Sì, scrivere è bello come una sequenza di sonni e di risvegli.

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