Gianni Cerasuolo
Alla ricerca della verità

Mistero Pasolini

Incontro con David Grieco, che chiede di riaprire il processo per l'omicidio: «Io so, ma non ho le prove... Pasolini stava lavorando sull'Eni, sugli intrighi di potere della Dc, su quella che poi si scoprì essere la P2, e voleva girare un film da “Todo Modo” di Sciascia. Il furto delle pizze di “Salò” fu solo un trucco per attirarlo nella trappola dell'Idroscalo...»

Tra i misteri brutti dell’Italia, che poi misteri non sono, ce n’è uno – il caso Pasolini – che è rimasto sotto la polvere per decenni, quasi dimenticato. Come Pasolini stesso, poi riabilitato fino al punto che lo si cita o lo si invoca («chissà che cosa avrebbe detto Pasolini») specie quando si parla di consumismo. Il frocio, il pederasta, l’aggressore del pudore di tanto tempo fa, quello processato trentatré volte e trentatré volte assolto, è diventato via via un fine letterato, un profeta che aveva previsto molte cose di questi nostri tempi magri e tremendi ma totalmente cambiati rispetto ai suoi. Mille sono state le iniziative nel 2022 per il centenario della nascita. Poche si sono soffermate su quel delitto feroce e con un solo colpevole: Pino Pelosi, morto nel luglio del 2017 a causa di un tumore.

Però due fatti nuovi sono accaduti nelle ultime settimane dell’anno appena passato.

Il primo: mentre indagava su altre cose, la commissione Antimafia ha riconosciuto che il delitto si possa ricondurre al furto delle pizze del film Salò o le 120 giornate di Sodoma e che nell’omicidio possano essere stati coinvolti esponenti della malavita romana. In sostanza, un invito alla magistratura a riaprire il caso.

Il secondo: David Grieco ha scritto una lettera aperta a Ninetto Davoli. Grieco, 71 anni, amico fraterno di Pasolini, ma anche suo collaboratore su vari set, è regista e scrittore a sua volta (sull’omicidio ha pubblicato nel 2015 un libro La macchinazione che l’anno dopo ha trasformato in un film con protagonista Massimo Ranieri), è giornalista formatosi a l’Unità tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta (ed è lì che io lo conobbi). Una lettera aperta, uscita su Globalist, in cui Grieco chiede a Davoli di dire quello che sa sulla fine di Pasolini e che si è tenuto dentro in tutti questi anni, in particolare il rapporto tra Pasolini e Pelosi, l’omicida. Ninetto, Sergio e Franco Citti, costituivano la «famiglia borgatara» di Pier Paolo.

Ma procediamo con ordine e facciamo molti passi indietro, avendo da voi, spero, comprensione ed interesse a leggere questa lunga storia.

Pier Paolo Pasolini fu assassinato nella notte tra il primo e il 2 novembre 1975 in un campetto all’Idroscalo di Ostia. Aveva 53 anni e 8 mesi. L’autore del delitto venne individuato in Giuseppe Pelosi detto Pino la Rana, romano, nato il 28 giugno 1958, quindi ancora minorenne all’epoca dei fatti, indicato come uno dei tanti “marchettari” che battevano le strade attorno alla stazione Termini a quei tempi, subito etichettato come “un ragazzo di vita”. Pelosi confessò che Pasolini lo aveva caricato in macchina quella sera per portarlo all’Idroscalo dopo una breve sosta in una trattoria. Una volta arrivati ad Ostia, Pasolini lo avrebbe aggredito dopo che lui aveva rifiutato le avances sessuali dello scrittore. C’era stata una colluttazione, una furiosa lotta tra i due, Pasolini aveva avuto la peggio e lui, terrorizzato, aveva preso la macchina dello scrittore, un’Alfa Gt, ed era scappato via passando, senza accorgersene, sopra il corpo di quell’uomo. Un uomo che lui non aveva mai visto prima di quella sera fatale, continuò a dire il giovane. Ai poliziotti raccontò anche di non aver avuto complici: aveva fatto tutto da solo in quello spiazzo di terreno arido.

Foto di Carlo Bavagnoli

Il 26 aprile 1976, a quasi sei mesi dal delitto, Pino Pelosi venne condannato a 9 anni, 7 mesi e 10 giorni, riconosciuto colpevole di omicidio volontario in concorso con ignoti dal tribunale dei minori presieduto da Alfredo Carlo Moro, fratello di Aldo, lo statista democristiano ucciso due anni dopo dalle Brigate Rosse.

I giudici di prima istanza sottolinearono che Pino la Rana aveva avuto dei complici: «… Ritiene il collegio che dagli atti emerga in modo imponente la prova che quella notte all’Idroscalo il Pelosi non era solo… Sulla base dei numerosi elementi di prova raccolti deve pertanto ritenersi non attendibile la versione dei fatti prospettata dall’imputato, e invece accertato che il Pasolini subì un’aggressione da parte di più persone restate sconosciute, e che lo stesso Pasolini, dopo essere stato ridotto all’impotenza, fu volontariamente ucciso mediante il sormontamento da parte della sua stessa macchina… Potrebbe astrattamente ritenersi, una volta accolta la tesi della presenza di altre persone all’Idroscalo, che il Pelosi sia restato estraneo al delitto, semplice spettatore di una drammatica scena in cui altri soli erano i protagonisti» è scritto in quella prima sentenza. Una motivazione chiara e una indicazione: guardate che c’è ancora da indagare per dare un volto ai complici di Pelosi, che addirittura potrebbe non aver partecipato a quell’uccisione selvaggia.

Invece poco dopo, dicembre 1976, la corte di appello, presieduta dal giudice Ferdinando Zucconi Galli Fonseca, in quattro giorni ribadì che Pino Pelosi era colpevole di omicidio volontario e che doveva farsi anni di carcere ma, ecco il colpo di scena, disse anche che il giovane aveva agito da solo, non aveva avuto complici: i pochi indizi che dimostravano la presenza di altre persone furono spazzati via. I famosi “ignoti” furono cancellati. La Cassazione confermò la seconda sentenza.

Dunque Pasolini fu ucciso da Pino Pelosi e basta. Questa rimane la verità ufficiale su quel delitto di quasi mezzo secolo fa, la narrazione che ha attraversato generazioni: Pasolini morì nel corso di un incontro sessuale occasionale, vittima del suo vizio di omosessuale, in quella che proprio Ninetto Davoli definì «una serata sbagliata». Ogni tentativo di far riaprire l’inchiesta è andato fallito: quattro volte c’è stata la richiesta, quattro volte i magistrati hanno detto “no”. L’ultima nel maggio del 2015.

Nessuno della cerchia di amici di Pasolini – e non solo loro – ha mai creduto alla versione ufficiale: Pelosi era soltanto un capro espiatorio. Oggi sono rimasti davvero in pochi a credere che Pino la Rana avesse agito da solo quella notte. Mancava un movente convincente e ci furono grossolane lacune nelle indagini: testimoni non ascoltati (come i baraccati dell’Idroscalo che vennero sentiti invece poche ore dopo l’omicidio da giornalisti famosi come Oriana Fallaci e Furio Colombo ai quali raccontarono che c’erano più persone a massacrare quella povera vittima), scena del crimine inquinata (si giocava anche a pallone sul terreno dove da una parte giaceva il corpo straziato dello scrittore), esami del Dna non eseguiti o fatti male, forse depistaggi, certamente superficialità, dando credibilità, ad esempio, a pregiudicati e personaggi del sottobosco della mala romana. La conclusione giudiziaria ufficiale è sempre apparsa poggiare più sulle abitudini sessuali di Pasolini che sui fatti e le prove.

Per non parlare delle ritrattazioni di Pelosi – tra tante contraddizioni – che nel maggio 2005 andò a dire in tv che si era autoaccusato perché era stato minacciato di morte. Che già conosceva Pasolini. Che c’erano due macchine quella notte. Che era lì, ad Ostia, per le bobine del film trafugate alla Technicolor.

Nel corso degli anni, inoltre, sono apparse sempre più marcate le tracce del passaggio nella storia del delitto di personaggi inquietanti. Come i due fratelli Borsellino, giovanissimi all’epoca, chiamati anche “i fratelli Braciola”, fascisti iscritti al Msi, tirati in ballo da un carabiniere infiltrato tra i balordi di Casal Bruciato all’epoca del primo processo. Il maresciallo Renzo Sansone riferì che uno dei due, Giuseppe, gli confidò di aver preso parte con l’altro fratello, Franco, all’uccisione dello scrittore. Con loro anche un giovane che si faceva già chiamare Johnny lo Zingaro, vale a dire Giuseppe Mastini, il criminale condannato all’ergastolo. Ma i fratelli Borsellino smentirono il maresciallo e vennero creduti. Qualche altro soggetto è scomparso misteriosamente: come Antonio Pinna, autista del clan dei Marsigliesi, che si vantava di fornire informazioni delicate allo scrittore e che forse partecipò alla mattanza all’Idroscalo. Aveva un’Alfa simile a quella di Pasolini.  

Il Pasolini dell’ultimo periodo si era esposto con in suoi articoli sul Corriere della Sera (quelli racchiusi poi in Scritti corsari) alla vigilia della sua morte. «Io so… Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969… Io so i nomi del gruppo di potenti… Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi» scrisse sul quotidiano milanese il 14 novembre del 1974 in quell’articolo conosciuto come “Il romanzo delle stragi”. Soltanto qualche mese prima dell’agguato, nel settembre del 1975, Pasolini accusò ancora: voleva “processare” la Dc senza risparmiare anche gli altri partiti, Pci compreso. Durissimo in altri articoli o in interventi televisivi sulla degenerazione antropologica derivata dal consumismo.

Si sapeva, inoltre, che stava lavorando in silenzio, in una drammatica solitudine, ad un libro che metteva sotto accusa un potere politico ed economico oscuro, una organizzazione criminale e affaristica, qualcosa di molto simile a quello che avremmo conosciuto in seguito come la Loggia massonica P2 di Licio Gelli. Un lavoro enorme nato anche dalla lettura di un libro esplosivo, fatto sparire dalla circolazione ma che lui aveva ritrovato, dal titolo Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente a firma Giorgio Steimetz, un falso nome usato per prudenza da qualcuno che lavorava forse dentro l’Eni. Pasolini riuscì ad imbastire una serie di appunti, che leggemmo a fatica anni dopo in Petrolio: quei fogli sparpagliati in cui Eugenio Cefis, il potente presidente dell’Eni, veniva chiamato con efficace immaginazione Troya («Il sorriso di Troya è invece un sorriso di complicità, quasi ammiccante: è decisamente un sorriso colpevole») ed Enrico Mattei diventava Ernesto Bonocore. Materiale incandescente, un insieme di morti sospette attorno al petrolio.  

* * *

Che cosa ha chiesto nella lettera aperta David Grieco a Ninetto Davoli? Scrive Grieco che quella: «…serata è passata alla Storia come la tragica disavventura di un frocio che se l’era andata a cercare. Questa versione dei fatti, del resto – continua rivolgendosi all’interprete di tanti film di Pasolini – l’hai accreditata tu meglio di chiunque altro quando ti accompagnarono all’Idroscalo per riconoscere il cadavere di Pier Paolo. «È stata una serata sbagliata”, affermasti. E queste cinque parole rappresentano ancora l’epigrafe del Delitto Pasolini. Eppure se c’era una persona che non doveva pronunciare quelle parole eri proprio tu. Perché tu conoscevi Pino Pelosi e sapevi che da mesi aveva una relazione con Pier Paolo. Lo sapevi tu come lo sapevano Sergio Citti, Nico Naldini, Franco Citti e chissà quanti altri. Sergio Citti mi raccontò, dieci anni dopo la morte di Pier Paolo purtroppo, che un giorno tu andasti persino a trovare Pelosi… Perché non hai detto che conoscevi Pelosi, Ninetto? Ti rendi conto che differenza avrebbe fatto? Riesci a immaginare che indirizzo avrebbero preso le indagini e il processo? Capisci che questa affermazione da parte tua sarebbe stata la prova regina che Pasolini e Pelosi non erano andati fino all’Idroscalo per consumare un rapporto sessuale? Riesci a intuire che il castello di menzogne precostituito dai suoi assassini sarebbe crollato?…». E più avanti gli chiede anche: «Come facevi a sapere già che Pier Paolo era morto, Ninetto? Chi è stato ad avvisarti? A che ora ti hanno chiamato?».

David Grieco

Chissà se Davoli fornirà mai delle risposte a Grieco e a tutti quelli che attendono di sapere.

Io, invece, chiedo a David Grieco mentre prendiamo un caffè in un bar di Roma: perché hai tirato fuori solo adesso questa storia? Quali sono i motivi?

«Questa cosa l’ho detta – risponde – dopo quasi quarant’anni, al culmine di un anno intero, il 2022, dedicato a Pasolini. Un anno in cui ho fatto centinaia di incontri sulla Macchinazione, il libro e il film su Pier Paolo. Pian piano mi sono reso conto che tanti, soprattutto giovani, cominciavano ad interessarsi a Pasolini. Questa cosa è cresciuta via via fino al programma di Giancarlo De Cataldo (Il caso Pasolini una delle puntate di Cronache Criminali, visibile su RaiPlay ndr). Mi sono reso conto che forse quello che sapevo era utile. Che Ninetto fosse al corrente del rapporto tra Pasolini e Pelosi è una cosa che so da anni, da quando me la disse Sergio Citti, rompendo un muro di pietosa omertà, ed ho scritto anche che Ninetto ha incontrato Pelosi ben prima di quella sera e gli ha detto “attento a come ti comporti con il nostro amico…”. Ne ho parlato ora perché sento che c’è un clima diverso attorno al delitto. Tanto è vero che abbiamo la velleità, io e l’avvocato Stefano Maccioni, che si è occupato a lungo della questione, di far riaprire il caso. Caso che si è riaperto nel 2009 e purtroppo è stato richiuso nel 2015 da un magistrato, Francesco Minisci della procura di Roma, che è lo stesso da cui andremo. Un motivo è questo.

«L’altro motivo è quello di chiarire tante cose. In quella lettera aperta a Ninetto Davoli io intanto gli dico: ma perché non hai detto a chi indagava che sapevi che Pier Paolo e Pelosi si frequentavano? Se l’avessi fatto, sarebbe cambiato tutto. Detto questo, non lo sapeva soltanto lui: lo sapevano i fratelli Citti, lo sapeva Laura Betti, lo sapeva il cugino di Pasolini, Nico Naldini, e chissà quanti altri. Non ha parlato assolutamente nessuno».

Belli amici, verrebbe da dire. Sembra come un progressivo abbandono, un lasciar andare Pier Paolo, una pietosa omertà, appunto, come quella di Sergio Citti. Stiamo parlando anche di personaggi che non ci sono più…

«L’hanno tradito tutti: la verità è poi questa. Perché l’hanno fatto? Io penso che Ninetto lo ha fatto per paura dell’omosessualità di Pasolini…»

Che cosa vuoi dire?

«Ninetto è ancora oggi il compagno di Pasolini. Nonostante Ninetto sia sposato da tanti anni con Patrizia, abbia due figli… Io credo che questa cosa abbia pesato molto su Ninetto come il fatto che tutti dessero per scontato che Ninetto andasse a letto con Pasolini».

Poi c’è stata l’Antimafia…

«Fatalità ha voluto, ma nessuno ci crede, che io scrivo la lettera aperta a Ninetto su Globalist, e tre giorni dopo appare la decisione dell’Antimafia che è del tutto casuale, perché l’Antimafia sta indagando su tutt’altre cose e inciampa sul delitto Pasolini. Inciampa soprattutto in Maurizio Abbatino (uno dei boss della banda della Magliana, poi pentito ndr) che dice di aver partecipato al furto delle pizze di Salò. Abbatino lo si vede anche in delle foto scattate la mattina del delitto all’Idroscalo. Lui nega che possa essere lui nelle foto e non dice tante altre cose. Ma racconta anche che c’era una mandante del furto delle bobine di Salò, che era tale Franco Conte, biscazziere della Magliana, dove Abbatino vide due o tre volte la macchina di Pasolini, un’Alfa Gt identica alla sua, ma tenuta meglio. Pensò anche di rubarla e Conte gli disse di lasciar perdere. Perché Pasolini era lì? Non era uno che frequentava bische. Evidentemente andava lì per contrattare la restituzione delle pizze del film».

“Salo o le 120 giornate di Sodoma”

Ma Pasolini non aveva rimediato in qualche modo, tecnicamente, al furto delle pizze? Salò poteva uscire comunque…

«Sì, è vero,  ma lui voleva i negativi originali perché c’era un epilogo a cui teneva molto. Poi ha rinunciato al finale ed ha fatto una chiusura con i due ragazzini repubblichini che ballano mentre la conclusione era un grande ballo con tutta la troupe dentro, c’era anche lui con il costume di scena. Tutto questo stava dentro il negativo rubato. Dopo la richiesta dei 2 miliardi, ci ripensano, gli dicono “ti restituiamo le pizze”, lo dicono anche a Sergio Citti. Forse Pier Paolo la prese anche come una forma di rispetto malavitoso. In realtà lo risucchiano a poco a poco nella trappola. Lui lì è solo, non c’è Citti non c’è Ninetto, tantomeno io. Però c’è Pelosi. Se tu prendi il libro che ha scritto Pelosi (Io so… come hanno ucciso Pasolini, ndr) che è un libro veritiero ma reticente, dice che si mise in mezzo lui per concordare la restituzione di queste pizze in cambio di una somma bassissima, 3 milioni di lire. Tra l’altro sono i 3 milioni di lire che Pasolini si fa dare dalla Pea, la casa di produzione cinematografica, il venerdì prima di essere ucciso».

Però pure tu sapevi da tanti anni…

«Si, sapevo ma non sapevo a chi dirlo. O meglio, delle bobine rubate Sergio Citti ne parlò con la polizia, ma non se lo filarono per nulla. Sergio fece un filmato, lo facemmo insieme, nel quale si dimostrava che la macchina che passò sul corpo di Pasolini urtò un palo di cemento e lo buttò giù. L’Alfa di Pasolini invece non aveva un bozzo, i segni di urti o altro. Anche questo filmato Citti lo ha presentato alla polizia ma nessuno l’ha preso in considerazione. E poi c’è stato l’oblio. Io e Sergio lavoravamo insieme, ne parlavamo spesso ma poi non abbiamo fatto nulla».

La tua tesi è sconvolgente: quello di Pasolini fu un delitto politico premeditato con figure di possibili mandanti che ritroviamo ad uno ad uno negli anni più bui di questo paese. Una organizzazione che agisce dalla strage di Piazza Fontana e arriva fino a Moro. Ma così non si dà ragione a chi ironizza sul complottismo e nega altre verità sul delitto all’Idroscalo?

«È bellissima questa domanda che mi fai. Sembra il romanzo delle stragi che fa Pasolini in quell’articolo sul Corriere: io so ma non ho le prove. Se pensi a quello che scriveva, non è una ipotesi stravagante. Poi c’era timore di quel libro su Cefis. Tutti sapevano quello che stava facendo. Ti rivelo una cosa poco nota. A Pasolini si attribuiscono vari progetti prima che morisse. C’è chi dice che avesse in mente di fare un film, Pornoteokolossal, con protagonisti ancora Totò e Ninetto, c’è chi sostiene che volesse girare un San Paolo, un lavoro che ha sempre rinviato, una specie di G.Mastorna di Pasolini, come il film ideato e mai realizzato da Fellini. In realtà, lui voleva fare Todo Modo di Sciascia e lo dimostra il fatto che nel recensire i libri per Tempo Illustrato esamina il testo di Sciascia dichiarando di condividere in pieno le idee dello scrittore siciliano: è il libro che avrei voluto scrivere io. E fa aprire un fascicolo alla Pea intitolato Todo modo. Era il gennaio del 1975. Chi fece il film poi? Lo fece Elio Petri. E Petri chi mette nei panni dell’assassino di Moro? Ci mette Franco Citti, quasi a voler portare avanti discorso di Pasolini. Fatalità, Petri previde la morte di Moro prima che avvenisse. Il cinema poi serve anche a questo, serve a vedere le cose prima, quando ci riesci».

Va bene, ma chi ha ammazzato Pasolini e perché?

«Secondo me il movente è questo: Pasolini aveva saputo troppe cose, stava tirando i fili di qualcosa che solo lui conosceva e che solo lui poteva mettere insieme. Questa è la mia sensazione. Sai, anche io posso dire come Pier Paolo: io so ma no ho le prove. Chi l’ha ammazzato materialmente? Alcuni di quelli che poi si conosceremo come membri della banda della Magliana, ad esempio. Anche se quando parli della banda della Magliana ci sono i “puristi” della banda, giornalisti ma anche altri, che si incazzano perché dicono che quel gruppo di criminali nemmeno era nato al tempo del delitto, una cosa che mi fa girare i coglioni, come se la banda della Magliana fosse un brand che depositi dal notaio. Insomma parliamo di quelli lì, diciamo malavita organizzata, e alcuni fascisti. Perché sono arrivato fino a Moro? Perché quando tu metti insieme questa miscela di tanti fattacci della nostra storia è difficile capire chi poi dà gli ordini. Nel senso che non c’è qualcuno che ha premuto il bottone, c’è qualcosa che è cresciuto pian piano in pericolosità, poi ci sarà stato chi è stato più zelante del dovuto. Certamente, sul delitto Pasolini si è innestato subito un clima di omertà, di false piste, fin dalla mattina dell’omicidio, fin da come il fatto è stato ricostruito dai Tg con la famosa signora Lollobrigida che dice: “Erano le 6,30 del mattino, ho visto questa cosa, me pareva un mucchio de’ stracci, poi mi sono avvicinata: no, questo è un uomo, allora ho detto a mi’ marito e che famo qua? Va a chiamà la polizia”. Non può essere così. La polizia, i carabinieri stavano lì da ore. Ci sono tante testimonianze. Che Pasolini fosse morto lo sapevano dalle 2 e mezza di quella notte. E infatti presumo che è da loro che Ninetto Davoli l’ha scoperto e lo ha detto per primo a Graziella Chiarcossi, la cugina di Pier Paolo che viveva con lui, in una drammatica telefonata di notte prima che la notizia della morte si diffondesse. Molte ricostruzioni giornalistiche erano fasulle, alcuni direttori risultarono poi negli elenchi della P2». 

Ci sono stati tre gradi di giudizio, poi la bocciatura della richiesta di riapertura delle indagini: non basta tutto questo a considerare chiuso il caso?

«Tutti giudizi rapidissimi. Nel giro di un anno e mezzo l’iter giudiziario sulla morte di Pasolini si è concluso. Abbiamo però commesso un errore, esperti ed amici. Quando dico noi intendo l’avvocato Guido Calvi, il medico legale Faustino Durante, Alberto Moravia e mi ci metto anche io. Che cosa abbiamo fatto? Quando fu il momento delle arringhe nel giudizio di primo grado, Guido Calvi chiese l’assoluzione di Pelosi per non aver commesso il fatto sottolineandone la reticenza. Solo che, avendo chiesto l’assoluzione, la parte civile non si può più ripresentare. Quello fu un errore perché altrimenti nel processo di appello la parte civile sarebbe stata presente».

Sta di fatto che a maggio 2015 viene respinta l’ultima richiesta di nuove indagini.

«Nonostante l’avvocato Maccioni abbia trovato tre Dna su indumenti di Pasolini che non sono né quelli dello scrittore né quelli di Pelosi».

Forse il delitto Pasolini resterà un giallo senza soluzione. O meglio, dove la verità rimane quella decretata da tribunali e sentenze. Pensare a trame e complotti per chiudere la bocca ad una delle figure migliori del nostro Novecento è, secondo molti, un esercizio inutile e velleitario. Però vale la pena tentare di capire e non rassegnarsi anche a distanza di tanto tempo. Lo dobbiamo a Pasolini.


Le fotografie di Pier Paolo Pasolini sono tratte dalla mostra “Tutto è santo” al Palazzo delle Esposizioni di Roma

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