Gabriella Sica
Fernanda Romagnoli, un ricordo, una raccolta

«L’animo del poeta: un espatriato!»

A quasi quarant’anni dalla morte, Interno Poesia pubblica un’ampia scelta della poetessa romana che ebbe come nume tutelare Emily Dickinson ma che, “famelica di poesia”, si nutriva di tutto il portato novecentesco, da Pascoli a Betocchi

La figura che incontro leggendo le poesie di Fernanda Romagnoli è quella della prigioniera o della reclusa che scrive con un gessetto sui muri o con il carbone su un pezzo di carta messaggi cifrati per essere intercettata e salvata, quasi fosse a corto di penna o di tempo, quasi fosse sull’orlo di un naufragio e lanciasse una bottiglia in mare riempita dei suoi versi sconosciuti al mondo, segreti cifrati nella speranza di essere riconosciuta e salvata. Provo così con questa immagine dell’esclusa a identificare l’empito potente e originale della poesia di Romagnoli che la critica, a sua volta, ha provato a interpretare e piegare in più forme, cangianti e sfuggenti. Si fa fatica a trovare il bandolo di una matassa così gonfia e intrecciata. Li scrive con cura meticolosa quei messaggi, e così ricava dalla ben temprata riserva interiore stupefacenti e magnifici congegni: «Io nel buio, in catene, a un palmo / da voi di distanza, sul muro / graffio questa riga contorta». Non restano che versi come inedite crittografie, messaggi e messaggini criptici, offerti al mondo con i segni dell’anomalia umana, con un moto per niente rasserenante e anzi puntigliosamente perturbante, quasi infliggendo all’altro-interlocutore-lettore una sfida o una protesta per l’irreparabile condizione umana di tutti, ma più peculiare a volte per le donne. Senza fare sconti, con spirito severo, luterano e poco accomodante. E intanto «Al nuovissimo viaggio ci si avvia / come coscritti». L’angoscia sale quando «la mia gabbia d’uccelli ammutolisce».

A una prima lettura non si capisce da dove nasca la sua poesia ma già in questi pochi versi risuonano echi novecenteschi, montaliani e sabiani. Di indubbia e precoce vocazione, maestra di composizione diplomata al Conservatorio di Santa Cecilia, per il resto autodidatta tra studi magistrali discontinui e grandi letture di poesia, Romagnoli con un temperamento e una forza creativa notevole si avventura per la strada rischiosa della poesia. E fa quello che le piace fare, con piglio caparbio e con una fantasia visionaria e diamantina come pochi altri. Tutto il portato novecentesco della poesia, da Pascoli a Montale, da Betocchi a Bertolucci (che si fanno custodi strenui della sua poesia) e anche da Gatto a Penna, da Valeri a Caproni, da Sereni a Pasolini, scivola nelle sue vene fameliche di poesia. Li legge, li assorbe, ma la stella polare che traccia il solco della sua poesia è Emily Dickinson. A lei si conforma nei temi, nell’animazione di frutti e oggetti casalinghi, nella speciale intimità con la natura, nelle soluzioni grafiche a cominciare dai trattini, nell’oscillamento tra il presente e l’eterno, tra la casa e il cosmo, tra l’istante e l’assoluto.

Se stessi scrivendo ora Emily e le altre, Fernanda Romagnoli figurerebbe come una delle interpreti liriche più incisive ed efficaci di Dickinson, tra le eredi che poterono leggerla nel dopoguerra incluse nel mio libro, quelle che ricercavano una tradizione letteraria di genere. Carlo Betocchi ci informa con precisione (sul n. 3 di “Forum italico”, 1972) che Romagnoli «legge avidamente Dickinson». Fernanda, quasi rispondendo a Emily, aveva scelto il momento in cui «l’Anima sceglie i suoi Compagni – / poi – chiude la Porta». Del resto questa è l’epigrafe di Berretto rosso del 1965 (il secondo dei quattro libri pubblicati): «Love is anterior life / posterior death…», dove compaiono tre stemmi della poesia di Romagnoli: amore prima di tutto, e poi vita e morte. E, sottointesa, la poesia e il corpo vivente del poeta che dialoga, prega, chiama, cerca, invoca. E scrive al lettore, sempre austera, e lo informa: «L’animo del poeta: un espatriato! / Un erede di ghetti dati al fuoco! / Non ha foglio di profugo». C’è un’oltranza nella nudità della sua poesia, a volte senza misericordia, senza pietà, e anche senza i conforti della religione, per usare un titolo morantiano. Spietata nello scrivere poesie dure e trionfanti all’ombra del tragico. Le sue poesie somigliano a spille preziose e al tempo stesso sono semplici come i coltelli a scatto, dove il congegno è tutto fisico e non emotivo. E qui mi ricorda anche Marianne Moore.

Quando scrive questi versi laconici e irradianti Romagnoli non è tanto lontana dal pensare quello che la pur lontanissima Amelia Rosselli, in un’intervista che le feci nel giugno 1977, dichiara senza mezzi termini: «La poesia oggi non ha un ruolo, è un piacere strettamente privato». E se traballa il ruolo della famiglia tutto crolla: «Eppure siamo qui / – noi, tre, famiglia, segreto sodalizio di teatranti –», e ancora: «A dirmi madre provo, a dirmi sposa. / Solo parole, leste a fuggir via». Si sente a disagio nella relazione coniugale, sopraffatta dalle regole dell’irremovibile patriarcato: «sempre seconda, il rischio / più suo, soltanto sua però la vetta». La diseguaglianza di genere, non più risolta nell’amore, si consuma sull’orlo del naufragio. E se la poesia non ha ruolo pubblico tantomeno lo avrà una donna che si cimenta con la poesia, in anni in cui le antologie non ospitano quasi mai donne. E allora la parte di chi sta in disparte si fa insostenibile, si arroventa, magari si sdoppia tra figura e fantasma, come nella straordinaria poesia Il tredicesimo invitato, eponima del quarto libro pubblicato in vita nel 1980, presso Garzanti: «Grazie – ma qui che aspetto? / Io qui non mi trovo. Io tra voi / sto come il tredicesimo invitato, / per cui viene aggiunto un panchetto / e mangia nel piatto scompagnato».

Quando uscì Il tredicesimo invitato qualcuno si chinò su quel libro strano. Dario Bellezza si chiede fin dal titolo della recensione: Esiste o no questa Romagnoli grande poetessa misteriosa? Anche Bianca Maria Frabotta si china a decifrare la maglia della poesia di una donna sconosciuta a tutti noi. A distanza di un quarantennio, Andrea Cati come editore di Interno Poesia ha meritoriamente pubblicato un’ampia scelta delle sue poesie, con la collaborazione della figlia Caterina Raganella. E Paolo Lagazzi, grande conoscitore di Romagnoli fin dai tempi delle sue frequentazioni con Bertolucci, fa della sua poesia una splendida ed espansiva lettura isolando per il titolo un verso, La folle tentazione dell’eterno, in cui la prigioniera è una santa, non importa se laica o cristiana, che prega per tutto il male che subisce il corpo, proprio e dell’altro. Laura Toppan e Ambra Zorat, autrici appassionate di studi romagnoliani in Francia, documentati dalla pubblicazione del n. 161 di “Nuova corrente”, 2018, curano la nota filologica conclusiva. 

Concludo questo mio scritto con una invocazione ai critici, agli editori e agli eredi perché venga alla luce il magnifico e corposo epistolario (in gran parte con Attilio Bertolucci e Carlo Betocchi) in cui Fernanda si confida e divaga con un diverso tono, leggero e scanzonato, decisamente più ironico e orizzontale, rispetto alle poesie sempre verticali. Sarebbe una rivelazione della sua figura letteraria inserita nel mondo che si era scelta.

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