Flavio Fusi
Cronache infedeli

Fragile Sudamerica

Le proteste in Cile, la violenza in Colombia, il caos in Perù, la forza eversiva della nuova destra brasiliana: che succede in Sudamerica? Parlare di "democrazie fragili" non ha più molto senso: la crisi della democrazia spazia da Nord a Sud, ormai

Dice Don Luìs che lo sciopero dei camionisti contro il nuovo governo di Santiago è una tonteria, una sciocchezza. Don Luìs – ottantaquattro anni fragili e vigorosi – è parroco di 240 anime disperse nelle campagne laboriose della penisola di Rilàn: estremo braccio dell’isola di Chiloè al fin del mundo della Patagonia cilena. In questo mezzogiorno, il sole dell’estate australe piove dagli ampi finestroni della chiesa di legno dipinta di bianco e azzurro e il silenzio   è segnato solo dal fluire dei ricordi dell’anziano sacerdote, che abbracciò la sua vocazione ai tempi remoti del pontefice Paolo Sesto. “Tonteria”, ripete, “eppure abbiamo ora in Cile un presidente giovane, un uomo di buona volontà…”

Non la pensano davvero così padroni e padroncini di autoarticolati, autobus, camion, minibus e colectivos che bloccano il traffico pochi chilometri ad est, appena il tempo di scendere dal traghetto e metter piede sulla terraferma cilena. Ecco il paro: lo sciopero, ecco la tonteria: per ore la polizia vigila indolente, gli autisti agitano cartelli e striscioni contro il governo, gli automobilisti in coda imprecano a bassa voce.  

Alle nostre latitudini si tratterebbe di una normale espressione del conflitto democratico, se non fosse che in Cile tutto questo assume un aspro sapore di incombente tragedia. Nel lontano 1973 fu infatti lo sciopero dei camionisti a far precipitare la crisi cilena fino al colpo di stato dell’11 settembre, l’assassinio di Allende e la lunga dittatura dei generali. E queste file di colossi in sosta forzata bloccano l’accesso proprio qui, nello svincolo autostradale di Puerto Montt, che fu città simbolo dell’occupazione delle terre, cantata nelle indimenticabili strofe di Victor Jara. 

Lo sciopero dei camionisti in Cile

Richiami storici e nostalgie movimentiste a parte, lo stato di agitazione e gli scioperi che agitano da mesi il paese andino segnalano una fase di grave debolezza per il giovane presidente Manuel Boric e per la sua compagine di governo di centro-sinistra, arrivata al potere solo tre anni fa sull’onda delle imponenti manifestazioni di piazza che hanno cambiato il profilo politico e sociale del moderno Cile.

Ha influito e in un certo senso cambiato il vento politico il grave passo falso del progetto di una nuova Costituzione che dovrà – dovrebbe – sostituire l’antica Carta dettata dal dittatore Pinochet. La proposta redatta dall’assemblea costituente – un testo monstre di 387 articoli –  è sembrata più un vacuo esercizio di radicalità, un volenteroso e ingenuo manifesto politico della sinistra social-eco-indigenista, ed è stata fatalmente respinta dal referendum popolare, con oltre il 61 per cento dei No. Un bagno di realtà naturalmente cavalcato dalla destra politica, che oggi appare in ripresa e che conta molto sull’agitazione sociale degli scioperi in corso.

La strada delle nuove esperienze democratiche nel continente latinoamericano appare dunque tutta in salita, a partire dalla variegata coalizione Apruebo dignidad del centro-sinistra cileno, fino alla scommessa ambiziosa messa in campo dal nuovo governo del giovane presidente colombiano Gustavo Petro. A Bogotà, più che a Santiago, il nuovo clima politico progressista rischia di essere divorato da un tenebroso “passato che non passa”. Qui il nemico giurato è ancora la violencia, lo stato quotidiano di guerriglia endemica, traffico di droghe e di armi, scontro tra eserciti irregolari che da mezzo secolo tiene in ostaggio intere regioni del grande paese di Gabriel Garcia Marquez.

L’ultimo colpo alle speranze di tregua è un comunicato di pochi giorni fa, con cui l’Esercito di liberazione nazionale (Eln) ha smentito di aver firmato il cessate il fuoco bilaterale già annunciato dal governo di Bogotà. I colloqui di pace sono dunque di nuovo a rischio, e l’anno nuovo si apre con la morte di almeno undici persone in uno scontro a fuoco tra guerriglieri dell’Eln e dissidenti delle Farc, nel dipartimento di Arauca. Oggi la Colombia è un paese lacerato e bifronte, tra la   straordinaria vivacità e modernità delle metropoli strappate al ricatto della violenza (Medellin su tutte) e il cuore di tenebra di intere regioni ancora ostaggio della narco-guerriglia. 

Ma oggi e ormai da mesi, il centro del ciclone latino-americano rovescia violenza e incertezza soprattutto tra Lima e le regioni andine del Perù. Un presidente tragicamente inadeguato, golpista per disperazione e infine arrestato, una sanguinosa resa dei conti tra governo e parlamento, un nuovo presidente provvisorio, manifestazioni violente e violentissima repressione, il Paese ancora una volta spaccato tra la metropoli bianca e le “terre del finimondo”: i freddi altopiani della miseria india, la massa sfruttata e vessata dei popoli originari.

Proteste in Perù. Foto Ansa

Il moderno Perù vive questo stato di eccezione ormai da anni, e gli avvenimenti di oggi sono gli ultimi frutti avvelenati di una storia avvelenata. Tutto qui sembra già scritto fin dagli anni Trenta, nelle parole profetiche di Carlos Mariàtegui, il Gramsci peruviano: «nell’America spagnola, ancora semifeudale, la borghesia non ha voluto né saputo compiere l’opera di liquidazione del feudalesimo. Discendente dei colonizzatori, le è stato impossibile impadronirsi delle rivendicazioni della massa contadina». Mariàtegui sognava un futuro socialista, ma a questa rivoluzione incompiuta la storia del Perù ha invece risposto con uno stato permanente di guerra sociale ed economica tra due rivali di identica ottusità: da una parte i padroni della terra, delle risorse, dell’economia e del sapere, dall’altra il vuoto e tragico rivoluzionarismo indigenista.

Anche questa volta – agli albori del terzo millennio – finirà come immaginò Manuel Scorza nel libro che chiude tragicamente l’epico ciclo dei cantares: «Così, in un istante, l’indimenticabile fulgore di un lampo è arso nelle tenebre, ha illuminato la storia dei contadini. Abbiamo fallito!  La speranza era durata meno di quel lampo, ormai cenere nell’oscurità. E pianse ancora, perché sulla lapide di quella rivolta nessuno avrebbe graffiato il più misero epitaffio».

E così andrà avanti, nel Perù di oggi, fino al prossimo futuro: fino alle prossime elezioni, fino alla prossima rivolta degli ultimi, fino alle prossime lapidi senza nome, fino alla prossima bancarotta dello Stato. Come in Bolivia, che vive uno stato di continua convulsione dai giorni del tentato golpe incrociato del presidente-indio Evo Morales e dell’irriducibile opposizione della destra bianca. Ora è la volta della vendetta del nuovo governo indigenista, con l’arresto spicciativo e assai sospetto del governatore bianco di Santa Cruz, il Dipartimento più ricco del Paese.

Ma le convulsioni ricorrenti della Ñamerica – come lo scrittore Martìn Caparròs ha battezzato i popoli latinoamericani di lingua spagnola – sono oggi oscurate dai venti gelati che arrivano dal Brasile, un vicino di ben altra stazza politica e ingombro economico e sociale. I fatti dell’8 gennaio scorso, l’insurrezione dei sostenitori dell’ex presidente Bolsonaro e l’attacco senza precedenti ai luoghi simbolo della democrazia, pongono un problema senza precedenti di fronte non solo al nuovo presidente Lula da Silva, ma al Paese e a tutto il Continente.  Oggi è il momento delle indagini, degli arresti, della messa in stato di accusa di decine se non centinaia di collusi, fiancheggiatori, ispiratori del tentato golpe. È un verminaio di responsabilità, che spazia dal campo della politica a quello dell’economia, degli affari e delle più alte istituzioni. Con il procedere delle indagini – come succede a Washington dopo l’assalto a Capitol Hill – si scopre una vasta e potentissima rete di interessi, intrighi e poteri opachi.

Oggi è il momento dei dubbi sul passato e dei buoni propositi per il futuro. Come scrive la giornalista Elaine Brum, «ci siamo rilassati, ma non dobbiamo smettere di lottare: E dobbiamo farlo come la foresta: in piedi. Non permetteremo che ci sia amnistia per i crimini di Stato». Vedremo, nei prossimi giorni e mesi. Ma più in sostanza, registriamo qui una differenza e un’aggravante rispetto alle crisi che scuotono gli altri Paesi del continente: mentre le sfide che riguardano e interrogano Colombia, Perù, Bolivia e Cile hanno a che fare con un passato che non passa, la ferita inferta al grande corpo del Brasile ha invece nuove e nuovissime connotazioni, e può aprire uno scenario da incubo per il prossimo futuro. Chi si illudeva che il bolsonarismo fosse solo una febbre passeggera e una parentesi da affidare agli archivi è stato amaramente smentito prima dalla vittoria risicata, sul filo di lana, del candidato Lula da Silva, e oggi dal permanere di una frattura radicale dentro la carne stessa del colosso latino-americano.

Bolsonaristi a Brasilia. Foto di Sergio Lima/Getty Images

La parola populismo è ormai usurata, in Brasile come nel resto del mondo. Si può e forse si deve parlare invece del nascere di un temibile movimento reazionario di massa, che in Brasile può concretizzarsi nell’alleanza – spuria ma certo non inedita – tra i primi e gli ultimi della società, con il sostegno della cavalleria leggera delle chiese evangeliche, e con gli strumenti manipolati dei moderni mezzi di comunicazione sociale come arma di falsificazione quotidiana. 

Del resto, come recita da decenni la nostra vulgata consolatoria, queste latinoamericane sono “democrazie fragili.”  Ma forse anche questo vecchio concetto delle democrazie “figlie di un dio minore” andrebbe aggiornato e sottoposto a riesame. Da mesi e da anni, tutte le nostre versioni e visioni della democrazia stanno rivelando una interna fragilità. In modo episodico ma costante nella nostra sonnolenta Europa gelosa dei suoi privilegi e impaurita del futuro e in modo addirittura clamoroso nella cronaca americana, che ci consegna il ritratto di una società sempre più violenta e disorientata. Una realtà contraddittoria dove il massimo delle libertà convive con la vergogna del sopruso e della discriminazione, predicati da élites politiche e interi ceti sociali. Infine, una società dove il presidente sconfitto dal voto popolare osa mettere a ferro e fuoco il “tempio della democrazia”, mobilitando una folla di scherani armati e incitando all’eversione come farebbe il più scatenato dei caudillos latinoamericani. Così l’Occidente sognato si rivela un edificio sfolgorante attraversato da crepe sempre più minacciose. Dunque cautela, almeno nelle definizioni. “De te fabula narratur”, come direbbe Don Luìs, con il suo rotondo latino da canonica.

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