Sergio Buttiglieri
Al Maggio Musicale Fiorentino

Verdi e il potere

Va in scena una nuova edizione per il "Don Carlo" di Giuseppe Verdi con la direzione di Daniele Gatti, la regia di Roberto Andò e un cast stellare. Un magnifico apologo sulla forza distruttiva del potere

«In quell’enorme zanzariera che è la valle del Po fra Parma e Mantova, doveva nascere il genio di Giuseppe Verdi , e Parma diventare la roccaforte dei verdiani». Scriveva Bruno Barilli nel suo indimenticabile libro Il Paese del Melodramma. L’altra sera rivedendo il Don Carlo del 1887 al Teatro del Maggio Musicale di Firenze, nella versione italiana ridotta a quattro atti, che il compositore riadattò dopo la Prima in cinque atti all’Opéra di Parigi del 1867, in cui non riscosse un unanime successo, ci siamo ritrovati nella sua inimitabile magia operistica, da alcuni critici tacciata di “wagnerismo” per il troppo protagonismo dell’orchestra. Anche se gl’insegnanti del Conservatorio di Milano dissero a suo tempo che egli non aveva attitudini per la musica e ch’egli non possedeva nessuna abilità; e non aveva che del genio: troppo poco per dei professori e dei critici che a lungo avevano criticato questo Don Carlo trattato con uno sbrigativo senso di insofferenza rispetto a quella incondizionata esaltazione dell’ultimo Verdi, quello che secondo loro “aveva imparato il mestiere”.

«Il suo alito ha un sano odore di cipolla e la sua voce è imperiosa, i suoi istinti pieni di veemenza primitiva. E questo a molti disturbava». Perché, ci ricordava sempre Barilli, l’arte di Verdi è tutta sovvertimento, deformazione, caricatura sublime, e mette a fuoco i quattro canti della terra. 

Con la impeccabile conduzione di Daniele Gatti, direttore apertamente innamorato di quest’opera ricca di contrasti drammaturgici fra il concetto di potere e l’aspetto più intimo dei personaggi, Verdi ha nuovamente incantato tutti gli spettatori. Grazie anche alla regia calibratissima di Roberto Andò che da sempre spazia con successo fra il cinema e il teatro, e alle scene di Gianni Carluccio che ci fa vivere la vicenda in una sorta di architettura neo-razionalista con iconiche colonne tortili tranciate a mezz’aria, quasi a simbolo di una vicenda che non ha tregua se non con la rottura degli equilibri dinastici, e con alberi dalle nude fronde, senza ipotesi di rinascita, sospesi nell’aria tenebrosa. Insomma, come ha detto il sovrintendente del Maggio Alexander Pereira, siamo di fronte a uno dei massimi capolavori verdiani.  

Ma soprattutto ha colpito la presenza di cast di alto livello a cominciare dal tenore Francesco Meli, il tenore italiano per eccellenza, che dà vita al protagonista,  l’infante Don Carlo, innamorato perso della sua matrigna Elisabetta di Valois, interpretata magnificamente da Eleonora Buratto, che ha da poco debuttato con successo nello stesso ruolo anche al Metropolitan di New York, andata in sposa all’antipatico Filippo II, personaggio di estrema complessità, autentico protagonista dell’opera, che esprime la sua personalità attraverso un libero declamato, duttilissimo a seguire i moti dell’animo eppure mai povero di sostanza melodica. Portato egregiamente in scena dal basso Mikhail Petrenko, uno dei bassi più apprezzati al mondo, che non accetta l’amore incestuoso del figlio. Regnante che per tutto il tempo rimarrà immerso in un mare di malinconica solitudine. Celebre la sua frase: «Col sangue sol potei aver la pace del mondo».

Per non parlare del Rodrigo, Marchese di Posa, interpretato con grande efficacia dal baritono Roman Burdengo, figura chiave, quasi un eroe, per sensibilizzare Don Carlo a ridare dignità al popolo oppresso da Filippo II della Fiandra. E che alla fine del terzo atto disarma l’incauto Don Carlo, insorto contro il sovrano in una esasperata quanto inane crisi di nervi. Mentre Ekaterina Semenchuck innamorata persa di Don Carlo non si rassegna al non essere corrisposta e ne combina di tutti i colori per attrarne l’attenzione a scapito anche della dignità dell’infante. Lei, secondo un divertente commento di Eugenio Montale, «canta come canterebbe la cornice di una specchiera seicentesca se l’opera di un orafo potesse aver voce». Altra figura inquietante quanto potente è il tonante inquisitore fatto rivivere da Alexander Vinogradov. Emblematica figura della vicenda verdiana ambientata in Spagna, tratta da Schiller, con il libretto scritto da François-Joseph Méry e Camille du Locle, di raccordo tra il potere temporale e quello divino. Il Don Carlo in fondo è la rappresentazione della tragedia del potere, un potere visto nella sua inadeguatezza umana e politica. Verdi in questo dramma ci propone un pessimismo tragico nelle relazioni che circondano il potere e ne sviscera le recondite sfumature oscillanti tra storia e intimità, avvolti nel dubbio. Persino Eugenio Montale riteneva che in quest’opera il cigno di Busseto avesse trovato un colore nuovo, la carie nera e profonda della controriforma e le circonvoluzioni e i festoni del grande barocco.


Le fotografie sono di Michele Monasta – Maggio Musicale Fiorentino

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