Marilou Rella
Al Teatro Puccini di Firenze

La porta del mondo

Il nuovo spettacolo di Antonio Rezza e Flavia Mastella, "Hybris", è una variazione intorno a una porta che apre e chiude l'umanità. Ma non si capisce mai se ne siamo dentro o fuori...

Il sipario è aperto, cala il buio sul palco, ma una luce calda lo illumina, sdraiato in una tomba, in un abbigliamento variopinto e fluorescente, al suono di un canto difonico tuvano, lui stesso canta e farnetica, da morto, e tribola… Le parole si inerpicano, lui a tratti solleva il busto gesticolando animosamente, per chiedere: “perché non me lo avevate detto”, “perché non lo avete detto direttamente a me”, e di nuovo si sdraia, supino, ma irrequieto. La musica incalza, la voce si arrovella, ma ormai non c’è più ragione di polemizzare. Non c’è più modo di comunicare. “E allora vabbè!” è l’esclamazione che esorcizza.

Al Teatro Puccini di Firenze è andato in scena il nuovo spettacolo di Antonio Rezza e Flavia Mastrella, dal titolo altisonante e minaccioso: Hybris. Termine di conio del pensiero antico, topos della tragedia greca, indicante la tracotanza dell’essere umano, per sua natura incline a ribellarsi contro l’ordine delle cose, umane e divine, destinato immancabilmente ad essere punito e vendicato dall’ira dagli dèi. Il “peccato di hybris” è un tema di antica memoria, ma oggi più che mai attuale se lo si applica alla lettura della catastrofe ecologica, di cui l’uomo è fautore e tuttora promotore, e alla tracotanza del mito tecnologico come soluzione di tutti i mali, che invece pare diretto verso una “soluzione finale”, quella dell’uomo sul pianeta. 

Ma nello spettacolo di Rezza-Mastrella non c’è accento su una riflessione di tipo religioso, è piuttosto una questione ontologica aggredita da una poetica dissacrante, irrituale e irriverente, che dirige lo sguardo, invece, verso l’umanità più umana, o meglio, “umana, troppo umana”. Sul palco salgono e vengono incoronate la miseria umana e la “meschinità dello stare”, in uno spazio labile e precario. La parola disarticolata, ossessivamente reiterata e sarcastica di Rezza, protagonista della pièce, è pietra esistenziale, da scagliare contro. È la parola dell’individuo gettato nel mondo, condannato a vivere nello spazio, uno spazio da condividere con gli altri – più croce che delizia – costretto nel grottesco ménage delle dinamiche amicali e familiari, in spazi fisici e mentali claustrofobici e morbosi, obnubilato dalla confusione delle voci, disorientato nel vuoto della solitudine, in preda ad una crisi parossistica.

Al centro della scena c’è una porta, metafora della vita, dell’io e dell’alterità, del “noi” e del “voi”, oggetto di una feroce e spietata selezione, quella di colui che decide chi entra e chi esce, come dichiarato dallo stesso Rezza: “Pistola in mano a un pistolero che è al tempo stesso padrone di casa che sta dentro, o padrone del mondo che sta fuori”. Una porta come elemento drammaturgico essenziale, che lui sposta vigorosamente e che fragorosamente trascina, sbatte e spalanca, invitando e respingendo, nella cornice sfuggente di un’ambiguità di fondo sul chi sia realmente dentro e chi invece fuori, nell’atmosfera di incertezza del percepirsi maggiormente a proprio agio dentro o fuori uno spazio troppo grande o troppo piccolo nelle sue molteplici interpretazioni e distinzioni: sia uno spazio angusto che permette di apprezzare l’ampiezza del fuori, sia uno spazio fin troppo grande da ridurre il vantaggio e il beneficio del poterne uscire fuori. Fuori dallo spazio comunitario, fuori dalla festa, o fuori di testa.

Gli altri attori assistono increduli o passivi, vittime della tirannia del tiranno e della vita, spazio di difficile definizione, di impossibile delimitazione perché unicamente individuabile nella dimensione di “essere e tempo”. Lo spettacolo si conclude su un sacrificio umano, gli attori cadono ad uno ad uno, a suon di colpi e imprecazioni provenienti da un fischietto reboante. Sta qui la ferocia del teatro di Rezza-Mastrella, l’ironia corrosiva del loro messaggio che non offre conforto, se non quello della catarsi del teatro: si ride a crepapelle illudendoci di ridere della meschinità altrui, pensando che sia posizionata ben oltre la nostra personale soglia. Ma quella soglia si sposta, soverchiando continuamente e inevitabilmente anche noi. C’è il rischio che sia una soglia che squarta, facendo a brandelli, o peggio, affacciandosi vertiginosamente sul nulla. Infatti, “la porta ha perso la stanza e il suo significato, apre sul nulla e chiude sul nulla. (…) Dovremmo imparare a bussare ogni volta che usciamo, perché fuori ci sono tutti, l’esterno è proprietà riservata, condominio esistenziale, casa aperta. (…) La famiglia la sera chiude fuori tutta l’umanità, che senso ha accogliere il diverso quando ogni notte ci barrichiamo dichiarando l’invalicabilità della nostra dimora? Infimi governanti delle pareti domestiche, come le bestie. L’uomo diventa circense, domatore della proprietà privata”.

È uno spettacolo tanto amaro e angosciante, quanto elettrizzante, di un’ironia sferzante che forse apre un solo varco, quello che affaccia sullo spazio magico della nostra (umana) mente. Tanto avvinghiata quanto intrinsecamente libera, misteriosamente inafferrabile e, se si vuole, foriera di una potenza anarchica, capace di aprire porte anziché chiuderle. O di sbatterle tanto forte da farle rimbalzare, aprendo di nuovo un varco, all’infinita-mente.


La foto accanto al titolo è tratta dal sito www. rezzamastella.com ed è di Annalisa Gonella

Facebooktwitterlinkedin