Giuliano Capecelatro
Viaggio in una città di contraddizioni

Modello Napoli

Gigante dalle spalle gracili, metropoli dalle strutture e infrastrutture rachitiche, Napoli si gode i benefici della bolla turistica, che convoglia verso le sue casse tanti soldi. Ma le "bolle" sono fragili e imprevedibili

Ci risiamo! L’antico vizio riaffiora. Il giovane tassista spara tredici euro per un tragitto di circa due chilometri, da piazza Garibaldi alla Galleria Principe di Napoli, su via Foria, di fronte al Mann (Museo archeologico nazionale di Napoli). Invano hai tentato a fargli entrare in testa che sei più napoletano di lui, e dunque non ci provi. Uno strano marchingegno elettronico di fronte al cambio mostra, in effetti, quella cifra in caratteri minuscoli, difficili da leggere a distanza.

A scanso equivoci. La stragrande maggioranza dei tassisti cittadini sono onestissimi e gentili. Quasi nessuno più che, al fiutare lo straniero, si avventuri su percorsi improbabili, maggiorati; al massimo i più spudorati chiedono se gli offri un caffè, declinazione personale del “caffè sospeso”. Ma il giovane rappresentante della categoria tiene duro per imporre l’atavico principio: Je a tte t’aggia fottere, vessillo di un lazzaronismo duro a estinguersi.

C’è uno zoccolo duro che resiste nella città ammodernata e rielaborata, da Afragola a piazza Dante passando per il Centro direzionale, da alcuni tra i più quotati architetti internazionali, mentre nuove meraviglie prendono forma nei cantieri. Un nucleo ridotto, ma protervo; una sorta di clan, che custodisce e osserva solo i propri codici. Per cui chi viene da fuori è altro da te, antropologicamente estraneo se non proprio nemico, da abbabbia’, raggirare, spennare, ricavarci quello che ci si può ricavare.

Gode di ottima stampa Napoli, in questi ultimi anni. In Italia e all’estero. Le strade del centro cittadino scoppiano di ospiti. In alcuni periodi dell’anno la folla è tale che si fatica a camminare. Per Natale a san Gregorio Armeno, la strada dei pastori, funziona un senso unico di marcia.

I Quartieri spagnoli, di fronte alla superba metropolitana di Toledo, sono presi d’assalto; il murale con l’effigie di Maradona, ultimo dei santi indigeni, è il luogo di culto più frequentato e immortalato con cellulari e cineprese. Così la Sanità. Dove però le fattezze di Totò, genius loci, artista straordinario, non riscuotono lo stesso successo dell’uomo che ha regalato due scudetti alla squadra di calcio.

È positivo. È confortante. Ripaga in moneta sonante una città, a lungo trascurata, che possiede un patrimonio storico, artistico, architettonico, folcloristico, per tacere di quello paesaggistico, eccezionale. Il Cristo velato è ormai una vedette internazionale. I visitatori si accalcano in lunghe code in via Francesco De Sanctis, che qui visse, ignari dei meriti letterari del titolare della strada, ma ansiosi di sospirare davanti alla diafana copertura che Giuseppe Sammartino scolpì su commissione dell’eccentrico Raimondo de Sangro, principe di Sansevero, massone, alchimista, intraprendente promotore di sé stesso e delle sue bizzarrie.

Se Totò cede il passo a Maradona, Caravaggio, a poche centinaia di metri dalla cappella Sansevero, nel cuore della polis grecoromana, deve inchinarsi a Sammartino. Non ci sono masse sovreccitate in fila per ammirare le sue Sette opere di misericordia. Al di là delle mura antiche, il prestigioso Museo archeologico è fuori rotta per gli assatanati dei Quartieri spagnoli. E Capodimonte, pinacoteca di valore mondiale (anche qui uno stupendo Caravaggio, la Flagellazione di Cristo, nella foto accanto al titolo), nonché provvidenziale polmone verde, è collegato in maniera infame al resto della città.

Caravaggio, Sette opere di misericordia

Una potente onda d’urto di torme itineranti, che già in parte modifica tratti non secondari di questa città poliedrica. Ci si addentra nei Quartieri spagnoli nell’intento di catturare lo spirito popolaresco di questa enclave, dell’eteroclita umanità dei bassi, dei panni che, nei vicoli più angusti, garriscono in alto in cerca di un sole che fa eco al mare della Ortese, del contrabbando al minuto, degli eredi delle segnorine e degli sciuscià.

Ma si avanza a fatica tra invadenti ed osceni teloni di plastica che quasi chiudono le strade e delimitano il perimetro di un gigantesco refettorio. Un tempio della pappatoria: ristoranti, ristorantini, trattorie, osterie, bettole; con i suoi araldi disseminati su via Toledo per dirottare i viandanti verso il recinto gastronomico.  

In bilico tra delitto e redenzione, celebre e celebrata per il culto delle anime pezzentelle* (nel cimitero delle Fontanelle), adagiata tra via Foria e Capodimonte, la Sanità potrebbe fornire un altro campione di napoletanità verace. Così è, ed è piacevole aggirarsi nella colorita, strepitata confusione dei suoi vicoli tra banchi di verdure e la magnificenza del palazzo dello Spagnolo. Ma…

Una società italo-francese, la Moncler della famiglia Ruffini, ha acquistato quasi la metà (il 47,5%, attraverso la consociata Archive) della pizzeria Concettina ai tre santi, da molti considerata la migliore (e dai prezzi più salati). Una mutazione genetica che ha una corrispondenza sul mercato immobiliare. Da alcuni anni, infatti, nel rione si assiste ad un’invasione di francesi, che acquistano a prezzi di svendita ruderi, bassi, edifici malmessi.

Napoli rilanciata da tour operator, riviste e rubriche di viaggi, attira investimenti. Nomi grossi del business internazionale. E questo è senz’altro un bene. La Ferrero, l’azienda della Nutella, capofila dell’industria dolciaria, già presente in Campania, ha acquistato la partenopea Freesystem, che si occupa di dolci surgelati. La Starbucks, multinazionale del caffè, punta ad insediare un ampio locale nella Galleria, tra Toledo e piazza Municipio. Ma pone condizioni stringenti: maggior decoro e più sorveglianza.    

Subito il quotidiano locale, il Mattino, si produce in un ossequioso inchino: «Richieste condivisibili: i clochard… hanno costruito vere e proprie villette di cartone». Certo, nella Napoli patinata, asettica, del turismo globalizzato non devono esserci spettacoli che urtino la suscettibilità dei visitatori, e degli stessi napoletani non privi di mezzi. Come polvere ricacciata sotto il tappeto, i poveri (ridenominati clochard, termine dalle carezzevoli sfumature mondane, per non evocare realtà sgradevoli) e le loro villette (!) vanno allontanati, occultati. La miseria? Non scherziamo, non esiste, non è mai esistita.

Il decoro è la summa di un’ideologia piccolo borghese dal forte potere omologante. Applicato alle transumanze planetarie, appiattisce in un prototipo unico paesi e città, li spoglia delle loro peculiarità. L’homo neapolitanus, esaltato da Pasolini come ultimo antagonista di un’omologazione imperversante, temprato da secoli di assedi, invasioni, dominazioni, uscirà indenne da questa rivoluzione? O si salveranno solo i lazzaroni, più coriacei nel chiuso delle loro riserve abitative e culturali?

Depurata dall’insopportabile macchia della miserabilità, l’oleografia presenta comunque opacità, screpolature, lesioni di varia grandezza. Intanto Mondadori.  Stava per impiantarsi nei locali che occuperà Starbucks. Ma la trattativa si è arenata. Non per questioni di decoro. Il problema è che i libri, al contrario della pizza e delle apericene, non tirano, si vendono sempre meno. E infatti chiude, a piazza Dante, la libreria Pironti per fare spazio, manco a dirlo!, a un bar, in una piazza che ne conta già una mezza dozzina.

L’ex pugile e poi editore Tullio Pironti, di recente scomparso, in un mercato asfittico ha saputo imporsi per scelte lungimiranti; è stato lui a far conoscere, primo in Italia, Nagib Mahfuz, Don DeLillo, Raymond Carver, Bret Easton Ellis. Ma la chiusura di librerie a Napoli non fa notizia. Locali storici hanno dovuto ammainare bandiera. Perfino la solidissima Feltrinelli di Chiaia abbasserà le saracinesche; solo per cinque mesi, informano, ma si ripresenterà al pubblico ridimensionata. Fa impressione doverlo registrare per la città in cui sono passati Tommaso d’Aquino, Giordano Bruno, Giambattista Vico, Francesco De Sanctis, Benedetto Croce, Renato Caccioppoli.

E poi… Napoli, è innegabile, sfoggia alcune stazioni di metropolitana tra le più belle del mondo. Ma i treni, che sono l’elemento più importante, e che devono servire abitanti e turisti, sono pochi, spesso si fermano e hanno frequenze inaccettabili. A collegare le alture del Vomero con il centro ci pensano quattro funicolari. Ma quella di Chiaia è chiusa per la manutenzione straordinaria ventennale, rimandata dal 2017; si prevede riaprirà nel 2024.  A rischio chiusura, per la stessa ragione, anche quella di Montesanto, alla Pignasecca. Insieme trasportano ogni giorno ventisettemila persone. Facile immaginare i contraccolpi su un traffico già di per sé boccheggiante.

Gigante dalle spalle gracili, metropoli dalle strutture e infrastrutture rachitiche, Napoli si gode i benefici della bolla turistica, che convoglia verso le sue casse tanti bei soldini. Le bolle sono affascinanti, ma fragilissime e imprevedibili, seguono i capricci del vento. Se gli strateghi delle migrazioni da diporto dovessero convincersi a puntare sulle meraviglie imperdibili di Paderno Dugnano, o scovassero un fantastico Cristo desnudo in qualche remoto recesso della penisola, dirotterebbero lì le loro legioni; così il gigante si vedrebbe sfilare la cornucopia e compirebbe un salto indietro di cinquant’anni. A meno che nel frattempo non avesse alacremente lavorato a fortificarsi.

La sapeva lunga Pino Daniele, figlio geniale della Napoli più autentica : «Chi tene ‘o mare/’O sape ca è fesso e cuntento/Chi tene ‘o mare ‘o ssaje/Nun tene niente». Ma via, non è proprio così. In fondo è abbastanza probabile che la squadra di calcio vinca il terzo scudetto.  


* Non ci si lasci trarre in inganno. Pezzentelle, in questo caso, non ha nulla a che vedere con la miseria, che pure ha un ruolo importantissimo nella storia del cimitero e della città. Deriva dal latino petere (chiedere- per ottenere, i latini erano semanticamente molto precisi), perché tra i fedeli e i teschi, le capuzzelle, dei morti adottati si instaura un rapporto di scambio. I vivi pregano per le anime del purgatorio per ridurre i termini della loro pena (‘o rifrisco); ma, in compenso, ai morti chiedono (per ottenere, insomma esigono) di sdebitarsi realizzando una loro richiesta. La Chiesa non ha mai visto di buon occhio questo pagano do ut des e ha tentato invano di farlo cessare.

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