Raoul Precht
Periscopio (globale)

La libertà di Grace Paley

Nel centenario della nascita, rileggiamo i racconti di Grace Paley, la scrittrice che mescola le origini ucraine all'infanzia nel Bronx. Umorismo e capacità di sdrammatizzare sono le prime qualità delle sue pagine

In letteratura, quello che ogni tanto ci dimentichiamo di fare, benché sia indispensabile, è rivendicare la libertà. Una libertà assoluta. Libertà di scrivere bene e di scrivere male, libertà di ispirarci ai maestri e di misurarci con loro, libertà di superarci e di fallire. Senza la declinazione coraggiosa di tutte queste libertà (e di altre ancora) non c’è letteratura.

Pensavo a tutto questo nel riprendere in mano, con la scusa del centenario della nascita, i racconti di Grace Paley. Permettetemi una breve divagazione per confessare un debole per tutti gli scrittori nati l’11 dicembre, benché siano fra loro diversissimi: forse perché è anche casualmente la mia data di nascita, non saprei, fatto sta che me li sento tutti vicinissimi, tutti fratelli, da Algarotti a de Musset, da Mahfuz a Solženicyn, da Leblanc, quello di Arsenio Lupin (modello insuperato di ladro gentiluomo), a Grace Paley, appunto, scrittrice quasi per caso, che al genere del racconto breve ha però dato un contributo di tutto rispetto.

La libertà di ispirarsi ai maestri, dicevo, sovvertendone i termini e facendo magari tutt’altro. Ora, la Paley è una maestra nell’arte del dialogo, e il pensiero va subito a Hemingway, i cui dialoghi al cultore di letteratura angloamericana (e anche al lettore comune) sembrano poco meno che insuperabili. Poi arriva alla fine degli anni Cinquanta questa ancor giovane scrittrice, poco o per nulla inserita nell’ambiente letterario, una che fra l’altro detesta le virgolette classiche del discorso diretto e crea una serie di racconti in cui ogni paragrafo è espressione immediata di un personaggio, dei suoi discorsi esterni e interiori, con una capacità di registrare e rendere anche infime variazioni d’atmosfera e di tono. Ed ecco che a sembrarci insuperabile in questo campo è ora lei, l’impavida Paley.

Umorismo e capacità di sdrammatizzare sono le sue prime qualità. Come scrive nel racconto “Conversazione con mio padre”, uno dei più belli della raccolta Enormi cambiamenti all’ultimo momento, “è proprio questo il guaio dei racconti. I personaggi partono sempre bene. Sembrano straordinari, ma man mano che la storia va avanti salta fuori che sono solo persone normali con una buona educazione.” Sembra un commento buttato lì, in realtà è una dichiarazione di poetica: i personaggi a cui la Paley applica la sua lente d’ingrandimento sono appunto solo persone normali, ordinarie, talora persino noiose con i loro punti di vista sulla vita banali e raccogliticci. Eppure, nascondono nel loro carattere, nelle loro storie, nel loro vissuto, quelle virtù prodigiose ed eroiche di cui siamo e dobbiamo essere tutti intessuti – se, beninteso, intendiamo sopravvivere.

L’osservatorio da cui muove la Paley è del tutto particolare: nasce infatti nel Bronx da genitori ebrei provenienti dall’Ucraina – il suo nome in origine è Grace Goodside, ma il cognome è americanizzato dall’originale Gutseit. Inoltre, cresce in una famiglia di recente immigrazione, dato che il padre e la madre erano stati esiliati entrambi dallo zar Nicola II ed erano riparati inizialmente l’uno in Siberia e l’altra in Germania, prima di stabilirsi appunto nel Bronx. Una famiglia in cui, oltretutto, si parla più yiddish e russo che inglese, lingua che la nonna paterna addirittura ignora e il padre apprenderà per necessità leggendo Dickens. Grace non è solo la più piccola, ma è distanziata di ben quindici anni dagli altri fratelli, il che ne fa una specie di figlia unica in ritardo, un’adolescente per nulla facile e anzi piuttosto ribelle. A sedici anni milita in un gruppuscolo socialista e compie studi irregolari (proverà a sviluppare le sue doti poetiche studiando fra gli altri con W. H. Auden), per sposarsi poi con un cameraman da cui prenderà il cognome con cui è nota e al quale darà due figli, nati nel 1949 e nel 1951. Il matrimonio non durerà a lungo. Insofferente della vita da casalinga, Grace approfitta del tempo libero per scrivere, in particolare poesie e racconti, che proverà a proporre per la pubblicazione ricevendo numerosi rifiuti. Fino al 1959, anno in cui esce finalmente presso Doubleday la prima raccolta, The Little Disturbances of Man (Piccoli contrattempi del vivere, che qui in Italia diventerà poi il titolo con cui sarà pubblicata per Einaudi nel 2002 la prima edizione completa dei suoi racconti, in seguito riedita da Sur). Compare già in questo libro un personaggio semi-autobiografico, quello di Faith, che sarà protagonista di circa un terzo dei racconti e che spesso fa da megafono alle idee e convinzioni della stessa Paley, anche se con il tempo l’autrice ne prenderà le distanze. Ma soprattutto, questa prima silloge ha il merito di richiamare l’attenzione del New Yorker e di colleghi scrittori curiosi e anticonvenzionali come Philip Roth, che ne scriverà una recensione molto positiva.

Grace Paley (rielab. Succedeoggi)

La seconda raccolta, Enormous Changes at the Last Minute (Enormi cambiamenti all’ultimo momento), uscirà solo nel 1974 e con un diverso editore (Farrar, Straus & Giroux), dopo il tentativo (presto abbandonato) di tentare la via del romanzo. Fortunatamente per i lettori, la Paley si convince di aver trovato nel racconto – per lei più prossimo all’altro suo grande amore, la poesia, per sentimento e modo d’ispirazione – la misura giusta, e ne propone una nuova serie di diciassette, alcuni dei quali come si suol dire (ma in questo caso è vero anche in senso letterale) da antologia. Nel 1985 è la volta della terza raccolta, Later the Same Day (Più tardi nel pomeriggio), seguita nel 1994 dalla pubblicazione delle Collected Stories, che poi in tutto non saranno che una cinquantina di racconti. Nel frattempo, aveva pubblicato anche diverse raccolte poetiche, uscite in parte anche in Italia per Minimum Fax e Sur (Fedeltà e Volevo scrivere una poesia, invece ho fatto una torta), e inoltre un libro in cui combinava poesia e prosa e un volume di saggi sulla letteratura. Come molti scrittori statunitensi ha avuto anche una discreta carriera accademica, insegnando fra gli altri atenei alla Columbia e alla Syracuse University. Ma soprattutto si è tenuta sempre al centro della società civile, militando con fermezza e generosità per le cause nelle quali credeva, prima fra tutti il femminismo e i diritti delle donne, avversando fin dagli anni Cinquanta il riarmo e la proliferazione nucleare e scendendo poi in piazza contro la guerra nel Vietnam e più tardi contro quella in Iraq. Pacifista e anarchica, intellettuale liberal quasi da manuale, agnostica benché impregnata di cultura ebraica, sosterrà sempre di essere irriducibilmente contraria al sionismo e alla politica dello Stato israeliano.

Dicevamo della mostruosa abilità nel rendere i dialoghi di tutti i giorni. Ci sarebbe da aggiungere la sua capacità di muoversi in modo originale in quella malinconica e brillante Yiddischkeit già lumeggiata e penetrata da tanti altri narratori, a cui aggiunge un punto di vista che non è solo quello femminile, ma quello (per lo più) della giovane madre di bambini piccoli inchiodata al ruolo di genitrice, eternamente esausta, relativamente povera (anche se non indigente), sessualmente insoddisfatta – in pratica, se si vuole, l’altra metà dei mondi tratteggiati con finezza da un Bellow, un Malamud o dallo stesso Philip Roth, maneggiata con la stessa cura e la stessa precisione chirurgica che i colleghi avevano già applicato (o stavano applicando) all’universo maschile, e sempre in modo tale da allontanare la figura della donna e madre da quella tipica dello stereotipo del consumismo americano. Qui non parliamo dell’angelo del focolare di tanta pubblicità degli anni Cinquanta e Sessanta, di giovanette felici, ben truccate e acconciate, e soprattutto soddisfatte di svolgere le loro mansioni domestiche, ma il più delle volte di donne sole, maltrattate, ignorate o abbandonate alla loro sorte. Si veda a mo’ d’esempio questo passaggio in prima persona dal racconto “Desideri”: “Per ventisette anni di matrimonio non aveva mai smesso quei suoi commenti laconici che riuscivano a farsi strada attraverso le orecchie, giù per la gola, fin quasi al cuore, come il ferro di un idraulico. Poi spariva, lasciandomi con quell’attrezzo piantato in gola, a soffocare.” Donne che però resistono, tirano su i loro figli come possono, si assumono le loro responsabilità, reagiscono alle ristrettezze economiche e alle tragedie della vita con bellicosa testardaggine. Oppure, in un diverso contesto, donne di mezz’età come la zia Rose di “Goodbye and Good Luck”, che vive con gioia e umorismo la sua storia d’amore con un vecchio attore donnaiolo del teatro in yiddish, prendendosi una tardiva, ma non per questo meno godibile, rivincita morale nei confronti della famiglia che l’aveva sempre osteggiata.

A volte la Paley ritorna sul luogo del delitto. Una figura importante è quella del padre, raffigurato sempre con affettuosa ironia in “Conversazione con mio padre” e poi ripreso trent’anni dopo in un altro racconto dialogico che gli fa un po’ da sequel, oltre che, nel frattempo, ritratto anche in diverse interviste. Se in queste ultime la Paley ricorda come il padre fosse stato costretto, in quanto capofamiglia, alla riuscita sociale (integrazione, studi superiori, esercizio della professione medica), fino a immolare su questo altare ogni sua velleità, anche politica, nell’ultimo racconto citato – scritto, e forse non è un caso, da un’ottantenne che è quindi ormai vicinissima all’età del padre ormai da tempo defunto – emerge con prepotenza anche la figura della madre, alla quale a un certo punto il padre stesso è costretto a riconoscere finalmente quella superiorità culturale e intellettuale che, per ragioni sociali e di facciata, nella vita coniugale le era sempre stata negata.

Nei racconti della Paley non conta tanto quel che succede, e spesso, del resto, non succede granché: contano le tonalità, l’attenzione minuziosa agli atti linguistici, la capacità di cesellare e di cavare, ritornando sui testi finché non brillano come diamanti; conta insomma quel sottile understatement che ci induce a rileggere certi suoi brevi racconti più di una volta, per essere certi di coglierne tutte le sfumature. Perché i piccoli contrattempi e gli enormi cambiamenti dei suoi titoli vanno presi con estrema ironia e risiedono appunto più nelle sfumature del vivere che nei grandi eventi.

Una delle situazioni-tipo (si veda per tutti il racconto “Faith sull’albero”, in cui sono riassunti molti dei suoi temi) è l’osservazione disincantata e umoristica delle madri e dei loro bambini al parco. Già l’incipit è fulminante: “Proprio quando avevo più bisogno di una conversazione seria, di una ventata del vasto mondo, e cioè di almeno un compagno intelligente capace di tradurre il mio linguaggio amichevole nella sua lingua di immortale amore carnale, proprio allora ero costretta a stazionare ai giardini del quartiere, circondata da bambini.” Il volo quasi dannunziano della prima parte della proposizione crolla in un anticlimax che non lascia dubbi sul registro ironico che farà da sfondo alla vicenda. Oltre tutto, la meditazione di Faith che segue (meditazione alta, su “come andava il mondo”) sarà costantemente interrotta da quanto le accade intorno: “‘Faith, la vuoi smettere di filosofeggiare?’ dice Richard, il mio primo-e-disapprovante-genito.” È quello stesso “impertinente” Richard, ancora bambino, che alla fine del racconto prende coscienza da solo (e fa prendere coscienza agli adulti) delle ingiustizie sociopolitiche e dà vita a una pervicace e originale forma di protesta contro la polizia e a supporto dei manifestanti contro la guerra in Vietnam, caricando di un significato diverso questo mondo di bambini al parco, di mamme che li sorvegliano, di adulti che giocano a “mamma-e-papà”. Un mondo in cui il membro straordinario del consiglio dell’Associazione Genitori Uniti e Insegnanti Federati coltiva in ufficio marijuana, ma poi purtroppo si scopre che, non avendo figli, non ha alcun titolo di far parte dell’allegra brigata; un mondo in cui qualche mamma si rende conto di trattare il proprio pargolo come se fosse il marito, cioè “come se avesse quarantasette anni”; un mondo di gente semplice, un campionario della working class newyorchese, che reagisce con energia e una punta di umorismo a quanto accade nelle more del tran-tran quotidiano. Ma anche quando tratta temi politici come la coesistenza fra etnie diverse – perché è capace di mescolare sapientemente le appartenenze etniche e i diversi gerghi – la Paley riesce a non sembrare didascalica o semplicistica, a non trincerarsi mai dietro parole d’ordine, a far sempre esprimere i suoi personaggi con la massima naturalezza.

La scrittrice privilegia i finali aperti, al punto da far sembrare che i suoi racconti non abbiano né un vero inizio né una vera fine. E non, ancora una volta, per un partito preso narratologico, ma perché, come spiega in “Conversazione con mio padre”: “Qualunque personaggio, vero o inventato, si merita un destino aperto nella vita.” Tutti, insomma, meritiamo di sfuggire al determinismo cui qualche creatore o fustigatore di costumi vorrebbe sottometterci. Perché tutti noi – e ritorniamo al postulato iniziale – abbiamo in fondo sete di libertà.

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