Marco Ferrari
La morte di Pelè/2

Storia di un mito

Una vita sui campi di calcio consumata con la maglia del Santos, Pelè era nato a Três Corações il 23 ottobre 1940, figlio di un calciatore. Ha vinto tre mondiali, segnando un epoca e un numero, il “10“, che dopo di lui è diventato mitico

Ha resistito a diversi difensori che cercavano di ingabbiarlo quando giocava, ma soprattutto ha resistito alla Storia, nonostante attacchi di alto livello come quelli di Cruijff, Socrates, Maradona, Messi e CR7. Alla fine, si può dire che “O Rey” resta eternamente lui, Edson Arantes do Nascimento detto Pelé, che ci ha lasciati dopo una lunga malattia dovuta ad un tumore al colon. Anche perché, rispetto agli altri concorrenti, lui rimane l’unico calciatore al mondo ad aver vinto tre edizioni del campionato mondiale di calcio con la nazionale brasiliana nel 1958, 1962 e 1970. Difficile raccontare le sue imprese. L’immagine di Pelé resta legata al gol realizzato alla Svezia nella finale del 1958, il terzo più bello nella storia della Coppa del Mondo e il primo tra quelli di una finale di un campionato del mondo. Un uomo semplice che ha legato la sua carriera a una squadra di periferia, il Santos, cittadina del litorale paulista, dove i ricchi imprenditori di origine italiana della metropoli brasiliana usano passare il fine settimana bevendo cachaça nei locali notturni oppure succhiando noce di cocco sul lungomare. Con la maglia bianca della squadra brasiliana ha vinto dieci campionati Paulista, quattro tornei Rio-San Paolo, sei edizioni Campeonato Brasileiro Série A, cinque Taça Brasil, due edizioni della Copa Libertadores, altrettante della Coppa Intercontinentale e la prima edizione della Supercoppa dei Campioni Intercontinentali. Da calciatore esperto, a 35 anni, accettò di trasferirsi al New York Cosmos, con un contratto di circa 4,5 milioni di dollari per tre anni, assieme a Carlos Alberto, Beckenbauer e Chinaglia, per promuovere il calcio negli Stati Uniti. Appese le scarpette al chiodo, chiudendo la carriera, il 1° ottobre del 1977 al Giants Stadium di New York con una amichevole tra Cosmos e Santos, al termine della quale fu sollevato in trionfo dai compagni delle due squadre. A lui spetta anche il record di reti realizzate che, secondo i conti della Fifa, sono 1.281 in 1.363 partite, anche se in realtà ha messo a segno 757 reti in 816 incontri ufficiali con una media realizzativa pari a 0,93 gol a partita.

Il millesimo sigillo arrivò su rigore la sera del 19 novembre del 1969, al Maracanà, in un Vasco De Gama-Santos, match della Taca de Prata (il torneo “Roberto Gomes Pedrosa”). Ci vollero quasi 10 minuti prima di battere il penalty, tanti erano i fotografi e i tifosi che vollero appostarsi dietro la porta di Edgardo Andrada per non perdersi quel momento storico. Portato in trionfo gridò: «Aiutate i bambini poveri, aiutate gli abbandonati. È il mio unico desiderio in questo giorno speciale per me». Con la nazionale brasiliana realizzò 77 reti in 92 presenze e venne eletto Calciatore e Pallone d’oro FIFA del secolo.

Era nato a Três Corações il 23 ottobre 1940, figlio dell’ex calciatore Dondinho, all’anagrafe João Ramos do Nascimento, finito in miseria a causa dell’interruzione della carriera per un infortunio al ginocchio, e di Maria Celeste Arantes. Da piccolo giocava con una palla di stracci e carta, si allenava calciando un mango e si guadagnava da vivere pulendo le scarpe nelle strade di Bauru. Pare sia stato un suo compagno di scuola a ribattezzarlo “Pelè” perché il futuro fenomeno del calcio mondiale chiamava il portiere della loro squadra “Pilé”, invece che Bilé. Divenne un fenomeno del pallone a soli 17 anni con la maglia del Santos, ma soltanto in Svezia divenne il numero 10 per eccellenza. La lista dei convocati inviata alla Fifa dalla dirigenza della Seleçao era priva di numeri e quindi vennero assegnati a caso: a Gilmar (portiere) il 3, a Didì (attaccante) il 6, alla “Perla nera” il 10. Da lì fece la storia del calcio.  

Campione sul prato erboso ma campione anche a letto, stando alle tante leggende che si raccontano su di lui. In occasione della presentazione del documentario di Netflix sulla storia della sua vita, Pelè, il re del calcio, aveva confessato di avere avuto molti figli legittimi ma anche illegittimi. Tra questi ultimi c’è Sandra Machado Arantes, nata dalla relazione con la cameriera Anisia Machado. La donna però non ha avuto mai riconosciuta sua figlia come discendente di Pelè, nonostante la sentenza del tribunale che ne consacrava la paternità. La giovane donna è morta poi a causa di un cancro nel 2006. Flávia Christina Kurtz Nascimento è un’altra figlia fuori dal matrimonio: sua madre è la giornalista Lenita Kurtz. La prima delle tre mogli di Pelé è stata Rosemeri dos Reis Cholbi con la quale si è sposato il 21 febbraio del 1966. Dal loro matrimonio sono nati tre figli: Kelly, Edinho, Jennifer. «La mia prima moglie, la prima ragazza, sapeva delle mie scappatelle. Non ho mai mentito». Ma la donna ha poi raccontato che non era affatto d’accordo sulle fughe amorose del marito. La loro storia però finisce 15 anni dopo.

Dopo, Pelè si sposa con Maria da Graça Meneghel, detta Xuxa, una conduttrice televisiva, attrice e cantante e imprenditrice brasiliana con cittadinanza italiana. Con lei sono stati cinque anni d’amore, ha raccontato l’atleta, anche se non sono mancati i tradimenti, come lui stesso ha ammesso. Nel 1994 Pelé si sposa di nuovo: la nuova moglie è la psicologa e cantante gospel Assiria Seixas Lemos, di 34 anni, 20 di meno del calciatore. Da Assiria Seixas Lemos ebbe due gemelli, Joshua e Celeste. Ma anche questa storia finirà con una separazione nel 2008. Dal 2010 Pelé è legato a Marcia Cibele Aoki, una nippo-brasiliana. Il loro matrimonio si è celebrato nel 2016 con una cerimonia ispirata al matrimonio tra il Principe William e Kate Middleton.

Naturalmente, una figura come quella di Pelè ha ispirato molti registi. Cinque film sono stati realizzati su di lui. L’ultimo, in ordine di tempo, è uscito nel 2016 e si chiama semplicemente Pelè. Ma lui ha fatto anche l’attore in altri film, tra cui Victory, tradotto in italiano con il titolo Fuga per la vittoria, un capolavoro di John Huston in cui compaiono Sylvester Stallone, Michael Caine, Bobby Moore, Osvaldo Ardiles, Paul van Himst, Kazimierz Deyna, Hallvar Thoresen, Mike Summerbee, Co Prins, Russell Osman, John Wark, Søren Lindsted, Kevin O’Callaghan, Max von Sydow. Ma come mai un campione come lui non ha mai cambiato casacca e non è stato avvinto dal sogno europeo al pari di tanti suoi connazionali? Nel 1958 l’Inter offrì una forte cifra per averlo. «Ero giovane, l’idea mi affascinava. I dirigenti del mio club però – ha raccontato il calciatore – non accettarono la proposta e respinsero anche le successive». Anche il Milan tentò di strapparlo al Santos, ma alla fine si accontentò di Amarildo. Tra le tante partite che giocò in Italia anche una contro l’Alessandria per celebrare gli ottocento anni della città di Gianni Rivera, grande amico del brasiliano.

Finita la carriera è diventato pure ministro dello sport, è stato accolto in 88 nazioni, ricevuto da 70 premier, 40 capi di Stato e tre Papi. Quando si recò in Nigeria venne dichiarata una tregua di 48 ore ai tempi della guerra con il Biafra perché tutti, da entrambi gli schieramenti, potessero vederlo giocare. «Sono conosciuto più di Gesù Cristo», sentenziò anni fa in un’intervista all’Ansa. È diventata storica la “pace” tra Maradona e Pelè nella trasmissione televisiva La Noche del Diez, condotta appunto dal Pibe de Oro, del 16 agosto 2005. A proposito della sua morte, in un recente messaggio diffuso da alcune testate brasiliane ha confessato: «Spero che quando andrò in cielo, Dio mi riceva nella stessa maniera in cui tanta gente mi riceve qui in terra, per via del nostro amato calcio». Di lui il grande Gianni Brera scrisse: «Mi dico di non aver mai visto nulla di simile. Gli dedico epinici. Mi esalto e lo esalto. L’ho veduto far questo: coricare tre birilli e battere di sinistro sul portiere: palla che schizza verso il fondo: prima che esca, continuando la corsa, Pelé compie un gran balzo e ricade col sinistro sulla palla: la colpisce a volo, in modo che s’infila tesa e bassa in diagonale». Tra le tante definizioni di Pelè e di coloro che lo hanno incontrato, forse la più originale è quella data dall’indimenticabile “Roccia” Tarcisio Burgnich: «È fatto di carne ed ossa come tutti gli altri, mi dicevo prima di quella partita, ma mi sbagliavo».

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