Raoul Precht
Periscopio (globale)

La frenesia di Shelley

Percy B. Shelley ha attraversato come un fulmine la cultura poetica dell'Ottocento. Ma il suo mito ha resistito al tempo: la tensione dei suo versi, la loro vitalità e il loro vigore etico continuano a colpire i lettori. Anche a duecento anni dalla morte

Un semplice fatto di cronaca, un banale naufragio non lontano dalle coste di Lerici avvenuto cent’anni fa, l’8 luglio del 1822, avrebbe privato la letteratura inglese ed europea di uno dei suoi più sensibili e promettenti poeti. Come sempre avviene in caso di morte prematura, ci si può chiedere cos’altro ci avrebbe lasciato, se fosse vissuto più a lungo, un poeta lirico fresco, delicato e temperamentale come Percy Bysshe Shelley, ed è una di quelle domande alle quali, ovviamente, non c’è risposta. Possiamo solo intuire che il lascito sarebbe stato di ben altra portata, di ben diverso peso. Shelley ha lasciato il mondo ad appena trent’anni (era nato nel 1792), ma, al momento di finire disperso in mare, la sua esistenza avventurosa l’aveva portato altre volte sull’orlo del baratro. Già sei anni prima, il 22 giugno del 1816, si era ritrovato coinvolto in un altro naufragio, sempre nel contesto di una tempesta, ma in quel caso su un lago; e anche in quel frangente ci si era trovato in compagnia, con un amico conosciuto da poco, quel George Gordon Byron a lui così affine eppure per altri versi anche tanto diverso. Diverso persino nel trattare con elementi: si narra infatti che Byron reagì virilmente alle intemperie, pronto a gettarsi in acqua da provetto nuotatore e a trascinare con sé l’amico; mentre Shelley, che non sapeva nemmeno nuotare, quasi per una prefigurazione di quello che sarebbe accaduto in seguito fissava la scena senza reagire, come se si fosse staccato dal suo proprio corpo e assistesse alla paurosa avventura dall’esterno. Sarà proprio Byron, sei anni più tardi, e dieci giorni dopo il naufragio, ovvero il 18 luglio del 1822, a riconoscerne, insieme all’altro amico Trelawney, il corpo rigettato dalle acque sulle coste della Versilia dopo il naufragio della goletta Ariel, così chiamata in omaggio alla Tempesta shakespeariana, su cui Shelley si era imbarcato insieme a Edward Ellerker Williams e al marinaio Charles Vivian.

Sognatore, autore frenetico e immaginifico, appassionato di lettere ma anche di scienze e di quelle che oggi chiameremmo tecnologie, un adepto dell’aria che è però attratto fatalmente dall’acqua, versificatore di grande sensibilità e versatilità: Shelley è stato sicuramente tutto questo. Ed è stato anche l’autore di una poesia “illeggibile” e “da adolescenti” secondo il suo maggiore detrattore, T. S. Eliot, e al tempo stesso di versi cristallini e ispirati che sono ormai parte integrante del patrimonio poetico anche del nostro Ottocento, distillati per noi da esponenti di primo piano della nostra poesia tra Otto e Novecento, da Carducci a D’Annunzio. Ed è stato altrettanto sicuramente un poeta refrattario a grandi costruzioni e strutture, e invece attentissimo a ogni dettaglio, anche infimo, della natura, capace di renderne i mutamenti non solo in modo pittorico, ma anche con un verso musicale, dal ritmo incessante e palpitante. Se si vuole, e se ci si limita alla descrizione dei fenomeni naturali, la poesia di Shelley è con ogni probabilità una delle migliori sintesi di letteratura, pittura e musica che l’Ottocento abbia prodotto.

Dicevamo della sua esistenza frenetica, ed è in effetti uno di quei letterati la cui vita, sia pure per grandi cenni, va riportata, perché si rispecchia prepotentemente nell’opera. Nato in una famiglia della nobiltà rurale inglese, educato a Eton e per breve tempo allo University College di Oxford, da cui viene radiato con biasimo e grande scandalo per aver pubblicato, nel febbraio 1811, l’opuscolo The Necessity of Atheism, Shelley rompe anche con il padre e fugge in Irlanda con l’ancora adolescente Harriet Westbrook, da cui avrà due figli. Contemporaneamente, si avvicina al pensatore e filosofo William Godwin, di cui tenterà di propagare le idee in Irlanda e con cui in seguito avrà un rapporto quanto meno ambivalente (Godwin cercherà costantemente di sfruttarlo sotto il profilo finanziario). Mentre pubblica le prime opere poetiche, in seguito ripudiate, il matrimonio entra in crisi, anche per la passione suscitata in Shelley da una delle figlie di Godwin, Mary – la futura autrice di Frankenstein –, e per l’impossibilità di rassegnarsi a una quieta vita coniugale. Nonostante la nascita del secondo figlio Charles, Shelley lascia quindi Harriet e nel giugno del 1814 ripara con Mary in Svizzera; saranno accompagnati da Claire (in origine Jane) Clairmont, la sorellastra di Mary che si era invaghita (non troppo ricambiata) di Byron e gli darà una figlia, Alba, che però Byron chiamerà sempre Allegra. A salvare Shelley e Mary in quel frangente è una provvidenziale eredità, che consentirà loro di uscire dalle ristrettezze economiche e dall’assillo dei creditori, di passare l’estate sul Lago Lemano in compagnia di Byron e del suo segretario particolare John William Polidori – qui, come abbiamo già raccontato altrove, nasceranno fra l’altro Frankenstein e The Vampyre di Polidori: vedi https://www.succedeoggi.it/wordpress2021/09/polidori-e-il-vampiro/ – e di pubblicare le prime opere poetiche della maturità (benché parlare di maturità per un poeta ventiduenne sia forse paradossale). Nel 1816 Shelley avrà un primo figlio da Mary, e gli giungerà notizia del suicidio di Harriet (per annegamento!); contemporaneamente, il tribunale gli negherà per indegnità la custodia dei figli avuti proprio da Harriet. Ciò nonostante, l’anno successivo Shelley decide di tornare in patria, dove diverrà fra l’altro amico di Keats e dove gli nascerà un’altra figlia. Nel 1818 si trasferisce definitivamente in Italia, incontrando nuovamente Byron a Venezia e viaggiando anche a Napoli e nel Meridione. I due figli maggiori, Clara e William, muoiono piccolissimi, a breve distanza l’uno dall’altro, Clara a Venezia di dissenteria e William a Roma per una forma di malaria. Rimane la piccola Claire, di appena un anno. Malgrado la depressione che colpisce Mary e che spinge Shelley a concentrarsi sulla sua opera, alla fine del 1819 nasce un quarto figlio, Percy (il quinto se si considera anche Elena, che la coppia aveva adottato a Napoli nel dicembre del 1818, ma che potrebbe anche essere stata concepita con Claire Clairmont dallo stesso Shelley), e il Nostro compone alcune delle sue opere principali, la tragedia I Cenci e il Prometheus Unbound, definito da Yeats un “libro sacro”,  nonché due liriche suggestive come The Cloud e Ode to the West Wind. A queste seguono nel 1820 To a Skylark ed Epipsychidion e nel 1821 l’Adonais, elegia scritta quando Shelley apprese della tragica morte di Keats a Roma.

Questa, davvero per sommi capi, la vita, che è talmente piena di fatti ed episodi, amicizie e inimicizie, scandali veri e presunti da poter riempire interi volumi. Per quanto riguarda la figura di Byron, poi, l’amicizia fra i due è di una complessità estrema, se si considerano le vicendevoli influenze in campo poetico e un rapporto personale a dir poco ambiguo, dove il più esplicito dei due nell’invaghimento (poetico, e forse non solo) è Byron, mentre Shelley si trincera dietro le convenzioni dell’amicizia platonica e di un affiatamento esclusivamente intellettuale. Ma, lasciando da parte le questioni biografiche, in parte ancora da chiarire, quello che preme di più è sottolineare come nella poesia di Shelley, proprio per la sua intima partecipazione al tutto, si avverta sempre un legame filosofico intimo con l’oggetto trattato – che sia il vento, un’allodola o una nuvola –, così come la piena consapevolezza di un temperamento attivissimo, che lo porta a espandere e potenziare l’immaginazione. La sua capacità di immedesimarsi nelle altre persone, ma anche nei fenomeni naturali, è prodigiosa, e la ricerca della bellezza tanto cara a Keats va a imbricarsi nella poesia di Shelley con la ricerca di un avanzamento morale e sociale da cui l’ottimismo connaturato del poeta (e la speranza che incarna) non riesce a distaccarsi. “If Winter comes,” recita l’ultimo verso dell’Ode to the West Wind, “can Spring be far behind?” [“se arriva l’inverno, la primavera non è lontana” (qui e di seguito la traduzione è di Roberto Mussapi)]. Per Shelley non c’è verso, insomma, di bloccare il progresso, l’avanzare dell’umanità verso la luce.

Quest’ampia paletta di colori e sfumature si riflette anche, mutatis mutandis, nella varietà di forme e nella libertà della composizione poetica: se per esempio The Sensitive Plant è costituita da quartine in rima baciata, la citata Ode to the West Wind si compone di cinque strofe costituite ciascuna da quattro gruppi di tre versi e un distico finale, in pentametri giambici, seguendo lo schema dantesco della terza rima. To A Skylark, invece, presenta una struttura ancora una volta completamente diversa, con strofe di cinque versi, di cui i primi quattro in trimetri trocaici mentre il quinto, assai più lungo, è quello che si definirebbe un alessandrino (esametro giambico), con rime più semplici e immediate (schema ABABB) e una profusione di anafore (per esempio, la ripetizione delle comparazioni introdotte da un “like” dall’ottava all’undicesima strofa). Diamo qui un solo esempio, espressivo e anche linguisticamente significativo, del confronto poetico fra l’allodola e altre manifestazioni della natura: “Like a rose embowered / In its own green leaves, / By warm winds deflowered, / Till the scent it gives / Makes faint with too much sweet these heavy-winged thieves” [“come una rosa racchiusa / nelle sue foglie verdi / deflorata dai venti caldi / finché il suo solo profumo/ snerba con la dolcezza quei predoni”].

In entrambi i casi, come del resto in tutta la produzione poetica di Shelley, si assiste al tentativo di avvalersi di una serie di metafore non solo per descrivere la natura, ma per farne il perno di una riflessione personale, se si vuole di un’intera filosofia estetica e morale, alla ricerca di un’esistenza purificata ed etica nel senso più elevato del termine, dominata, per la sua capacità creativa e l’idealismo platonico, dalla figura del poeta – si veda per tutti l’Hymn to Intellectual Beauty, che celebra, come tutto il resto della sua opera, lo stare-al-mondo, la consapevolezza dell’importanza di esserci e di conversare con l’universo, senza chiudersi in un linguaggio esoterico, da iniziati. Filosofia che si esprime al meglio, come del resto in Byron e Keats, nella forma lunga, quella dei “longer poems” rispetto ai quali tutto il resto (tentativi poetici anche di grande pregnanza) non sembrava a Shelley che trascurabile frammento. Sarebbe ancora da ricordare il trattatello A Defence of Poetry, del 1821, in cui Shelley si sofferma sull’ispirazione poetica intesa come una forza piena di mistero, irrefrenabile e rutilante, tale da appianare tutti gli ostacoli di natura filosofica o pratica che possano tentare di frenarne l’andatura. “The functions of the poetical faculty”, scrive, “are twofold: by one it creates new materials of knowledge, and power, and pleasure; by the other it engenders in the mind a desire to reproduce and arrange them according to a certain rhythm and order which may be called the beautiful and the good.” [“La facoltà poetica ha una duplice funzione: una è quella di creare nuovi materiali di conoscenza, potere e piacere; l’altra di far sorgere nella mente il desiderio di riprodurli e organizzarli secondo un certo ritmo e ordine che possono essere chiamati il Bello e il Buono” (traduzione di A. Mazzola)]. Ed è poi l’ultima frase del trattato, in particolare, che deve farci riflettere e che assurge quasi a testamento del poeta: quando sostiene, senza tema di smentita, che “poets are the unacknowledged legislators of the world” [“i poeti sono i legislatori non riconosciuti del mondo”].

Oggi, se si vuole rendere omaggio a Shelley, basta andare al Cimitero acattolico di Roma, dove si può sostare davanti a una lapide che riporta non a caso alcuni palpitanti versi della Tempesta. Oppure, per gli amanti dei viaggi, recarsi a Oxford, entrare in quello stesso University College che a suo tempo l’aveva espulso, girare subito a destra e penetrare nel sancta sanctorum formato da una specie di cappelletta laica, un piccolo duomo vittoriano. Vi troverete allora nello Shelley Memorial, il cui pezzo forte è un monumento di Edward Onslow Ford, commissionato dalla nuora di Shelley, che raffigura il corpo di Shelley nella posizione (immaginaria) in cui fu ritrovato sulla spiaggia.

È forse un po’ paradossale che a celebrare “Mad Shelley”, come lo chiamavano a Eton, sia proprio lo University College, un luogo dove Shelley era stato osteggiato e disprezzato, tanto che in sei mesi non aveva legato con nessun altro studente. Del resto, uno che nella sua giornata passava sedici ore filate a leggere ignorando il resto del mondo, non era fatto per essere troppo popolare in un college. Ma, tornando al monumento, malgrado le molte critiche ricevute all’atto dell’inaugurazione, per il suo realismo è stato poi considerato da Francis Haskell uno dei migliori esempi di scultura vittoriana a Oxford, ed è davvero pregevole anche il contrasto (all’epoca innovativo) fra la base in bronzo e la statua di marmo bianco.

Nel corso degli anni pare che gli studenti si siano divertiti spesso a profanarlo in vari modi, anche piuttosto fantasiosi, e non è poi così certo che l’anticonvenzionale e iconoclasta Shelley li guardi dall’alto dei cieli con fiero cipiglio, rimproverandone le intemperanze. Al posto loro, forse avrebbe fatto lo stesso.

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