Gianni Cerasuolo
Su “Laggiù qualcuno mi ama”

Napoli o Troisi?

Il bel documentario di Mario Martone su Massimo Troisi, in occasione dei settant'anni dalla nascita, rappresenta una importante occasione per ripensare una città che è anche un modo di vivere (o di scansare la vita)

Napoli va di moda. Per i gol di Osimhen e Kvara, per Mare fuori, per i tanti turisti che sembrano inebriati da nuovi tour che Goethe e Stendhal ma anche David Foster Wallace già fecero a Napoli o nei paraggi (l’americano in realtà soggiornò a Capri, in città ci stette un giorno, il tempo di innamorarsi della mozzarella).

Napoli si vende bene come ai tempi di Bassolino, il vicerè, uno dei sovrani repubblicani secondo Paolo Macry. Napoli è sovraesposta, ipernarrata alla tv, al cinema, nei libri. Napoli è un set di giorno e di notte: in principio fu Il posto al sole, poi venne Gomorra, il capostipite da cui discendono milioni di metri di pellicola, dai Bastardi di Pizzofalcone al Commissario Ricciardi, a Mina Settembre, tutta roba di Maurizio De Giovanni trasferita dalla carta al piccolo schermo. Per non dire dell’Amica geniale, un’altra hit libraria e televisiva che ha varcato i confini. O della Vita bugiarda degli adulti sempre di Elena Ferrante passata su Netflix poco tempo fa. L’elenco sarebbe lungo e dilaterebbe questo articolo. Le serie e gli altri programmi hanno portato lavoro e formazione professionale. Aggiungete che anche il cinema che si gira alla Sanità, invece che a Posillipo, nell’eterno irrisolto conflitto tra la Napoli bassa e la Napoli alta, trova posto nelle classifiche che contano. Così solo qualche mese fa a Parigi era gettonatissimo quel Nostalgia che Mario Martone ha estratto dal racconto asciutto e assorto di Ermanno Rea.

Depressa o eccitata, piena di mille problemi quotidiani e capace al contrario di sprigionare tante energie e talenti, Napoli stupisce sempre. Anche quando fa di tutto per essere “normale” come ho letto nell’introduzione di un brillante volumetto di un paio di anni fa, The passenger, dedicato al capoluogo campano. L’impresa che sta compiendo il Napoli calcio non ha nulla di improvvisato e di creativo. È la costruzione e la programmazione di un’azienda un po’ particolare, trattandosi di pallone, ma che poggia le fondamenta sulla pianificazione e l’organizzazione. Tenendo i conti in ordine.

“Ricomincio da tre”

C’è poca Napoli, invece, nel film-documentario di Martone dedicato a Massimo Troisi, Laggiù qualcuno mi ama. Almeno la Napoli da vedere. Quella delle cartoline che oggi non ci sono più e sono state sostituite dai droni che riprendono tutto dall’alto e fanno da stacco nel racconto televisivo o cinematografico. Martone offre un solo panorama di Napoli quando sposta la cinepresa piazzata davanti alla Certosa di San Martino, uno dei belvedere della città, là dove il Vomero scende verso la parte bassa, e inquadra il centro storico con sullo sfondo il Vesuvio e le Torri del Palazzo di Giustizia. Lì, sulla balaustra del belvedere, Troisi aveva girato una delle ultime scene di Pensavo fosse amore invece era un calesse: è lì che Cecilia con il suo abito da sposa ormai inutile riceve il biglietto di Tommaso che le dà appuntamento al bar dove l’accoglierà con un «Come va? Prendi qualcosa?…» dopo averle dato buca sull’altare. Per poi spiegare che lui non era contrario a quel matrimonio ma che, insomma, un uomo e una donna sono le persone meno adatte a sposarsi.

L’amore è al centro del cinema di Troisi, lui un maschio meridionale fragile messo in crisi dalle donne. Martone indaga su Troisi e sulla Napoli dei fermenti post terremoto dell’Ottanta: al cinema (lo stesso Martone e Toni Servillo, Pappi Corsicato che si andava formando), a teatro (Enzo Moscato e Annibale Ruccello), nella musica (Pino Daniele, Napoli Centrale, il gruppo già affermatosi a metà degli anni ‘70).

La scena iniziale di Ricomincio da tre Troisi la collocò tra barbacani e travi di sostegno di un palazzo colpito dalle scosse mentre Lello Arena si sgolava a chiamare Gaetano, Gaetano. Osserva adesso Francesco Piccolo: «Con Ricomincio da tre tutta la città respirava con Massimo, era un fragore fatto di identificazione non più mediato dalla cultura ed io la sentivo come roba mia». Fu un boom, una esplosione improvvisa, cinema straripanti di gente. Certo, la tv aveva preparato il terreno e quelli della Smorfia (lui, Lello Arena ed Enzo Decaro che in principio nei teatrini off si chiamavano I Saraceni) si erano affermati con Annunciazione Annunciazione e tanti altri sketch. Ma nessuno si aspettava quel pandemonio. Troisi rovesciava la realtà, dava voce ai giovani in una cultura che era stata sempre degli adulti (Eduardo, Peppino, Totò) secondo la tesi di Goffredo Fofi. Troisi cancellava gli stereotipi, i luoghi comuni («Emigrante? No. Io c’avrei pure un lavoro a Napoli, una cosa normale…No, so’ partito così pe’ viaggià, per conoscere un po’…»), richiamava Petito e Scarpetta e li adattava ai tempi moderni. «Il mio personaggio doveva essere scontroso fino all’eccesso» scriveva. Mentre è noto che un napoletano non può essere scontroso.

La caratteristica del lavoro di Martone è che ricorda Troisi senza ripercorrere strade già percorse: non troverete nel film le solite interviste o passaggi televisivi che abbiamo visto tante volte. Il regista quasi scava nell’uomo e nel personaggio, nell’attore e nell’autore. E lo fa attraverso gli appunti di Massimo, foglietti a quadretti e a righe che a volte sono abbozzi di sceneggiature, altre volte episodi di vita vissuta, e altre ancora pensieri e considerazioni. Strazianti in certi casi, quando ad esempio sottolineò: «Eppure un sorriso io l’ho regalato». Una sola riga quando subì negli Stati Uniti un intervento al cuore già malandato. Era il 1976 ed aveva 23 anni. Forse scrisse quella frase altre volte. Fecero una colletta parenti, amici, la gente di San Giorgio a Cremano per l’operazione. E attorno a quella data su altri pezzi di carta scriveva: «Partenza per New York. No!». «Dolori atroci». «Incubi». «Torno dentro malissimo». «Movimento». «Ore 23 Napoli», l’atteso rientro, con tanto di punto esclamativo vicino. Scopriamo anche un nastro in cui registrava e simulava false sedute psicanalitiche in cui si faceva domande personali che lo raccontavano intimamente. Così diceva di aver ricevuto una cartolina da una ragazza in cui c’era scritto «Ciao, uomo» e lui non si capacitava: «Come ha fatto questa a dirmi uomo? Abbiamo solo parlato, nemmeno abbiamo fatto l’amore…».

Troisi scrisse su quei foglietti qualcosa che riporta anche ad una delle sue più celebri battute: quella del come chiameremo questo bambino nel finale di Ricomincio da tre. Massimiliano, propone lei. No perché è troppo lungo, ribatte lui. Meglio Ugo, così ’o guaglione viene più educato. Anni prima era successo che, su una spiaggia, Massimo e la sua compagna erano incappati in un ragazzino maleducato, Emiliano, che aveva dato loro fastidio. E lui aveva fissato l’episodio: «No Emiliano, no» aveva scritto. Poi Emiliano divenne nel copione Massimiliano, nome ancora più lungo, ingovernabile per una madre.

Foglietti e nastri Troisi li lasciò ad Anna Pavignano, che ha vissuto con l’attore e regista una decina di anni e che con lui ha sceneggiato i film. Anche dopo la separazione. È l’altra chiave, questa donna, che Martone usa per entrare dentro Troisi. Una scrittrice che molti all’epoca pensavano fosse napoletana, invece veniva da Torino: «Mi immaginavano come una specie di figura materna» spiega «mentre invece ero una giovane donna. E quindi si stupivano. Lui era rimasto colpito dal mondo che mi portavo dietro, quel femminismo meno radicale fine anni ‘70. E lui era uno che capovolgeva le cose ma certo non voleva fare il femminista».

Aveva la forma della vita, il cinema di Troisi. Come se lui fosse inadeguato per affrontarla. Martone lo colloca accanto a Francois Truffaut, era un Antoine Doinel cresciuto man mano attraverso i suoi film come il protagonista dei Quattrocento colpi. E Paolo Sorrentino parla di Troisi come autore e attore inarrivabile. Parla della lentezza di certe scene quasi volesse mostrarsi, Massimo, al di sotto delle sue possibilità, dei suoi balbettii, delle sue pause, di quel toccarsi il sopracciglio. Un’afasia espressiva, la definì Raffaele La Capria. Troisi non aveva la battuta pronta ma la costruiva come fosse una impalcatura, salendo su piano piano. Il regista cita Scusate il ritardo, quello del Cesena sta vincendo a Napoli, quando Troisi porta il pranzo al professore che sta di casa al piano di sopra l’abitazione della sua famiglia e, nell’attesa che il professore mangi, legge un compito di matematica in cui un contadino passa mille vicissitudini per vendere dei sacchi di farina al mercato. Fino alla botta finale: «Sti contadini so’ cose ’e pazze, non si sono mai trovati con i conti…».


“Scusate il ritardo”

Un napoletano atipico, lo definiva Ettore Scola: Troisi non amava il carattere dei napoletani, non amava la cosiddetta allegria napoletana, odiava gli attori napoletani che fanno tutto in modo esagerato, non sanno essere naturali. Anche il “fratello” di Massimo, Pino Daniele, non aveva un buon rapporto con una certa parte della città. Forse cercavano entrambi solo la normalità. E chissà se mai l’avrebbero potuta trovare in un ambiente unico, affascinante e difficile, capace di esaltarsi e deprimersi a giorni alterni.

Resta da chiedersi che cosa penserà Massimo di tutti questi elogi. Avrebbe fatto 70 anni il 19 febbraio. La Federico II gli ha dato anche una laurea in Discipline della musica e dello spettacolo. Riesce difficile chiamarlo dottor Troisi. Lello Arena, caustico, ha detto che tra tutti quelli che si sono prodigati in lodi ed epinici ci sono molti che in passato avevano sbattuto la porta in faccia a Massimo.

Io mi limito a dire a Troisi che oggi non potrebbe più ripetere «no, non sono emigrante». Lo informo che, secondo gli ultimi dati dell’Istat, nel 2021, due anni fa, ben 17 mila persone hanno lasciato la città e il suo hinterland per zone del Centro-Nord più ricche. Sono andati via tanti giovani per studiare e lavorare. E che la Campania è la regione da dove si parte di più. In 9 anni, dal 2012 al 2021 dalle isole e dal Sud si sono mosse oltre 1 milione di persone. Tra uscite ed entrate nel Mezzogiorno c’è un meno 525 mila residenti.

Lo avviserei, inoltre, di spostarsi in città con mezzi propri.  Napoli è la metropoli più lenta d’Italia, dove i cittadini possono aspettare un treno della metro, quella Linea 1 dalle meravigliose stazioni d’arte, anche venti minuti. Sempre che i treni camminino. Perché i nuovi convogli vengono provati di giorno e non di notte a causa di una vertenza sindacale. Quindi capita che la linea resti fuori uso per 7/8 ore per permettere le prove di frenata. Ora c’è un accordo. Chissà. Non ti stupire, lo avvertirei, di trovare le funicolari chiuse: manutenzione. E a San Giorgio a Cremano, la cittadina dove sei nato, in quella stazione dove ti hanno fatto un enorme murales, la Circumvesuviana arriva, quando arriva, sempre più scassata e vecchia, salta le corse e, a volte, salta anche i binari.

Infine gli direi: non ne hai più bisogno, però cerca di evitare gli ospedali. Non perché non ci siano bravi, eccellenti medici o infermieri capaci. Gli farei presente che ce ne sono pochi, meno che altrove, e quei pochi che si fanno il mazzo spesso abbuscano pure, vengono picchiati da parenti e delinquenti in libertà se le cose vanno male. Succede così anche a Roma, stai attento.

Lo sai com’è: Napule è mille culure, Napule è mille paure. Torna quindi, caro Massimo, e stai senza pensieri.

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