Andrea Manzi
L’“Album di famiglia” di Ernesto Ferrero

Il Tutto nelle parole

L’autore evoca in un libro, l’epoca di forte intensità spirituale alla base del lavoro culturale e della produzione letteraria da lui vissuta all’Einaudi. Accanto a scrittori-maestri che erano tali senza averne l’aria, attenti all’opera e non alla fama

Il titolo del nuovo libro di Ernesto Ferrero, Album di famiglia – Maestri del Novecento ritratti dal vivo (Einaudi), può trarre in inganno e far pensare a una teoria di medaglioni – seppur disposti secondo un minuzioso ordine affettivo-professionale: Cari agli deiCompagni di bancoMattatoriI padri nobili e così via – sui personaggi più autorevoli della nostra letteratura, frequentati e vissuti da vicino dall’autore in sessanta anni di intensa attività editoriale. Nulla di tutto questo, nemmeno l’ombra dell’album di figurine dei volti nobili disposti a futura memoria. Ferrero propone un acuto e organico racconto di una irripetibile pagina letteraria, conduce il lettore in una grande famiglia allargata e ne fa annusare gli umori di gruppo coeso, attraverso una narrazione coinvolgente che dà vita a un “coro”, a un sapiente meccanismo di dialogo, all’allestimento di una rete che fu ed è tuttora bussola di orientamento lungo le strade della cultura e della civiltà novecentesca e repubblicana del nostro paese. 

L’Album dello scrittore torinese è un romanzo che recupera un clima di forti passioni e di largo impegno e lo restituisce ai lettori nella sua integra densità: nel testo non vi è interlocuzione diretta con i protagonisti, le pagine appaiono scritte quasi da un “testimone secondario”, da un osservatore fedele concentrato sulla fenomenologia di quei giorni lontani; e ciò nonostante i lunghi anni vissuti da Ferrero al fianco dei protagonisti, cooperando e interagendo con essi, condividendone orizzonti letterari e grandi passioni civili e, soprattutto, l’umanità di quegli autori che sapevano puntare al futuro perché in grado di guardarsi alle spalle. La voglia di futuro, d’altronde, presuppone (e produce) l’ansia della costruzione e, sin dall’ingresso nel 1963 di Ferrero nel laboratorio della Einaudi, tale ansia si insinuava in quella comunità di lavoro e ne delineava l’impegno che emergeva da un progetto forte, costruito sulla grande responsabilità per la scrittura, vera protagonista di questo romanzo-affresco. 

La lettura produce forti emozioni proprio per il contrasto tra la tensione verso nuovi destini, che fu la grande molla intellettuale del secondo Novecento, e il nostro presente sfarinato, nel quale le stramberie contano più delle opere e i mascheramenti producono insulsi culti del personaggio. I maestri raccontati e rivisitati nel privato delle loro emozioni erano invece altamente responsabili delle parole, utilizzate con garbata perizia e con una cura maniacale del dettaglio simile a quella dell’orologiaio. Ferrero ricorda l’ossessiva puntualità di Lalla Romano nella stesura dei testi, le interminabili correzioni di bozze di Elsa Morante, che rimase un mese a Torino per vivisezionare la sua Storia. Erano personaggi che lavoravano con il gusto delle quotidiane scoperte e il brivido della condivisione. Non chiedevano nulla, sarebbero diventati miti, ma erano avvolti da una semplicità disarmante. Sembrava gente arrivata alla Einaudi da una provincia remota, carica di una sensibilità imbevuta di umori radicati e sinceri. 

Ferrero entra nella redazione della casa editrice torinese nel 1963, l’anno della grande sbornia editoriale: nel volgere di qualche mese guadagnano gli scaffali La tregua, il libro-memoria di Primo Levi, Lessico famigliare, il grande affresco autobiografico di Natalia Ginzburg, poi tradotto finanche in ebraico, cinese e coreano, Lo scialle andaluso di Elsa Morante, che racconta il contrasto tra la leggenda della vita e il chiaroscuro della coscienza inquieta. E fu anche l’anno di Gadda con La cognizione del dolore, romanzo scritto tra il 1938 e il 1941, poi interrotto a causa della guerra, e pubblicato (incompiuto) da Einaudi in quello stesso 1963, l’anno del fervore produttivo. Ferrero ne ricorda la primavera dolorosa: a febbraio era stato ucciso dal cancro, a soli quarant’anni, Beppe Fenoglio. Calvino pochi giorni prima entrò in redazione con passo lento e gli occhi rigati dal pianto, il suo amico stava morendo. Si viveva così, palpitando per il destino dell’altro. Erano uomini e donne vitalissimi, segnati però da una fragilità affettiva perniciosa e cagionevole. Sguardo critico teso sul mondo e occhi del cuore gettati all’interno delle loro figure malinconiche e talvolta precocemente pensose. In quel gruppo, però, batteva un solo cuore. Sembra di vederlo, timido e impacciato, Primo Levi, con le sue considerazioni sul male stampate sul volto. Il male, sembra dirci lo scrittore dell’Olocausto, se entra nel mondo penetra negli uomini e nella storia e diventa inestirpabile. Una tristezza, la sua, che non gli impedì mai la disponibilità quasi naturale all’ascolto, oltre che al racconto. 

Sono quadri vivi di esistenze emerse da una tradizione che l’autore rende attiva, operante e non per niente Ferrero ricorda Gustav Mahler, per il quale la tradizione non è adorazione delle ceneri ma custodia del fuoco, recupero di quella forte intensità spirituale alla base del lavoro culturale e della produzione letteraria. È una famiglia, questa, nella quale il lettore entra agevolmente e senza avvertire disagio, nella quale contava l’opera non il personaggio, un’area quasi domestica popolata di maestri che erano tali senza averne l’aria.

Ernesto Ferrero

I protagonisti visti e raccontati da distanza ravvicinata – spesso addirittura “con-fusi” con il narratore, che ne ha condiviso idee e progetti – sono dunque tanti, tutti uniti dalla passione civile e dalla responsabilità di essere al servizio del pubblico. Si rivedono così, nella fabbrica dei loro desideri e scontenti, delle loro energie e cupezze, da Calvino e Levi (I prediletti) a Einaudi, Calasso, Boringhieri, Foà e Garzanti (I capostipiti); da Pavese, Montale, Bobbio, Rigoni Stern (I padri nobili) a Cases e Pontiggia (Gli zii sapienti); da Natalia Ginzburg, Elsa Morante e Lalla Romano (Le signore di ferro), a Rodari e Fruttero & Lucentini (Maghi e funamboli); da Fenoglio, Del Giudice (Cari agli dei) a Parise, Del Buono, Sciascia, Celati (Gli inquieti); da Nico Orengo e altri (Compagni di banco) a Guttuso, Pasolini, Garboli ed Eco (Mattatori). Vite inimitabili e talvolta confliggenti, ma sempre disponibili ai confronti anche aspri. Confronti e scontri che alimentavano una produttività sincronica, favorita da una probità artigianale e dal coraggio delle idee, oltre che da un rigore etico e filologico sconosciuto nel tempo attuale. D’altra parte, Einaudi (e non solo lui) temeva sia l’unanimità che la rigidità gerarchica, auspicava lo scambio quotidiano, anche duro, come sale della democrazia. Lo stile einaudiano aborriva la retorica manieristica e le gravi “colpe” che il grande editore doveva escludere per adottare uno scrittore nel suo gruppo erano sostanzialmente tre: essere noioso, burocrate o erudito. Amava lo stile asciutto e auspicava che nella stesura delle opere si procedesse per sottrazione.

Un libro, questo di Ferrero, che ci restituisce protagonisti della letteratura intenti a riaccendere entusiasmi attraverso i loro libri ai quali attribuirono una missione civile. D’altra parte, i libri sono oggetti perfetti, sosteneva Eco, ma oggi non sempre è così. Se c’è talento si va subito in produzione, gli scrittori sono sempre trafelati, è cambiata per loro la misura del tempo, lo spazio di riflessione cede il posto alla concitazione, al dovere dello sprint. Ne consegue una restrizione del lessico e una speculare banalizzazione della scrittura che, secondo Ferrero, se la passa malissimo in questo periodo. Invece, è proprio nella scrittura che si rivelano le autobiografie, i loro profili più autentici ed espressivi, come dimostrano le vite degli autori selezionati in questo coinvolgente Album. Vite dedicate al totalizzante e responsabile impegno di scrivere storie e parole dense e impeccabili, nelle quali alla fine si nasconde il “tutto”, cioè quel “senso oceanico” del quale parlava Levi quando qualcuno gli chiedeva se fosse o meno un credente. 

Nella foto vicino al titolo, Giulio Einaudi e Natalia Ginzburg

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