Giacomo Battiato
All'incrocio tra storia e saperi

Migranti del sapere

L'Università di Padova, per celebrare i suoi ottocento anni di vita, ha raccolto le storie dei 50.000 studenti che, anche da molto lontano, nei secoli sono andati al cuore della cultura europea. Uomini che «la sete di conoscenza ha reso esuli»

L’Università di Padova festeggia nel 2022 l’ottocentesimo anniversario della sua fondazione. Per la circostanza, pubblica insieme all’editore Donzelli un’opera in nove volumi: “Patavina Libertas”.  Di seguito si parlerà di uno dei testi di questa secolare storia europea dell’Università, intitolato “Stranieri” e curato dalle storiche Maria Cristina la Rocca e Giulia Zornetta.

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Gli “Stranieri” del titolo sono gli studenti che tra il XIII° e il XVIII° secolo vengono a studiare a Padova da tutti gli angoli dell’Europa. Le quasi 300 pagine del libro sono il frutto di una rigorosa ricerca ricca di contributi, documentazioni, tavole e grafici. In una banca dati, sono stati raccolti per ora 50.000 nomi di studenti che da lontano, da molto lontano, accorrono dove si lavora al meglio alle fondamenta della cultura europea. Un testo scientifico dunque? Certamente. Ma non solo. È molto di più. L’ho letto come un romanzo nel quale prendono corpo migliaia di giovani vite che lungo i secoli vedono in una città italiana e nella sua università la meta e la realizzazione dei loro sogni, idee e desideri.  Sono coloro che credono che scienza, cultura e libertà siano i principi fondanti della società.

Nella gabbia come Petrarca descrive l’Italia, dove persone pazienti sono chiuse insieme a belve feroci così che sempre il miglior geme, la città di Padova, grazie alla sua Università (e alla protezione veneziana) cerca di tenere fuori dalle sue mura le belve che della scienza e della conoscenza hanno paura. Non è un caso che il toscano Petrarca, quando sente il corpo stanco ma la mente ancora vivissima e creativa, sceglie Padova per finire al meglio la sua vita.

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Osservo le mappe degli itinerari degli studenti che venivano a studiare a Padova e rimango stordito. Migliaia di chilometri percorsi per un viaggio in tempi in cui, ai nostri occhi contemporanei, viaggiare per quelle distanze sembra impresa da folli, pericolosa, faticosissima. Entrano in Italia da nord attraverso il passo di Fërn e il Brennero, oppure dal passo di Resia; dal nord-est attraverso il Tarvisio; da est, via Lubiana; da ovest attraverso il Moncenisio o il Monginevro. Gli studenti, ma anche i molti grandi maestri che si spostano, chiamano questa vivacissima migrazione culturale europea peregrinatio academica. Un peregrinare motivato, ispirato, avventuroso, verso lo studio e l’apprendimento. Accade, ad esempio, che gli studenti dell’Impero Germanico, dopo avere acquisito a casa loro un titolo di studio, affrontano l’iter italicum per raggiungere una formazione più solida e importante di quella che avevano ricevuto nelle loro città di origine.

Ben presto, Padova diventa la prima (e più cara) università italiana. Vengono poi, tra le ottime, Bologna e Pavia poi, un po’ meno costose, Siena e Pisa e infine Ferrara (dove spendi meno ma hai comunque buoni insegnati). Padova e Venezia (che veglia) hanno fatto i loro buoni calcoli. Quanto vorremmo che li facessero anche oggi, questi calcoli, i reggitori delle cose universitarie italiane! Uno studio pubblicato il 28 novembre 2022 da Campus France rivela che la presenza di studenti internazionali in Francia genera un impatto economico di 5 miliardi di euro all’anno. Una rendita straordinaria per chi ospita perché ha saputo attrarre con insegnamenti di alta qualità e con una ben organizzata accoglienza. Per non parlare della ricchezza che porta lo scambio culturale e scientifico fra ospitante e ospitato.

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L’amore per la conoscenza ci ha reso esuli!

Il fascino di questo volume è che non racconta l’Università dall’alto dei “grandi maestri” ma dalle tracce di vita degli studenti fattisi esuli per venire a studiare e laurearsi in Italia, a Padova. Arrivano, incontrano i loro conterranei e vivono con loro in comunità ma, nella vita quotidiana nelle aule, nelle strade, nelle taverne, nelle case, incontrano moltissimi che sono per loro “stranieri”, provenienti da paesi, culture, lingue e anche religioni diverse. Insieme, frequentano le lezioni dei maestri famosi, partecipano alle feste di laurea così come ai bagordi, vivono gli innamoramenti e gli inevitabili scontri.

All’inizio, l’università non è concepita come uno spazio fisico ma piuttosto come un’associazione di persone, una societas di scolari. Sono gli scolari che regolano la propria vita di studi e, fino alla fine del XVI°, sono sovente loro stessi a scegliere e chiamare i professori.

La presenza di studenti e insegnati “stranieri” contribuisce a plasmare la vita culturale della città e ad arricchirla. Ben presto la città capisce di dover garantire spazi adeguati a docenti e studenti per vivere e per svolgere al meglio le loro attività perché soltanto così può mantenere stabilmente il prestigio della sua Università con tutto l’indotto che ne deriva. Vengono emanate direttive specifiche in tal senso all’interno degli statuti cittadini, una normativa minuziosa che arriva a stabilire ad esempio, i tetti massimi per i costi di affitto delle abitazioni e le scadenze di pa­gamento. Certo, una buona offerta e gestione degli alloggi può avere un peso no­tevole nella scelta da parte degli studenti di frequentare una Università ri­spetto a un’altra. Nel corso di tre secoli vengono istituiti/costruiti a Padova una ventina di collegi dove risiedono gli studenti che non possono permettersi gli affitti. Già dal Trecento molti medici padovani privi di eredi lasciano i loro beni per aiutare gli studenti meno abbienti, giovani che seguono quello che sovente era stato il loro stesso percorso universitario.

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Vengono a Padova studenti Germanici dal bacino del Reno, dalla Franconia, dalla Sassonia, dalla Svevia e dalla Boemia. Vengono dai paesi Bassi, dalla Polonia, Ungheria, Provenza, Borgogna, Franca Contea, Savoia, Inghilterra, Catalogna, Spagna, Scozia, Grecia. Ma “stranieri” sono anche gli studenti di diritto, medicina, arti e teologia che vengono dal resto dell’Italia e che non si chiamano “italiani” ma “Romani”, “Aquilani”, “Siciliani”, “Milanesi”, “Toscani”, “Genovesi”, quelli della “Marca Anconitana” e i “Dalmati” e i “Lombardi” e così via, con ognuno che parla il “suo” italiano. Anche se per costoro il viaggio è assai più breve, Padova rimane terra aliena. È interessante la storia degli studenti meridionali. Al tempo della fondazione dell’Università di Napoli (1224) Federico II° di Svevia ha vietato ai propri sudditi di andare a studiare e insegnare altrove, divieto mantenuto dai successori angioini e aragonesi. Ma invano. La lista di grandi uomini disubbidienti, che vengono dal sud a studiare a Padova per poi tornare nelle loro terre e brillare, è notevole. Jacques Le Goff, il noto medievalista, ci racconta la vicenda di uno di questi studenti che si chiama Matteo de Grandis. Sono gli anni ’20 del Quattrocento. Matteo de Grandis è siciliano, di Siracusa. È un giovane brillante ma non dispone di mezzi per potersi permettere di proseguire gli studi ai più alti livelli. La sua città gli offre una borsa di studio (viaggio, soggiorno, vestiario, libri costosissimi), per andare a studiare diritto là dove davvero vale la pena di farlo al meglio e laurearsi: a Padova, in barba ai divieti. Dopo il dottorato, Matteo rientra in Sicilia, percorre una esemplare carriera professionale divenendo, fra l’altro, vice cancelliere dell’Università di Catania, nel frattempo fondata. Da chi? Da altri, e molti, brillanti siciliani laureati, anche loro, a Padova. La curiosità della vicenda di Matteo raccontata da Le Goff sta nel ritrovamento dei suoi giustificativi di spesa dettagliatissimi: le “tasse universitarie” (le somme versate alle persone, dai docenti ai bidelli) e le “spese di studio” (affitti, vitto, prestiti di libri, fino alla carta per il diploma e al prezzo pagato per la musica e i diversi tipi di vino per la festa di laurea).

Un tema, quello dei costi universitari (magari in terra aliena), che è ancora vivissimo in molte famiglie di oggi che hanno la fortuna di avere figli studiosi.

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Provate a tendere le orecchie nelle vie e nelle taverne di Padova. Udite una musica strana, quella delle infinite lingue che parlano e che cantano. Certamente, nell’Università e nei suoi testi, domina il latino come oggi l’inglese (non per merito di Shakespeare, però). Ma fuori dalle aule, decine di lingue s’incrociano e s’interrogano; anche gli studenti che nel Medioevo vengano dalla terra che oggi si chiama Francia parlano due langues differenti, bellissime, ricche di poesie e di canzoni. Anche tra i germanici, gli svevi, ad esempio, non parlano il tedesco ma lo svevo, che è differente. Così gli studenti che vengono dalle diverse civiltà del profondo nord con i loro difficilissimi lessici. Molti figli di mercanti di origini diverse hanno forse imparato dai loro padri il sabir e comunicano tra loro attraverso quella lingua, esempio notevolissimo di civiltà medievale che abbiamo perduto. Il sabir era una lingua franca, misto di veneziano, genovese, catalano, arabo, occitano, turco e altro. Non però un minestrone di vocaboli, ma una vera e propria lingua con un lessico preciso e una struttura grammaticale semplificata che, nei rapporti commerci, è stata parlata per secoli.

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C’è un interessante spaccato, in “Stranieri”, sui “copisti”. Studenti che trascrivono le lezioni per se stessi, o per i compagni, o per gli stessi professori procurandosi in questo caso dei guadagni per sostenere le spese universitarie. Un’attività che diventa, per alcuni, una professione. Sono documenti preziosi non soltanto per il loro contenuto scientifico ma per quello “umano” nel quale la vita filtra e vibra là dove meno lo si aspetta: in margine ai testi di studio. Sì, accade che talvolta il “copista” si sfoghi e parli di sé: troviamo le confessioni più intime dove si esternano gioie e dolori, eventi domestici e familiari quotidiani così come eclatanti avvenimenti storici, successi e delusioni, malattie e lutti, ricordi e desideri.

Li vediamo camminare per le vie e sotto i portici della città, gli studenti copisti durante tutto il medioevo, con le loro tavolette cerate appese alla cintura alla stregua di un quaderno di appunti.

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Mi ha sempre affascinato il viaggiare antico, l’attraversamento di nazioni, città, paesi, fiumi, foreste. L’andare lento, il lento scoprire, il tempo giusto per osservare e riflettere. Sì perché anche se è febbrile, l’andare, è obbligatoriamente lento. Permette così ai viaggiatori di guardare e conoscere: paesaggi, nuvole e luce che cambiano, così come cambiano i volti delle donne e degli uomini e le architetture e i suoni delle lingue e delle campane e i sapori dei cibi. Ho citato Petrarca. A proposito del suo viaggiare, mi sono divertito a calcolare i chilometri da lui percorsi. Ha cominciato presto, a 7 anni nel 1311, quando con suo padre notaio ha lasciato la Toscana per Avignone. Soltanto per i viaggi di cui abbiamo traccia, dunque in un calcolo assai in difetto, il nostro grande ha macinato, a piedi, a cavallo, su carri, più di 30.000 chilometri. Ho un animo errabondo e un occhio mai sazio di vedere cose nuove. Ho trascorso la mia vita in continui viaggi…

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Seguendo sulla carta geografica le rotte degli studenti francofoni, ho visto su quelle strade gruppi di giovani diretti a Padova che incontrano un vecchio di 65 anni. È in groppa a un asino e sale lungo le curve tortuose del Moncenisio in un viaggio di circa 1500 chilometri. Siamo nel maggio 1517 e questo vecchio sta lasciando un’Italia per lui divenuta persecutoria. È il suo ultimo viaggio. È toscano, originario di Vinci. Gode dell’aria della primavera tra i boschi e i torrenti formati dalle nevi che si sciolgono. Nella cesta attaccata al basto c’è una tela arrotolata, il ritratto di una donna al quale è molto affezionato. Sì, nella cesta traballante tra le montagne dell’esilio del nostro genio, c’è un volto di donna dipinto, di una sublime ambiguità, proprio quello che diverrà, in eterno, un’icona mondiale.

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Torniamo agli studenti stranieri a Padova.

Un tedesco di nome Barthold von Gadenstedt viene a studiare alla università giurista dalla sua città sassone di Wernigerode (circa 1000 chilometri). Siamo nell’ultimo quarto del Cinquecento. Con un entusiasmo che va oltre quello per la sua specifica materia di studio, Barthold scrive: “Ai tedeschi piace soggiornarvi perché Padova confina con la Germania, e anche per gli esercizi che uno può trovarvi come l’equitazione, la scherma, la danza, la musica con ogni tipo di strumento che uno possa desiderare. Si mangia anche bene e, chi vuole, di solito ci trova anche buona compagnia.”

Di quale buona compagnia parli, se intellettuale o amorosa, non sappiamo. Tutte e due probabilmente.

Numerosissimi sono i nomi di uomini di grande ingegno provenienti dall’area germanica. Uno tra mille, Hartmann Schebel, medico e umanista, storico e cartografo; già magister artium a Lipsia viene a Padova per studiarvi poiché ritiene l’antiquissimum ac florentissium Sudium patavino gymnasium omnium Italie cleberrimum. Preso il dottorato in medicina, ritorna nella sua nativa Norimberga divenendo una figura di spicco nel contesto culturale europeo del secondo Quattrocento.

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All’Università di Padova arrivano come studenti e vi restano come professori i due pilastri della medicina moderna: il forlivese Giovanni Battista Morgagni (il padre dell’anatomia patologica) e il fiammingo Andreas Van Wesel, nato a Bruxelles nel 1514). Questo formidabile personaggio ha sempre esercitato su di me una particolare curiosità. A 16 anni studia all’Università di Lovanio, a 19 va a Montpellier e quindi all’università di medicina di Parigi, poi a Basilea per arrivare a Padova. Qui, in pochi mesi consegue il titolo di magister medicinae et artium, e subito dopo riceve l’incarico di lettore di chirurgia (explicator chirurgiae) e anatomia. Ha 23 anni. Si ferma a Padova per diversi anni, insegna, e scrive in latino (conosce perfettamente 6 lingue) il capolavoro: La Fabbrica del Corpo Umano. Il suo antico maestro a Parigi, leggendo il testo, dichiarerà Andreas pazzo. Mentre fonda l’anatomia moderna, van Wesel viene accusato di ignoranza e di empietà.

Scrive, a 32 anni: Al presente non avrei più voglia alcuna di trascorrere lunghe ore a portare alla luce delle ossa nel Cimetiére des Innocentes di Parigi, né tantomeno di andarne in cerca a Montfaucon: una volta che mi recai in quel luogo in compagnia di un’altra persona, corsi infatti un grave pericolo a causa della presenza di un branco di cani selvaggi. E non mi metterei più nella situazione di farmi chiudere fuori dell’Università di Lovanio, solo e nel cuore della notte, per prelevare da un patibolo delle altre ossa utili per costruire uno scheletro. Non mi abbasserò più a rivolgere suppliche ai giudici perché procrastinino il giorno dell’esecuzione di un criminale fino al momento per me più opportuno per dissezionarne il cadavere, né raccomanderò più agli studenti di medicina di osservare il luogo di sepoltura di una persona o li esorterò ad annotare le malattie dei pazienti in cura dei loro insegnanti, così da poter in seguito entrare in possesso dei loro corpi. Non terrò in camera per diverse settimane cadaveri riesumati oppure offertimi dopo una pubblica esecuzione, e non tollererò il caratteraccio degli scultori e dei pittori, per me fonte di pena più grande dei corpi morti che sono oggetto delle mie esercitazioni anatomiche. Pur essendo troppo giovane per trarre un guadagno economico da quest’arte, ho sopportato con prontezza e di buon animo tutto ciò, spinto dal desiderio di assimilare e far progredire le nostre comuni conoscenze.

Vorrei segnalare tre punti di questo sfogo. Primo: Andreas si sottopone a situazioni inumane per amore della scienza. Secondo: non lo fa per arricchirsi ma per studiare. Terzo: il carattere degli artisti è più insopportabile che la convivenza con dei cadaveri in putrefazione!

A Padova troverà un “artista” con cui lavorerà invece in armonia, il tedesco Jan van Calcar, allievo di Tiziano.

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A Padova, gli studenti sono divisi in nationes secondo l’area geografica di provenienza. Uno dei compiti fondamentali delle nationes è quello di accogliere chi è appena arrivato in città e di supportarlo in ogni bisogno nel corso della sua esperienza universitaria. Funzione essenziale soprattutto per coloro che arrivano da lontano e sono dunque più esposti allo spaesamento di una nuova vita in una città straniera dove non si parla la loro lingua.

Insieme, le nationes partecipano all’elezione del rettore. Gli studenti tutti prendono parte attiva e imparano l’arte di mediare e di rappresentare la propria comunità, confrontandosi con i membri delle altre nationes. Una specie di Consiglio d’Europa dei giovani studiosi che imparano a conoscersi e a gestire insieme il loro lavoro e il funzionamento della loro universitas. Magnifico!

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Tale è la fama di Padova che Padewczyk in polacco e Padovás in ungherese non significano “Padovano” ma indicano una “persona di grande valore e cultura” anche se quella persona non ha mai visto Padova.

Alla natio polona in Padova appartengono numerosissimi studenti di etnie e culture diverse. Vengono dal regno di Polonia, da Curlandia, Slesia, Livonia, Granducato di Lituania. La loro peregrinatio academica dal mar Baltico e dall’Europa centro-orientale per istruirsi in questa università italiana può superare i 2000 chilometri. Percorrono la cosiddetta rotta dell’ambra.

Tra i monumenti della natio polona che hanno insegnato a Padova c’è Kopernik, così come tra quelli della natio toscana c’è Galileo.

Appartiene alla natio polona uno studente che diventerà uno tra più grandi politici e statisti del Cinquecento. È polacco-lituano e si chiama Jan Zamayski, Una sua frase sintetizza tutto quello di cui sto scrivendo:

Padova fece di me un uomo.

Sarà lui a incaricare l’architetto veneto Bernardo Morando di disegnare e costruire, in Polonia, la “città ideale”, a forma di stella, che si chiamerà, dal suo nome, Zamosc e sarà conosciuta come la Padova del nord. Curiosità non del tutto irrilevante è che la prima tragedia scritta in lingua polacca, ispirata proprio a Jan Zamayski, è opera di un altro studente della natio polona a Padova, Jan Kochanowski che arriva per laurearsi a Padova dopo avere studiato all’Accademia di Cracovia e all’Università di Könisberg. È un grande poeta, chiamato il “Petrarca polacco”.

Certo, non sono soltanto rose e fiori nella presenza degli studenti “stranieri” a Padova.

Sregolatezza, trasgressione, violenza non mancano nel corpo studentesco. Nella notte tra i 29 e il 30 luglio del 1526, un tale Giovanni Borromeo scopre la moglie Ludovica Basalù a letto con uno studente della natio mediolanensis e li massacra entrambi.

Alla fine di dicembre del 1582, in una casa in cui si giocava d’az­zardo, scoppia una lite tra pado­vani e studenti, nella quale si fa presto ricorso alle armi: per le vie e sotto i portici della città, si grida, in chissà quali lingue: Ammazzalo perché è padovano! Dall’altra, in veneto: Maza, maza perché è scolaro! In via San Francesco, ci ri­mette la vita un giovane studente della città di Pavia del tutto estraneo al conflitto e alla causa che lo aveva scatenato.

La municipalità prende provvedimenti molto severi sulle case da gioco e sul divieto di vendita delle armi. Quest’ultimo viene espresso in un linguaggio che il Congresso americano si sogna: Levar l’uso delle armi, d’onde vengono tutti gli scandali e le notturne insidie.

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Un tema affascinate, in “Stranieri”, è quello degli studenti e dei professori dissidentes in religione. In seguito alla Controriforma, papa Pio IV emette nel 1564 una Bolla (In Sacrosanta) per cui non ci si può laureare se non si è fatta professione di fede cattolica. La libertà di coscienza diviene dunque un terreno difficile per l’Università padovana (con Venezia, stato sovrano, che veglia sulla libertas della sua preziosa Università patavina) e dopo molti contrasti diventa l’unico ateneo italiano a togliere l’obbligo di giuramento alla fede cattolica. In molti si battono per l’indipendenza religiosa dell’Università di Padova. Cito un giovane studente in medicina, il luterano di Vilnius Maciej Lettow, poi diventato importante medico e politico nel suo paese e autore di un diario della sua vita con un bel titolo: Tesoro della Memoria…

Molti, comunque, devono lasciare Padova e laurearsi in altre città. C’è uno studente originario di Augsburg (Svevia) che viene a Padova nel 1629 dopo avere studiato medicina a Parigi e ad Altdorf. Si chiama Johann Georg Wirsung. Per evitare fastidi con la religione romana, mente sulla sua origine dichiarando di essere originario di Monaco in Baviera. Augsburg è infatti luterana mentre Monaco è cattolica. Si laurea brillantemente in medicina e Padova gli piace a tal punto che vi rimane. Bravissimo medico, fa una scoperta essenziale per l’anatomia patologica e la dottrina delle secrezioni: il dotto pancreatico (che verrà chiamato dotto di Wirsung). Per il suo talento diventa assai ricco ma muore per una schioppettata (le ragioni del delitto non sono chiare, essendosi bruciati i documenti del processo per il suo assassinio). Il fatto curioso è che, non avendo eredi, le due città, Augsburg e Monaco, si contendono la sua cospicua fortuna.

Le guerre di religione sono tante in Europa, per cui si fugge anche in Italia e all’università di Padova. Lo dice, in versi, uno studente che viene dalla Franca Contea (e che diverrà segretario di Enrico II° di Borbone, principe di Condé): Stanchi ormai di vedere questo furioso conflitto / e di perderci i nostri giovani e preziosi anni, per metterci al riparo da tanti, tanti affanni…  Fa poi un’affermazione che, venendo da un francese, suona molto bella alle nostre orecchie: noi siamo venuti in Italia anche per impararne i costumi e la splendida lingua…

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L’intolleranza religiosa fa danni gravi all’ex docente a Padova, il Galileo matematico, che ignora i suggerimenti di Guicciardini di non andare a Roma dove…Non è da venire a disputare sulla luna né da volere, nel secolo che corre, sostenere né portarci dottrine nuove. Galileo, fiducioso nella “verità scientifica”, accetta di andare a Roma a dibattere sulle sue “Lettere sulle Macchie Solari”. Settantenne, viene condannato per avere ritenuto vero ciò che era falso e, chiamato criminale, subisce la tremenda umiliazione di dovere abiurare, maledire, detestare le sue idee errate (vere). Per inciso, è lo stesso anno in cui la prima grande opera scientifica della modernità, “Sulle Rivoluzioni dei Corpi Celesti” dell’ex-docente polacco a Padova Mikolaj Kopernik è messo all’indice fino a che non sarà corretto. Ma nulla subisce, il polacco, perché vive in Polonia, al tempo terra senza roghi.

E, sempre a proposito dei dissidentes in religione, l’Università di Padova ha una macchia sulla coscienza. Parlo proprio di un copernicano, un personaggio che dovrebbe essere studiato a fondo nelle scuole come pensatore e come uomo, una mente geniale, un ribelle, non corruttibile. Giordano Bruno. Anch’egli è una figura emblematica di peregrinatio academica. Impossibile contare i chilometri percorsi dalla sua fuga da Napoli a 28 anni, quando i domenicani lo accusano di eresia, al suo arresto quando ne ha 44. Ecco, per chi vuole riflettere, la sua peregrinazione attraverso le Università d’Europa dove studia, pubblica e insegna:

Napoli – Roma – Genova – Torino – Padova – Brescia- Chambery – Ginevra – Lione – Tolosa – Parigi – Londra – Oxford – di nuovo a Londra – torna a Parigi – Magonza – Wiesbaden – Marburg – Wittenberg – Praga – Tubinga – Academia Julia all’università di Helmstedt – Francoforte – Zurigo – ritorna a Francoforte per pubblicare e, alla fiera del libro, inizia la sua rovina perché viene invitato a Venezia e lui decide di accettare. È ormai considerato omo universale. Si ferma sulla laguna soltanto per pochi giorni perché preferisce raggiungere subito Padova. Qui insegna agli studenti tedeschi e chiede una cattedra di matematica. Ecco la responsabilità padovana: non gli danno la cattedra. Giordano torna a Venezia dove il suo “mecenate” finisce per denunciarlo all’Inquisizione. I giudici veneziani stanno per liberarlo quando, in seguito a forti pressioni politiche, lo “consegnano” a Roma. Il suo processo dura 7 anni, Giordano si rifiuta di abiurare, pare anche sotto tortura. Infine, i bagliori del suo falò in Campo di Fiori aprono l’anno del Signore 1600. Quando insegnava a Helmstedt si era detto felice e libero dalla gola e dalla voracità del lupo romano. Vedeva bene come l’integralismo religioso (al suo tempo come oggi) divora verità, libertà e vita.

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Un’ultima riflessione, chiudendo questo stimolantissimo volume, una nota tanto ovvia quanto dolorosa: ho letto una storia di maschi.

La condanna delle donne a non studiare e a non insegnare risale anche, in occidente, a quel cittadino romano di nome Saulo, ebreo ellenizzato nato nella coltissima città di Tarso in Cilicia (Turchia) dove Cicerone era stato governatore. Di Saulo è infatti l’affermazione perentoria ereditata dal mondo cristiano: Mulieres non docent.

In realtà, l’università di Padova ha anche il merito di annoverare una tra le prime donne laureate al mondo, un’affascinante figura, la veneziana Ludovica Corner. Suo padre, viste le doti straordinarie della figlia fin da quando era piccola, le aveva affiancato i migliori insegnanti. Lucrezia parla correntemente latino, greco, ebraico, francese e spagnolo; lo studio è la sua vita, acquisisce una cultura vastissima, appassionata di filosofia, teologia, letteratura, matematica, scienze e medicina. Quando ha già raggiunto fama europea, vuole laurearsi. A Padova. Il vescovo, cardinal Gregorio Barbarigo, persona per altro di indubbie qualità, dichiara che non se ne parla, sarebbe uno sproposito dottorar una donna e certo significherebbe renderci ridicoli a tutto il mondo. Con buona pace del Barbarigo, Ludovica, rinunciando a dibattere di teologia, ottiene infine di potersi laureare. Ha 32 anni ed è il 25 giugno 1678. Le viene conferito il dottorato in filosofia e medicina. Lei non pensa di incarnare una rivendicazione femminista. È intelligente, brillante e vive di studio, sembra quasi che abbia voluto laurearsi perché suo padre lo desidera ossessivamente, perché ai suoi successi, il padre tanto ne godeva che sembrava di vederlo ringiovanire.

Lo spiraglio aperto con la sua laurea viene immediatamente richiuso. Ci vorranno più di 50 anni perché un’altra donna si laurei in Italia (Laura Bassi, in fisica, a Bologna). La conquista femminile di Ludovica Corner, che nei dibattiti metteva in difficoltà i maschi più illustri, viene impalata con una dichiarazione dell’Accademia degli Infecondi di Roma dopo la morte di Ludovica, avvenuta quando è ancora giovanissima: In ea praeter sexum nihil muliebre (Non c’è nulla di femminile in lei, a parte il sesso).

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Il tempo sta facendo ammenda. Il Rettore dell’Università di Padova è oggi una donna. La maggioranza dei contributi che raccontano questa gloriosa storia di “maschi”, così come le due curatrici, sono Mulieres qui docent.


Le fotografie sono di Maria Luisa Paolillo

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