Roberta Passeghe
A proposito de “La guerra di Pasca”

Il giallo di Berlinguer

Romanzo storico, memoriale, avventura di formazione, giallo: tutto questo è il nuovo libro di Cosimo Filigheddu. Il giovane Enrico Berlinguer si muove alla ricerca di una ragazza "sparita" dopo aver vissuto un'esperienza terribile

A voler giocare di fantasia con personaggi e eventi storici, si corre spesso il rischio di qualche involontario strafalcione (la narrativa contemporanea, anche premiata, ne offre degli esempi). Certo, la sfida ha notoriamente allettato molti, e se si ha un po’ di familiarità con le patrie lettere niente di tutto ciò suonerà nuovo. È per questo che forse si apprezza persino di più la seconda uscita in libreria di Cosimo Filigheddu, che, con La guerra di Pasca (Il Maestrale, 320 pagine, 20 euro), dimostra di essere pienamente all’altezza del compito.

Non sorprende che nel contesto italiano il delicato momento di passaggio dal Fascismo alla Repubblica sia ancora materia cui attingere, ma quello che invece sì, sorprende, in questo dinamico romanzo corale, è la capacità dell’autore di mettere insieme generi diversi (dal giallo al romanzo storico a quello, in qualche modo più remoto, di formazione) e, partendo da basi di apparente prevedibilità, raccontare qualcosa di inaspettato. È chiaro che non si deve dimenticare il peso che hanno creazione e ingegno quando si elabora un’opera di finzione che, per quanto legata a una realtà verosimile, resta comunque frutto dell’inventiva di chi scrive; Filigheddu si direbbe perfettamente consapevole di questo, mostrando totale dimestichezza nel fondere il piano di una guerra di Stato con quello di una guerra privata che attira a sé, facendoli collaborare, attori inimmaginabili.

Così nella Sassari post 8 settembre (il cambio di casacca) si intrecciano le vicende di Enrico Berlinguer, che sarà noto esponente del PCI, di Antonio Pigliaru, giurista in formazione e militante del GUF, della famiglia Misuraca, appartenente alla borghesia fascista, e dell’adolescente Pasca, orfana e aspirante maestra che si sostenta lavorando come donna di servizio. Saranno proprio quest’ultima e la sua scomparsa a fare da espediente per favorire la cooperazione tra la famiglia Misuraca e i giovanissimi Berlinguer e Pigliaru, cooperazione ben difficile da ipotizzare se si ragionasse nei termini della verità storica.

Una delle abilità dell’autore sta proprio nell’aver saputo rendere credibile, in particolare, una comunione tra i due ragazzi che, uniti nell’apprensione per Pasca, indagano sulle ragioni della sua sparizione. Questo escamotage dà luogo a una serie di scambi da cui trapela un complesso di riflessioni su un centro di provincia pre e post fascista, ma non solo: sullo sfondo di un’atmosfera plumbea e a tratti grottesca (si pensi all’ospedale martoriato e ormai privo di mezzi in cui collaborano, tra il serio e il faceto, un eccellente chirurgo e una suora sulla via dell’alcolismo), e al contempo dolorante e commovente (l’affetto dei coniugi Misuraca per Pasca, che nel garantirle aiuto e supporto grazie ai loro mezzi fanno emergere la miseria in cui versa la città), sembrano muoversi le tessere che regolano il destino di tutta una nazione. Infatti, attratte dall’affaire Pasca, arrivano anche le forze dell’ordine che non mancano di far intuire a chi legge un sottotesto più intricato. La ragazza, vittima di uno stupro da parte di un sergente maggiore americano certo di essere nel suo buon diritto, e sicura di averlo ucciso con uno sparo, convoglia su di sé un’attenzione quasi morbosa facendo apparire il suo ritrovamento una questione altamente prioritaria.

            Se fino qui si è dato spazio alla trama, un punto di interesse non secondario sono le soluzioni stilistiche che Filigheddu adotta. In primis, è notevole la resa convincente della parlata locale, che non cede a inflessioni troppo marcate (rispettando, del resto, la natura colta di quasi tutti i parlanti) pur mantenendo dei connotati distintivi (il dottore mio; e dalli; non me ne venite qua a fare gli screanzati). Allo stesso modo, sono credibili gli scambi in italish (da non confondersi con l’italenglish), lingua un po’ stentata di chi cerca di esprimersi in italiano essendo madrelingua inglese e viceversa, come il sarcastico very smart, il tuo bosso. Lo stile è ottimamente calibrato nei momenti più toccanti, dove cedere al patetismo sarebbe stato molto facile. È invece questo senso della misura che fa sì che anche i passaggi più delicati e emotivamente densi arrivino al lettore nel pieno della loro forza (Leggere era una conquista di cui lei godeva come di una leccornia che non puoi permetterti quotidianamente; Eugenia, invece, l’unica dei tre che non sapeva di filosofia e di conseguenza conosceva le oscure vie che l’amore ogni tanto percorre, quando si accorse che le sue lacrime calme scolorivano l’inchiostro, chiuse il diario con una carezza), contribuendo a creare un ambiente magari a volte cupo, ma che conserva una generale vivacità incalzante. Il ritmo è, così, ben scandito e dà a chi legge la percezione di stare conducendo le indagini in prima persona.

            Un ultimo importante merito di questo lavoro è l’aver posto al centro di un contesto più ampio le vicende umane e individuali dei protagonisti, scardinando la dicotomia buoni/cattivi e facendo trapelare sfumature non sempre evidenti in quelle che sembrano verità fissate e non contestabili. Un romanzo che dunque tra passaggi scanzonati e momenti di profonda tenerezza, itinerari alla scoperta di Sassari e prospettive più ampie sull’Italia tutta, invita a una riflessione estesa sulla Storia.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini

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