Leopoldo Carlesimo
La prima parte di un romanzo a puntate

Storie di Nina

«A tenerla d’occhio, piccoli infortuni a parte, Nina non pareva così diversa dalle altre. Solo, un po’ migliore: un’alunna esemplare. Molto seria per la sua età, studiosa, educata. Magari un tantino taciturna. Profitto superiore alla media, composta a lezione, condotta irreprensibile»

Che quell’alunna, quella Nina, arrivasse ogni tanto a scuola con dei segni addosso, Elsa fu la prima a notarlo. Era una volta un gonfiore su una guancia o dietro un orecchio. Un’altra volta zoppicava. Mai nulla di grave, mai che si lamentasse.

Ne parlò con Sara, la collega di lettere:

“Se glielo chiedi, ha sempre una storia pronta. E’ scivolata in bagno. Ha preso una storta scendendo dall’autobus. Roba così. Fandonie, si capisce. Non sa mentire.”

“Cioè, che hai in mente?… Pensi che qualcuno la maltratti? Qui a scuola?”

“Non so. E’ nuova, in classe. Se ne sta sempre per conto suo. Mi pare un po’ spaesata. Cosa le fanno, quando non li vediamo?”

“No, senti… sono bambini di prima media, è troppo presto per certe cose… La piccola è nuova, appunto, le sue amicizie le deve ancora fare. L’anno scolastico è appena iniziato. Un po’ di timidezza è normale.”  

“D’accordo. Ma sarà bene tenerla d’occhio. Secondo me nasconde qualcosa.”

A tenerla d’occhio, piccoli infortuni a parte, Nina non pareva così diversa dalle altre. Solo, un po’ migliore: un’alunna esemplare. Molto seria per la sua età, studiosa, educata. Magari un tantino taciturna. Profitto superiore alla media, composta a lezione, condotta irreprensibile.

“Fin troppo,” disse Elsa a Giuseppe, il prof di scienze. “E’ uno scrigno chiuso.”

“Ma no, è solo un po’ intimidita. Del resto, è una delle più brave. Le vogliamo attente, riflessive, disciplinate, e poi quando ne abbiamo una… che ci trovi che non va? Magari fossero tutte come lei.”

Nel corso del primo quadrimestre non emerse nient’altro, a parte un taglio in fronte bendato con un fazzoletto che la bambina disse d’essersi fatta cadendo dall’altalena, ai giardinetti davanti alla scuola. Pareva che fosse andata proprio così, perché due compagne di classe lo confermarono. Una piangeva: “Mi diceva di spingere sempre più forte, sempre più forte… Io non volevo, me lo ha chiesto lei…” biascicò tra le lacrime. Era davvero spaventata, costernata, capiva d’averne fatta una grave. Insomma, se Elsa s’era messa in testa che quella Nina fosse vittima d’atti di bullismo, era fuori strada.

“Va bene,” disse la preside, davanti alla quale fu portato il caso. “Non l’hai fatto apposta. Ma mai più sfide a chi va più in alto, con quelle altalene. Avete visto cosa può succedere.”

Nina fu visitata e medicata nell’infermeria della scuola. La preside chiamò i genitori e li informò dell’accaduto. Per maggior sicurezza chiese e ottenne, in Circoscrizione, che i sediolini delle altalene fossero imbracati con dei lacci, per limitarne l’ampiezza d’oscillazione. La faccenda si chiuse lì. Ma Elsa non era ancora convinta. Ci tornò su coi colleghi.

“Senti,” le rispose Sara. “Non mi pare che la bimba abbia dei problemi. Studia, s’è ambientata, a volte la vedo scherzare coi compagni. Sta solo un po’ sulle sue. E in tutto il mese non ha avuto altri incidenti fuorché questo. Non credo proprio che ci sia un caso. I bambini giocano, ogni tanto si fanno male.”

Gli altri insegnanti la pensavano come lei. Niente bullismo.

“Rilassati e fidati di noi, abbiamo più esperienza,” le disse Giuseppe. “La scuola è sana.”

Quanto a questo, ci voleva poco. Lei, Elsa, di esperienza non ne aveva affatto. Quello era il suo primo incarico. Prof d’inglese, cattedra di ruolo. Quarant’anni varcati da poco, giovanile, estroversa, energica, una laurea in lingue, per più di quindici aveva fatto un altro mestiere. Finiti gli studi, aveva trovato quasi subito un impiego in una società pubblicitaria dove s’occupava di traduzioni, conferenze, organizzazione di eventi. Un posto in cui non stava affatto male. Salario discreto, orario flessibile, buona parte dei compiti gestibili da casa con lo smart working, colleghi affabili. Tutto perfetto, fino al giorno in cui trovò nella buca delle lettere una busta gialla col timbro del Provveditorato. Quando l’aprì e lesse della nomina, lì per lì non capì neppure di cosa quel pezzo di carta parlasse. Poi ricordò il concorso cui aveva partecipato un’era prima, appena uscita dall’università. A distanza di tre lustri era entrata in graduatoria, la chiamavano.

Ci pensò sopra quasi un mese, tutto il tempo concesso dalla lettera del Ministero. Anche se in realtà la decisione la prese subito, d’impulso, e poi lasciò semplicemente passare i giorni a rimuginarci su, per giustificare a se stessa d’aver deciso a ragion veduta, dopo aver valutato bene pro e contro. Alla scadenza, comunicò al Provveditorato che accettava l’incarico. Lasciò il mestiere e l’ambiente in cui s’era ormai trovata la sua nicchia, quella che tutti prima o poi cercano di scavarsi, nel lavoro come nella vita. Mollò il proprio cantuccio, non sapeva bene perché.

“Bisogna, ogni tanto.”

“A quarant’anni suonati, con un divorzio alle spalle e una figlia adolescente a carico? Che ci tieni nel cervello?” Le disse Sara. “Lavori più di prima, guadagni di meno, hai pure meno tempo per te, per tua figlia… Chi te l’ha fatto fare?”

“Beh, ammetterai che occuparsi di una classe di ragazzini è più vivo che tradurre testi commerciali.”

Sara non commentò, bastava la sua faccia.

“Comunque, accetta un consiglio,” le disse. “Qui a scuola, non te la prendere troppo a cuore. Take it easy. Vacci piano. Et sourtout, pas trop de zèle.” Volle proprio dirglielo in più d’una lingua. “La preside non ha gradito il polverone che hai alzato su questa faccenda. Per cosa, poi? Nulla. Un sospetto infondato. Passare voci di bullismo non fa buona réclame all’istituto. Sta’ più coperta, non esporti così, è il tuo primo incarico. Quella ragazzina non ha niente che non va.”

Proprio vero, quanto ad andarci piano. Era stata imprudente, impaziente, affrettata. Ma, pensava Elsa, forse è proprio la mancanza d’esperienza che mi rende più sensibile a cose estranee alla didattica. Non ci ho ancora fatto il callo, vedo quello che loro non vedono. Dentro di sé era ancora convinta che quella ragazzina nascondesse qualcosa.

Perché poi s’interessava tanto a Nina? Quando se lo chiese, le parve di potersi rispondere che sentiva confusamente di avere qualcosa in comune con lei. Cosa fosse, più precisamente, quest’affinità con un’undicenne… a questo doveva ancora lavorarci. Per il momento, si contentò di riconoscere un comune senso d’estraneità, la percezione d’essere entrambe forestiere, lì dentro.

Istituto P., quartiere Q., media periferia romana. Un complesso di quattro edifici grigi, bassi, squadrati, coi finestroni alti e niente tende alle finestre, raccolti attorno a un cortile ricoperto di ghiaia chiara e bordato d’aiuole, al cui interno sparute chiazze d’erba crescevano attorno a scarni alberelli. Aule grandi e fredde, sommariamente arredate con banchi lavagne e cattedre che avevano conosciuto tempi migliori. La scuola raggruppava i tre livelli d’istruzione primaria: materna, elementare e media. Pressoché tutti i compagni di Nina erano nella stessa classe da anni. Nina no, aveva fatto le elementari altrove. Dopo la licenza, i genitori l’avevano iscritta lì. Un new fish, proprio come lei… Ma non bastava, e per capire cos’altro ci fosse, nel feeling con quella ragazzina, Elsa cercò di saperne di più sul suo conto.

Contro il parere della preside, dopo l’incidente dell’altalena convocò a scuola i genitori. Vennero entrambi, e la prima cosa che Elsa notò di loro fu l’inconsueta presenza fisica, la bellezza e il modo di portarsi sia di lui che di lei. Una presenza che saltava agli occhi, persino eccessiva, vagamente patinata e artefatta, faceva pensare alla copertina di una rivista gossip o a una scena di soap opera. Anche per gli atteggiamenti, i gesti, gli sguardi che i due si scambiavano, passandosi la battuta quasi fossero in un teatro di posa o davanti a una macchina da presa.

Il set era quello d’un colloquio genitori-insegnanti, un’aula semivuota piena di banchi e cattedre dismessi. Quanto alla sostanza, su Nina non le dissero niente che non sapesse già. Parlarono molto, ma solo per fornire la versione edulcorata e incolore d’un anonimo ritratto di bambina, dal carattere un po’ chiuso ma del tutto normale, che di recente aveva cambiato scuola ed era semplicemente incorsa in un numero appena superiore alla media d’incidenti domestici e leggeri infortuni, di cui i due si mostrarono perfettamente al corrente. Ad Elsa parve di tastare una gran matassa d’ovatta, messa lì ad attutire asperità che nessuno dei due voleva rivelare.

Si concentrò su di loro. Lui era un ex-sportivo sui quaranta, alto e stempiato, ancora un gran bell’uomo, anche se forse cominciava a metter su un po’ di pancetta. Era passato accanto a un’interessante carriera tennistica, a quanto le parve di capire; ora era architetto, lavorava per una società di costruzioni. Lei, di almeno dieci anni più giovane, faceva la segretaria in uno studio legale, ma in passato aveva vagamente frequentato il mondo dello spettacolo, e gliene parlò. Bellissima donna, curata, attenta a vestirsi, con quel che di deluso nello sguardo che a trentatré anni le conferiva forse più fascino di quanto meritasse. Le dedicarono quasi un’ora del loro tempo e risposero con cortesia eccessiva a tutte le sue domande, con quel garbo un po’ affettato che diede a Elsa, di nuovo, l’impressione di un copione da mediocre fiction, testi e pose da fotoromanzo. Ma forse era prevenuta, forse s’ostinava a inseguire un’idea infondata…

Oppure la si poteva anche leggere così: due ex-aspiranti al successo, un po’ fatui, che s’avviavano al declino senza aver visto realizzarsi, né l’uno né l’altra, promesse di vita cui forse avevano creduto. Lui, trascorsi sportivi a parte, non doveva essere un granché come architetto, in quella società di costruzioni probabilmente svolgeva un lavoro impiegatizio di medio calibro. Lei certamente non aveva sfondato nel mondo glamour di cui tanto parlava, e poco prima dei trent’anni s’era trovata un posto da segretaria. Dovevano essere incappati in Nina troppo presto (per lei, appena dopo i vent’anni) ed era certo la ragione per cui s’erano sposati. Si vestivano, s’atteggiavano, parlavano, come se appartenessero – o s’ostinassero a credere d’appartenere – a un mondo diverso rispetto a quello in cui in realtà vivevano. Queste deduzioni complementari, non suffragate da alcuna evidenza fattuale, Elsa le mise insieme nell’arco di un paio di settimane di ‘indagini’ – in realtà, sue speculazioni ed elaborazioni mentali – in cui continuò a lavorare al caso di quella ragazzina. L’unica insegnante della scuola convinta che ce ne fosse uno. Era sempre dell’idea che quella famiglia nascondesse qualcosa.

Per quel mese, non accadde nient’altro. Nina pareva una bambina del tutto normale, studiosa, disciplinata, sempre un po’ timida ma ormai ambientata, ragionevolmente socievole coi compagni. Non si sottraeva ai giochi comuni e scherzava con gli altri, anche se non c’era un’alunna che potesse dirsi davvero sua amica. Elsa lo notò. Non aveva un’amichetta del cuore e nessuna delle compagne la frequentava fuori di scuola. Però ciò non escludeva che avesse delle amicizie altrove, fuori di lì. Magari tra i parenti. Quando Elsa la sollecitò su questo punto, Nina parlò di certi cuginetti con cui giocava di tanto in tanto… Ne parlò in modo un po’ vago e cominciò a stranirsi quando Elsa insistette per saperne di più. Tuttavia, a giudizio dell’intero corpo docente Elsa esclusa, non c’era proprio nulla che destasse preoccupazione nel comportamento e nel rendimento scolastico di quell’alunna. Davvero niente che autorizzasse chicchessia a investigare indiscretamente sul suo privato, ammonì la preside.

Successe una volta sola, in quel periodo, che si presentasse a scuola con un braccio al collo. Disse d’esser caduta per le scale tornando a casa. E anche se finalmente non solo ad Elsa, ma anche a Sara e a Giuseppe, parve chiaramente che la bambina mentisse, non fu possibile cavarne altro. Sara e Giuseppe consigliarono ad Elsa di non rifare lo stesso sbaglio, di non parlare con la preside.

“Bisogna prima avere delle prove. Bisogna saperne di più. La sorveglieremo.” Le dissero.

“Non sapremo mai di più, se non sarà lei a dircelo,” obiettò Elsa.

“Ce lo dirà, vedrai. Verrà il momento in cui vorrà farlo,” ribatté Sara.

Il campanello d’allarme suonò a conclusione del viaggio a Pompei. Erano andati in gita scolastica con tre prime, su un bel pullman a due piani, accompagnati da una guida che spiegava i ruderi come una specie di favola nera, raccontando nei dettagli la vita quotidiana della città ignara a poche ore dall’eruzione. Erano ormai alla fine della visita, i ragazzi già salivano a bordo del pullman, quando scoppiò il caso delle chiavi.

Nina era proprio fuori di sé: rossa, congestionata in viso, piangeva e tremava, mentre cercava qualcosa per terra, attorno al pullman e lungo il sentiero che avevano percorso per raggiungerlo. “Le chiavi, le chiavi…” continuava a ripetere terrorizzata, e ce ne volle perché Elsa e Sara la convincessero a fermarsi, a lasciarsi accompagnare a una panchina e provare a spiegare.

Ce ne volle ancora di più perché, dopo mezz’ora d’inutili ricerche e quando ormai cominciava a farsi un po’ tardi per raggiungere l’autostrada e rientrare a Roma prima di sera, Nina rinunciasse una buona volta a cercare quelle dannate chiavi che non si riusciva proprio a trovare, chissà dove se l’era perse, e, esausta per la crisi di nervi, gli strepiti e il pianto, cadesse addormentata sul sedile del pullman, tra le braccia di Elsa, che la cullava come avesse tre anni.

Quando fu ben certa che dormisse, s’allontanò. Si sedette sul retro, con Sara, lontano dagli sguardi e dalle orecchie degli altri bambini, e parlottarono tra loro.

“Le chiavi di casa. Ti pare normale che a undici anni abbia le chiavi di casa?”

“Non è questo,” disse Sara. “Non è normale che abbia una crisi così, per averle perse.”

“No. Neanche questo è normale. Ma perché una bambina di undici anni che torna a casa da una gita scolastica il venerdì sera dovrebbe aprire da sola? Non c’è nessuno, ad attenderla? E perché è talmente terrorizzata, ha una crisi nervosa così violenta, per aver perso le chiavi? Da dove viene tanta paura? E’ la spia di qualcosa, questo.”

“Ancora. No, senti,” disse Sara. “Basta congetture. Solo fatti. Accompagniamo la bambina fino a casa. Anche perché non potrebbe entrare, senza chiavi, se davvero dentro non c’è nessuno. Se invece uno dei genitori è lì, ci parliamo. E vediamo.”

A Roma, alla fermata del pullman, tutti gli altri bambini avevano qualcuno ad attenderli – la madre, il padre, un fratello, una zia – fuorché Nina. Quand’ebbero riconsegnato ai rispettivi parenti tutti gli altri, Elsa disse a Sara: “Ho qui la macchina, andiamo con la mia.”

Era una palazzina ordinaria, anni Sessanta, stabile bordato dai giardinetti degli appartamenti al pianterreno, vialetto d’ingresso lastricato, portoncino in alluminio anodizzato e vetro, coi citofoni delle due scale sugli stipiti. Suonarono ripetutamente, non rispose nessuno.

“Ho i loro numeri,” disse Elsa. “Li chiamo.”

Il telefono di lei squillò a lungo, uno squillo che faceva pensare a un paese diverso dall’Italia, parve ad Elsa il gracchio doppio dei telefoni inglesi. Nessuna risposta. Anche il telefono di lui squillò molte volte, ma alla fine, quando già stava per riagganciare, qualcuno finalmente rispose. Aveva una voce tremenda.

Elsa si presentò. Dovette ripetere più volte il suo nome, precisare chi era: la scuola, l’insegnante d’inglese, la gita, la bambina, eccetera. Tutto detto e ridetto, perché pareva che dall’altra parte avessero delle difficoltà a comprendere, a connettere, ad atterrare su questo pianeta. Alla fine riuscì a spiegarsi, ce la fece. Lui disse che era fuori città, impossibile rientrare quella sera. No, impossibile anche per sua moglie. Non sapeva dov’era – le disse proprio così – ma era certo che non sarebbe rientrata fino a domenica, forse lunedì. Queste informazioni, Elsa e l’uomo dall’altra parte dell’etere se le scambiarono in modo disordinato e scomposto, tra lunghe pause ed estenuanti ripetizioni, dovute esclusivamente a lui. Sembrava gli costasse una fatica enorme costruire frasi che avessero un principio e una fine o centrare il significato delle parole.    

“Non possiamo lasciare la bambina qui,” concluse Elsa. “Mi autorizza a tenerla con me, per questa notte? Può dormire a casa mia. Verrò domattina a riportargliela.”

Dall’altra parte, la risposta – biascicata con voce spaventosa – fu ancora in grado di sorprenderla: “No, non domattina,” disse l’uomo. “Non riesco a tornare prima di dopodomani a pranzo. Domenica. Me la riporti domenica pomeriggio, per favore.”

Elsa riattaccò. “Ubriaco,” sussurrò a Sara all’orecchio, perché Nina non sentisse. “Ubriaco fradicio. Non era quasi in grado di parlare.”

Lo sguardo le cadde su Nina, in piedi lì accanto. E comprese che la bambina aveva capito. Erano cose che sapeva.

Elsa tenne con sé Nina, per quel week-end. Aveva una figlia poco più grande, tredici anni, le mise a dormire insieme e il sabato le portò agli scavi di Ostia antica. Nel corso della gita, Elsa parlò a lungo con Nina. Lo fece prendendo le cose molto alla larga, con cautela, fermandosi tutte le volte che incontrava resistenza, o la chiara reticenza della bambina delineava i contorni di una zona oscura, da investigare. Allora faceva un passo indietro, divagava cercando di distrarla, provava ad aggirare gli ingenui ostacoli che Nina frapponeva fra se stessa e quell’insegnante ficcanaso verso la quale – Elsa lo intuì chiaramente – cominciava a nutrire un po’ di diffidenza. Perché m’avvicino a qualcosa, si disse Elsa, ormai ce l’ho. Il coacervo d’angoscia e paura repressa e sensi di colpa in attesa di decifrazione racchiuso dentro al corpo di quella bambina dolce e taciturna. Questo aveva intuito, questo l’aveva attratta fin dall’inizio verso di lei. Ora lo teneva, quel groppo, non l’avrebbe mollato.

Non riuscì a capire tutto, ma capì alcune cose. Quando toccava, con qualunque cautela, il tasto dei rapporti dei genitori tra loro, la bambina si chiudeva a riccio e mentiva spudoratamente, ostinatamente, pervicacemente. Quindi seppe lì c’era un problema. Inoltre seppe che la lasciavano spesso sola, per questa ragione le avevano dato le chiavi di casa. Questo Nina lo confessò candidamente, a lei parve normale. A undici anni, padre e madre andavano via per giorni interi, e la bambina s’arrangiava. Quando toccò, con estrema prudenza, il tasto di tutte quelle lesioni, ferite eccetera che troppo di frequente comparivano sul suo corpo, Nina oppose una resistenza accanita, negò l’evidenza, finse di non ricordare i numerosi infortuni sui quali, in passato, aveva fornito fantasiose spiegazioni, ebbe una crisi di pianto, le si rivoltò contro. Ed Elsa seppe d’aver toccato il cuore del problema: la picchiavano? Violenza domestica? La bambina veniva picchiata in casa, da uno dei genitori, forse da tutt’e due.

Non aveva prove, naturalmente.

Quando ne parlò al telefono con Sara, lei la mise in guardia.

“Non puoi farlo. Non puoi non riportare la bambina a casa, domani. E’ sottrazione di minore. Minimo perdi il posto. E ti becchi una denuncia.”

“La porto alla polizia, allora,” disse Elsa.

“Senti,” disse Sara. “Non ci sono gli estremi. Non hai nulla in mano. La bambina non ti ha detto niente. Sono solo tue illazioni. Forse sensate, ma illazioni. Se riesci a farla parlare, se te lo dice lei, registrala. Con quello ci puoi andare, alla polizia. Ma se non hai almeno la parola della bambina, non farlo. Tu domani la riporti a casa e la consegni al padre, come promesso. Lunedì a scuola ne parliamo con la preside e vediamo il da farsi.”

Fu più lunga di così, ma alla fine Elsa cedette. La domenica lasciò a casa la figlia e, visto che s’era in tema di visite archeologiche, s’allungò sola con Nina fino a Tivoli, a visitare Villa Adriana. Aveva bisogno di restare a tu per tu con lei per farla parlare. E man mano che ci provava, vedeva crescere nella bambina quel senso di diffidenza che a tratti si trasformava in ostilità, in rabbia repressa. Come s’avvicinava, facendo capziosi giri, a qualche rivelazione anche involontaria che sperava di carpirle, incorreva nella smemoratezza o nella collera di quell’astiosa undicenne, che difendeva testardamente il suo segreto familiare, incurante delle contraddizioni in cui cadeva, refrattaria a tutto ciò che Elsa provava a offrirle: lusinghe, circuizione, rassicurazioni, promesse. Niente da fare. “Diavolo di bambina,” si disse Elsa. “Mi resiste, piccola stupida, si difende con le unghie e coi denti…” se lo disse quasi con rabbia, a momenti le venne anche a lei l’impulso di… ma sperò che almeno quel suo scatto d’ira fosse sfuggito al penetrante intuito di quell’undicenne.

La domenica pomeriggio, sconfitta, riportò Nina a casa. Le aprì un uomo perfettamente sobrio, elegantemente vestito, cortese e piacente nell’aspetto e nei modi, che accolse la figlia con un abbraccio affettuoso, in cui nessun osservatore non prevenuto avrebbe potuto trovare qualcosa di insincero o sospetto. Invitò Elsa a prendere un caffè o una tazza di tè, con un savoir faire galante, insinuante, trattenuto appena entro i limiti della correttezza dalle maniere del perfetto gentleman. Elsa rifiutò. A malincuore, gli riconsegnò Nina.

Dormì male, quella notte. E lunedì mattina si presentò a scuola alla prima ora ben decisa a dar battaglia. A Sara, alla preside e a tutti loro.

Non ce ne fu bisogno. Quando videro arrivare Nina, mezz’ora dopo, all’ingresso delle classi, con un occhio pesto e la faccia gonfia, la preside fu la prima a chiamare i Carabinieri.  

Vennero gli assistenti sociali nominati dal Tribunale. Elsa rese una testimonianza dettagliata, cui s’aggiunsero quelle di Sara, di Giuseppe, della preside e di altri insegnanti. Tutti gli episodi noti degli ultimi mesi furono messi in fila e passati al setaccio. I genitori furono convocati dal magistrato, ammoniti, diffidati dal lasciar sola la bambina per giorni interi, minacciati di conseguenze molto più gravi se fosse ancora incorsa in inspiegabili incidenti domestici. Ma nessuno, né Carabinieri né magistrato né psicologi, riuscì a estorcere loro o alla piccola l’ammissione che vi fossero mai state delle percosse. Il giudice dispose che la famiglia fosse assoggettata a ispezioni periodiche da parte degli assistenti sociali. Ma tutto finì lì.

O avrebbe dovuto finire lì. Non c’era ragione che le cose prendessero una piega diversa. E in effetti, per qualche tempo corsero tranquillamente lungo i binari che quelle blande misure di protezione avevano fissato. La bambina andava a scuola, un po’ socializzava coi compagni di classe, pareva come sempre equilibrata, studiosa, ancorché timida e taciturna. Un solo vistoso cambiamento comparve in lei: l’avversione per Elsa. Il suo profitto in inglese precipitò. Andava bene in tutte le altre materie, fuorché nella sua. Durante le lezioni, la fissava con uno sguardo dolce e vuoto, rispondeva a monosillabi e si comportava come un manichino. Completamente assente.

Fu concordato in consiglio di classe di lasciar correre per un po’. Dar tempo a Nina di superare quella fase, riassorbire il trauma di quella domenica a Villa Adriana e del suo seguito di perizie e colloqui con assistenti e psicologi. Elsa fu blandamente redarguita dalla preside, s’era spinta troppo oltre, ecco, vedeva lei stessa i risultati… Ma non fu questo a irritarla. Dovette ammettere che il vero risentimento lo provava per Nina, quel diavolo di bambina. “Stupida bugiarda,” seguitava a dirsi. “Io volevo aiutarti.” Naturalmente si guardò bene dal lasciar trasparire qualcosa, in classe.

A parte questi sviluppi, non vi furono altre crisi né comparvero sul corpo di Nina lesioni sospette. Tutto sembrava rientrato nell’ordine. Assistenti sociali e psicologi fecero le loro ispezioni, non riscontrarono nulla di anormale, niente che non andasse. I genitori di Nina collaborarono, parvero anche loro aver attraversato, e forse superato, qualche crisi interna che lasciarono solo intuire e su cui non furono tenuti a fornir ragguagli. Erano ad ogni riguardo, a quanto risultava alle autorità, una coppia perbene e persino di un certa agiatezza, casa di proprietà, un lavoro stabile per tutt’e due, assolutamente nessun precedente, eccetera eccetera.

Era ormai quasi estate, fine dell’anno scolastico. Un venerdì in cui non era di turno a scuola, Elsa ricevette la telefonata di Sara: “E’ al Pertini,” le disse. “Trauma cranico.”

Si precipitò all’ospedale. Quando raggiunse il reparto, l’uomo non c’era più. L’avevano portato via quelli in divisa. Elsa poté parlare con uno dei medici. Nina era in rianimazione, avevano dovuto operare. Il trauma aveva prodotto un’emorragia interna ed era stato necessario intervenire per rimuovere l’ematoma. Ora era in coma farmacologico. Fuori pericolo, ma non si poteva escludere che vi fossero danni al cervello. Nell’asportare l’ematoma, una parte di materia era venuta via. Solo quando la piccola fosse uscita dal coma si sarebbe potuto capire. Almeno quarantott’ore, forse di più.

Il medico non disse altro. Deontologia professionale, ma anche segreto istruttorio: c’era un’indagine in corso, il padre di Nina era in stato di fermo. Le infermiere furono più loquaci: le raccontarono l’arrivo dell’uomo con la bambina in braccio, già priva di sensi, l’intervento d’urgenza. La storia poco convincente che aveva raccontato. E quei segni eloquenti sul corpo della bambina. Era scattata la denuncia. Dopo che i Carabinieri l’ebbero portato via, era arrivata la moglie, la madre di Nina. Era lì, in ospedale, le infermiere gliela indicarono. Mentre scorgeva la donna, al capo opposto dell’ampia e fredda sala d’attesa, Elsa ebbe un pensiero per Nina. Le rivolse un rimprovero: “Nina, Nina… perché non hai parlato? Bastava che tu dicessi quattro parole: ‘Mi picchiano a casa’. Tutto questo poteva essere evitato.”

Glielo rivolse con un misto di commozione e rabbia. Poi fissò lo sguardo nella direzione verso cui puntava il dito dell’infermiera, su quella donna di mezz’età accasciata su una sedia. Parlava al telefono e aveva una faccia distrutta. Con fatica e dopo qualche istante di messa a fuoco, la riconobbe. Pareva vent’anni più vecchia della signora elegante e fatua che aveva incontrato quel giorno a scuola. Le avevano messo addosso un camice di tela grezza di diverse misure più largo, una cuffia calzata male, i piedi erano infagottati in soprascarpe di plastica. Dall’orecchio le pendeva una mascherina. Dovevano averla vestita per la sala rianimazione. Elsa ebbe l’impulso di andare a parlarle, chiederle di Nina. Ma in quel momento la donna interruppe la telefonata, alzò lo sguardo, e quel che Elsa vide la dissuase. Non era, no, quel goffo travestimento da infermiera a farla vent’anni più vecchia. Era effettivamente cambiata. Accartocciata su quella sedia, gli occhi vuoti, c’era una trentenne improvvisamente decrepita, ed Elsa n’ebbe compassione. Non se la sentì di dirle nulla.

Non l’avvicinò neppure quando, pochi minuti dopo, vennero a prenderla i Carabinieri. Portarono via anche lei.

  1. Continua

Le fotografie sono di Maria Luisa Paolillo

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