Loretto Rafanelli
Il Ceppo a Ljudmyla Djadčenko /2

Difendere la libertà con la nuda parola

«L’anima è in grado di vedere la bellezza, anche in mezzo all’oscurità e al dolore». Questo afferma la poetessa ucraina in una lettera che chiude la sua raccolta “La fobia dei numeri”. Poesia, per lei, è «l’espressione di come si viene colpiti dal dolore»

La giovane poetessa ucraina Ljudmyla Djadčenko è una presenza importante e riconosciuta nel vasto orizzonte della poesia internazionale, una poetessa dal timbro personale e forte, con alle spalle premi e inviti a numerosi eventi in tutto il mondo. La sua parola oggi è però attraversata da una afasia mortale, i suoi versi sono come seppelliti dentro a un enorme bunker, dove l’unico ritmo non è quello delle sue parole ma il precipitare delle bombe. E stiamo parlando di un 24 di febbraio che non possiamo dimenticare: l’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina, a un paese sovrano, che viveva il suo tempo col susseguirsi dei mille semplici atti di tutti i giorni. Abbiamo presente invece quello che oggi si staglia nel panorama di quella terra: devastazione e morte ovunque. E ciò è un dolore immenso per una tragedia che non possiamo accettare. Pensiamo che questo 24 febbraio non possa passare inosservato e pensiamo anche che bene ha fatto il Premio Ceppo Internazionale di Poesia “Piero Bigongiari”, ad attribuire il Premio Ceppo per la Pace e la Poesia a Ljudmyla Djadčenko, premiazione che avviene proprio il 24 febbraio a Firenze presso il Consiglio Regionale. Nell’occasione verrà presentato il libro antologico della poetessa ucraina, La fobia dei numeri (edito da Interno poesia, per la cura attenta e preziosa di Paolo Galvagni). 

La scelta di premiare la Djadčenko si può ritenere un atto di solidarietà e di amore verso un popolo martoriato, un popolo eroico, un popolo fiero della propria cultura, della propria storia. Crediamo che il Premio Ceppo, e il suo presidente Paolo Fabrizio Iacuzzi, scelta migliore non potessero fare. Perché oltre che voler ribadire, con il riconoscimento a una voce dell’Ucraina, ciò che ci appare chiarissimo, la condanna a una aggressione, vi è il senso di una resistenza alla brutalità della guerra, nel solco dell’insegnamento dantesco, attraverso la poesia. Forse una resistenza esigua per i più, ma che invece a noi sembra forte e emozionante proprio perché i versi sono di una poetessa, la Djadčenko, che emerge come un fiore straordinario nell’ambito della scrittura di quella parte d’Europa. 

L’antologia in oggetto della Djadčenko raggruppa poesie antecedenti l’invasione russa, una selezione in cui emerge una visione della poesia che emoziona e in qualche modo ci introduce in uno scenario labirintico, fatto di passaggi segreti, di ritmi, di pause, di cesure, di accenti, di mille intricate aperture. Una grammatica personale che affiora e si sviluppa con sottile tensione. E in una bella nota iniziale, la poetessa sintetizza bene il suo approfondito e colto pensare: «Nei miei versi volevo energia inquieta e disagio, quindi l’elemento distruttivo divenne dominante, e così frammentai la forma poetica a tutti i livelli: sintattico, ritmico, lessicale». A differenza di un balbettare teorico che emerge in molte giovani voci, nella Djadčenko emerge una consapevolezza che fortifica un percorso di scrittura in cui la personalità della poetessa diviene oltremodo evidente, come si evince dalla poesia che dà il titolo alla raccolta. 

Nella corposa nota la Djadčenko illustra il proprio percorso fin dai passi iniziali compiuti in una zona periferica dell’Ucraina, lo stesso villaggio dove nacque il più famoso poeta ucraino e creatore della nazione ucraina, Taras Ševčenko, da lei venerato, per quanto non seguito nella sua impostazione romantica. Tuttavia, ciò che colpisce di questa nota, preparata appositamente per la consegna del premio (e in parte riprodotta nell’articolo qui pubblicato a firma della Djadčenko, ndr), è che la Djadčenko non parla della guerra, non parla della terribile vita che vive il popolo ucraino oggi, parla di poesia, della propria e non solo. Come a dire, la mia resistenza è fatta solo con la nuda parola, che diviene il sentimento della libertà, dell’amore. Per la Djadčenko «la poesia non è il racconto di una storia, è l’espressione di come si viene colpiti dal dolore», ciò che dirà forse nel futuro, se quella stessa parola saprà superare il terrore, la paura, la morte fissata negli occhi di un intero popolo e che a lei impedisce oggi di scrivere. Ecco, la Djadčenko, crede «che la poesia sia un essere spirituale, nella quale si deve crescere nella vita di tutti i giorni». E parafrasando Wilde, afferma che il motto della propria vita sia «la poesia dovrebbe iniziare il giorno in cui si nasce e non finire il giorno in cui si muore». Questo motto a cui la poetessa ucraina si affida, diviene come un manifesto di vita, in difesa della bellezza, contro la violenza delle cieche armate che invadono la sua terra.

Vogliamo infine pubblicare una breve lettera inserita nel finale del libro, che dice molto della guerra e dice molto di questa straordinaria figura che è la Djadčenko, una poetessa che vive la poesia come un atto essenziale, come un atto forte di vita.

La lettera
di Ljudmyla Djadčenko

Il mio bisnonno venne ucciso durante la Seconda guerra mondiale. Le mie bisnonne sono nate durante la Prima guerra mondiale e hanno vissuto attraverso due carestie, tra cui la terribile Holodomor del 1932-33. Le mie nonne e i miei nonni erano tutti figli della guerra e mio padre ha combattuto in Afghanistan. Quanto dolore! È per questo motivo che ho sempre evitato i temi sociali nella mia poesia. Dall’inizio dell’invasione militare su larga scala da parte della Russia sul territorio della mia Madrepatria, lo scorso anno, ho smesso di scrivere poesie: immagini e metafore mi sono apparse all’improvviso insulse e false, e i miei sentimenti sono spariti, per via della terribile realtà che mi circondava. Considero volgare scrivere di guerra durante la guerra; sarebbe come scrivere di preghiere mentre si prega, o scrivere d’amore mentre si fa l’amore, anche se farei un’eccezione per quei poeti che quella guerra la combattono in prima linea. All’inizio ho provato paura, impotenza e disperazione. E dolore totale: per il mio popolo, che viene colpito dal nemico, e per la mia terra e le mie città, che vengono distrutte dalle bombe russe. Ma dopo un paio di mesi mi sono resa conto di provare solo disgusto per gli occupanti. Parlo di disgusto, perché l’odio è un sentimento troppo forte, e i russi non sono degni di sentimenti forti. Un mio amico, Denys Antipov, con cui ho lavorato all’Università Taras Ševčenko, è morto al fronte. Il saluto finale che mi ha rivolto nella sua ultima lettera è stato: «Abbi solo cura di te». Ho accolto quell’esortazione come un dovere verso me stessa: mi sono imposta di vestirmi bene, di leggere e di scrivere, anche se non è stato facile. Dopo tutto, la cosa più importante era mettere in salvo questa donna, me stessa, che non era ancora in grado di distinguere la differenza tra il rumore dei razzi e quello dei caccia bombardieri. Adesso mi rendono felice le cose quotidiane. Provo nostalgia dei giorni in cui tutti i miei amici erano vivi, quando c’erano luce e acqua, prima di trascorrere metà delle mie giornate in uno scantinato, nascondendomi dai missili. E quando scrivo una poesia, adesso, piango come una bambina, perché mi accorgo che l’anima è in grado di vedere la bellezza, anche in mezzo all’oscurità e al dolore.

Si ringrazia rawpixel.com per la concessione dell’immagine pubblicata vicino al titolo

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