Paola Benadusi Marzocca
“Le due mogli di Manzoni” di Marina Marazza

Don Lisander privato

Così l’autore dei “Promessi Sposi” era soprannominato a Milano. E nell’approssimarsi del 150° anniversario della morte, un libro ne svela il carattere che le due diverse esperienze coniugali, con Enrichetta e Teresa, contribuirono a modificare in molti modi, anche inattesi

Un’occasione quella del 150esimo anniversario della morte di Alessandro Manzoni, avvenuta quando aveva 88 anni, il 22 maggio 1873, per rileggerlo e capire meglio il carattere e la personalità del nostro maggiore prosatore valutandone lo spirito e l’attualità. Considerando che I Promessi Sposi si leggono per la prima volta sui banchi di scuola, non si può negare l’atmosfera di serietà paludata che in genere accompagna le letture scolastiche suscitando un po’ di diffidenza nei ragazzi. Inoltre la pedanteria con cui spesso gli insegnanti illustrano il romanzo manzoniano non aiuta certo ad amare questo libro che letto ad altra età e in altra sede può diventare appassionante come un romanzo di avventure. L’umanissima storia di Renzo e Lucia calata nelle vicende italiane dei Seicento, la carestia, la peste nel milanese, gli echi della guerra dei Trent’anni, è raccontata da Alessandro Manzoni con la forza di chi ha individuato il naturale rapporto fra storia e vita. I fatti storici non restano fredde indicazioni avulse dalla vita quotidiana, bensì viva testimonianza di esistenze lontanissime dalle nostre ma caratterizzate dalle stesse incertezze e inquietudini.

Alessandro Manzoni lavorò al suo romanzo dal 1821 al 1827 influenzato dalle esperienze del romanzo storico europeo, in particolare i romanzi di Walter Scott, ma all’inizio la sua opera fu accolta con giudizi molto contrastanti, entusiastici quelli di Goethe, più critici quelli italiani fra cui quello dell’allora venticinquenne Tommaseo che così scrisse: «Quell’Agnese che dice cattivacci a’ suoi nipoti, quel Renzo così coglioncello son cose che fanno dare di stomaco…La sentenza è severa ma giusta e i passi divini che il romanzo contiene non bastano a scusa». Il Tommaseo in seguito si ricredette anche se a un pieno riconoscimento dell’opera non sarebbe mai arrivato. In seguito alle critiche, resosi conto della giustezza delle osservazioni che si facevano al suo stile, Manzoni continuò a lavorare al romanzo soggiornando a Firenze per un lungo periodo per impadronirsi della parlata toscana e sul suo modello purificare il suo stile. Va sottolineata una vera ossessione del dialetto fiorentino che poi non è proprio il toscano più puro. Comunque sia da questa operazione scaturì una prosa autenticamente nazionale e l’edizione definitiva uscita nel 1840-42 conquistò gli italiani in lotta per l’unità politica anche per la semplicità e la potenza dei sentimenti e la penetrante analisi storica e psicologica. Una cosa è certa I Promessi Sposi fu la più impegnativa impresa dello scrittore milanese, tale da renderlo suo malgrado un eroe del Risorgimento, l’epopea più romantica ed eroica della storia italiana. 

Ma se la grandezza dell’opera del nostro scrittore è fuori discussione, la sua vita è stata oggetto di ricorrenti sospetti e maldicenze stimolate anche dal suo temperamento introverso, amante della solitudine e assolutamente alieno dal gusto della mondanità. Egli amava passare il suo tempo nelle meditazioni al tavolo del suo studio milanese o nella stanza stipata di libri nella villa di Brusuglio. Ebbe amici fedelissimi tra i quali Faurier, Tommaso Grossi, Rosmini e chi lo conobbe nell’intimità restò affascinato dalla sua persona. Scrive Viesseux: «La sua infermità e la sua timidezza gli fanno quasi una legge di non frequentare in società; balbetta alquanto e i mali di nervi gli rendono qualche volta insostenibile ogni conversazione. È un gran peccato, perché, malgrado il suo balbettio, si fa ascoltare con il più vivo interesse… Egli è dolce, modesto, affabile, ma ha pure il sentimento di ciò che vale…». Gli anni della giovinezza erano stati per Alessandro abbastanza difficili. È infatti ormai stabilito che nacque dalla relazione della madre, Giulia Beccaria, figlia del famoso giurista Cesare Beccaria, e Giovanni Verri. L’anziano conte Piero Manzoni con cui era sposata Giulia, ne era al corrente ma riconobbe il bambino come suo, anche se passati pochi anni i due coniugi si separarono definitivamente. Da ragazzo compì i primi studi a Merate e a Lugano presso i padri Somaschi, e poi a Milano nel collegio Barnabita dei Nobili. Visse quindi per qualche tempo nella casa paterna e in questo periodo reagì vivacemente all’educazione religiosa che gli era stata impartita sposando le nuove idee giacobine che giungevano dalla Francia. Si stava delineando intanto la sua vocazione per le lettere e la poesia a contatto con l’ambiente classicheggiante dominato da Vincenzo Monti. L’invito che gli giunse da Parigi dalla madre e da Carlo Imbonati con il quale conviveva, cambiò la sua vita. Nella capitale francese Giulia introdusse il figlio nei circoli intellettuali parigini e tra madre e figlio, dopo ben dieci anni di separazione, si instaurò un legame di affetto e affinità fortissimo. 

Giulia era una donna bella ed energica, di forte temperamento. Comprese subito che toccava a lei prendere in mano il controllo della situazione: Alessandro era assolutamente privo di senso pratico, remissivo e contento di seguire la volontà materna, nella misura in cui era rispettata senza interferenze la sua vita interiore. Nel 1808 si sposò con Enrichetta Blondel, svizzera di religione calvinista. Scrive tra l’altro in una lettera: «La mia sposa ha sedici anni, un carattere dolce, molta dirittura di sentimento, un grandissimo affetto per i suoi genitori… Per mia madre essa ha una così viva tenerezza, mista a rispetto che si direbbe veramente un sentimento filiale». Enrichetta in effetti fu per lui la moglie ideale, discreta, devota, attenta. Evitò al marito tutte le angustie domestiche e familiari permettendogli di dedicarsi completamente alla scrittura. La sua presenza fu decisiva inoltre nel ricondurre il Manzoni alla fede religiosa. Avvenne il 2 aprile 1810 mentre a Parigi veniva festeggiato il matrimonio di Napoleone con Maria Luisa d’Austria. Alessandro ed Enrichetta si persero nella folla. Non vedendo più la moglie egli entrò nella chiesa di San Rocco, dove si mise a pregare Dio chiedendogli di fargli ritrovare sana e salva Enrichetta. «Quel malessere, quel senso di vertigine, che lo indussero a cercare riparo nella chiesa, era una vera e propria crisi di nervi, la prima della sua vita…», scrive Natalia Ginzburg ne La famiglia Manzoni (Einaudi). «Da allora egli seppe di essere convulsionario, soggetto cioè ad attacchi di convulsioni, o timoroso che lo cogliessero attacchi; e quel timore gli dava affanno e vertigine». Enrichetta, di salute malferma e indebolita da molteplici gravidanze, morì nel dicembre del 1833, lasciando il marito, come scrive Marina Marazza nel suo interessante e avvincente romanzo Le due mogli di Manzoni (Solferino, 477 pagine, 19,50 euro), «smarrito. Perso. Sbalordito». 

A questo punto entra in scena Teresa Stampa Borri, la seconda moglie che si innamora di lui, prima ancora di conoscerlo, dopo aver letto la prima edizione de I Promessi Sposi. Descrivendo la vita quotidiana di Teresa e “don Lisander”, come veniva chiamato Manzoni a Milano, l’autrice segue sia la tecnica del flash black, sia un criterio che assomiglia un po’ a quella contemporaneità di sensazioni che aveva cercato di rendere Virginia Woolf nei suoi libri. Il risultato è eccellente perché proprio attraverso la figura di Teresa viene fuori un Alessandro Manzoni ben diverso, forse anomalo rispetto a quello che ci hanno tramandato, «una figura nel migliore dei casi noiosa, nel peggiore odiata…», sicuramento poco conosciuta. Ed è merito questo della «vituperata, la negletta Teresa…», poco considerata dai biografi, a parte Ferruccio Olivi che ne scrive nella sua biografia su Manzoni (Rusconi). «Il rapporto con la moglie non tardò a colorarsi di un’affettuosità vagamente ironica verso di lei, e verso se stesso: quasi che la vita, che l’aveva insidiato con malanni e sventure, gli risultasse ora una compagnia a cui è giocoforza adattarsi». 

Francesco Hayez, ritratto di Teresa Manzoni Stampa Borri

Lei era vedova, ricca e molto giovanile, ma nessuno si aspettava che lui si risposasse a cinquant’anni. Tutti auspicavano che «restasse un romantico vedovo inconsolabile: non glielo perdoneranno». È la stessa Giulia, la mamma di Alessandro, che con premurosa lungimiranza decide di trovare un’altra moglie per lui: Alessandro per quanto devoto a Enrichetta non era un uomo da vivere solo di ricordi, «ci vuole una nuova vestale che celebri il culto di quel figlio sempre più famoso. Teresa le sembra una splendida opportunità». Ma la convivenza non sarà facile, in realtà suocera e nuora non andranno mai d’accordo avendo temperamenti troppo simili e battaglieri. Spesso Teresa dovrà confrontarsi con la presenza evanescente della bionda Enrichetta, ma essendo innamorata del marito riuscirà a controllare il suo carattere impulsivo dedicandogli le sue energie e il suo pensiero. Dinanzi allo scrittore ormai affermato non avanzò mai pretese impossibili, consapevole di vivere in tempi che non concedeva spazio alle donne di realizzarsi al di fuori degli schemi tradizionali. 

Con la sua devozione e l’attenzione alla sua opera, gli dimostrò che il vero luogo dell’impossibile non è la vita, ma la scrittura. Lì infatti si può fantasticare fino a perdersi o a perdere i contorni della realtà. Così don Lisander trovò in lei la sua realtà, ma con estrema cautela, tant’è che Teresa dubitò a volte che lui l’amasse. Ma che fare di fronte a un genio? Ciò che emerge dalla narrazione è la figura di un uomo pieno di contraddizioni, di dubbi anche riguardo alla fede religiosa, spaventato dal mondo reale che cerca invano di espellere da sé e che trovava sollievo in lunghe camminate, se è vero che da Milano andava a Brusuglio a piedi. Di sicuro non amava i conflitti e sfuggiva per quanto possibile dinanzi alle responsabilità, ma era onesto e gentile e possedeva un sufficiente spirito autocritico per riconoscere i limiti della propria natura. Sullo sfondo un’epoca convulsa sotto la dominazione austriaca della Lombardia, un’epoca perbenista e piena di pregiudizi, ma nel complesso anche di ampie vedute o se vogliamo di inevitabili ipocrisie. Questo il sapore degli anni con Teresa che coincidono con il lento franare del resto della cerchia familiare. Se, infatti, le figlie e i figli crescono, sopravviene ogni volta l’insidia di fatti imprevedibili. Lutti e dolori; si decidono destini con la morte troppo spesso in agguato. Dopo la scomparsa della moglie, il 23 agosto 1861, don Lisander ebbe numerosi riconoscimenti pubblici. Nel 1870 venne nominato senatore, due anni dopo gli venne conferita la cittadinanza romana. Per il primo anniversario della sua morte, il suo ammiratore Giuseppe Verdi lo commemorò con una sublime messa di requiem.

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