Gianni Cerasuolo
La morte di Pelè/1

Ciao, Pelè

È stato il più grande, O Rei? Pelé è stato il vertice, l’icona globale prima di altri, il calciatore del secolo, quello dei 1283 gol (oh no, sono 761; no, sono…), dei tre titoli mondiali. Un emblema come Maradona o Cruijff

A quei tempi si andava a vedere Pelé. Come fosse Elvis Presley o Jabbar, che allora si chiamava Lew Alcindor. Adesso che O Rei do Futebol è morto, riaffiora il ricordo di un giorno.

12 maggio 1963: Italia batte Brasile, bicampione del mondo, 3-0. Era una giornata chiara quella domenica milanese, San Siro non aveva coperchi sulla testa ma il campo presentava anche allora poca erba verde ed era segnato da strisce bianchissime. Eravamo lì, due giuvinotti venuti da Napoli, un viaggio di notte in treno che ci aveva rotto le ossa. Si saliva al Nord per andare a trovare parenti, per scoprire cose. Lo zio emigrato ed interista aveva avuto dei biglietti ed era eccitato: la domenica precedente aveva festeggiato lo scudetto dell’Inter di HH, il primo dell’epopea di Angelo Moratti, e voleva vedere l’esordio di Sandrino Mazzola (e Aristide Guarneri) con la maglia azzurra. Noi due invece non avevamo occhi che per lui: Pelé, Edson Arantes do Nascimento, la Perla nera, O Rei, il Fenomeno primordiale, l’Extraterrestre.

Il Brasile girava il mondo come gli Harlem Globetrotters. In questo modo vendeva più caffè e monetizzava il titolo conquistato l’anno prima in Cile, dove Pelé non ci fu quasi,una partita e mezza perché si fece subito male. In quella tournée europea i sudamericani avevano giocato già sei match prima di San Siro vincendone due (con Francia e Germania), perdendone tre (con Portogallo, con il Belgio, una batosta: 5-1, e Olanda) e pareggiando con l’Inghilterra. Erano stanchi, fiaccati, logorati. Pure Pelé si trascinava con dolori e doloretti. In Germania, ad Amburgo, alcuni di loro ebbero un incidente stradale: il taxi su cui erano saliti Djalma Santos, Zito e Pelé aveva fatto tozza tozza con un tram.

Non erano venuti i migliori di loro. Perlomeno non c’erano in quella gara con l’Italia. E non ci fu nemmeno Pelé. Trapattoni lo morsicò come un mastino che ti afferra un polpaccio. Pelé era svogliato, sofferente, pensieroso. Rifletteva probabilmente sul suo futuro e sul fatto che di lì a poco avrebbe dovuto abbandonare il suo Paese e la sua squadra, il Santos. In quei giorni Moratti aveva mandato Italo Allodi a trattare con la corte di O Rei e il Metternich del calcio aveva vinto all’apparenza quel negoziato: erano pronti 600 milioni di lire, un bel po’ di quattrini anche allora, affinché il più grande giocatore al mondo si trasferisse all’Inter. Mancava soltanto la firma sui contratti. Alla fine Pelé non scrisse il suo nome sotto quei fogli, non lasciò il suo Santos e non venne mai a giocare in Europa. Abbandonò il club santista molto tempo dopo quando fiutò il grande affare e si trasferì a New York dai Cosmos, come un pensionato che se ne va a Miami.

Non passò neanche mezzora di quella partita amichevole che Pelé lasciò il posto a Quarentinha («Guagliò, simme venuti a Milano pe’ veré Quarentinha: e chi cazz’è?»). Uscì tra qualche fischio. A quel punto cominciammo a vedere i gol dell’Italia: Sormani, che si fiondò su una palla respinta da Gilmar; poi Mazzola, a cui Rivera lasciò tirare un rigore: erano ancora lontani i veleni delle staffette e il ct dell’Italia di allora, Mondino Fabbri, quello marchiato poi dalla Corea (ma fallì anche la qualificazione agli Europei del ’64, con Mazzola che sbagliò un rigore contro l’Unione Sovietica all’Olimpico), faceva giocare insieme i due giovani campioni; infine la rete di Bulgarelli, innestato da Sandrino.

Un po’ di mesi dopo quella domenica, il 16 ottobre, Pelé ritornò a San Siro con il Santos per giocare contro il Milan la finale d’andata della Coppa Intercontinentale. Addosso aveva sempre Trapattoni, autore tra l’altro di un bellissimo gol, una bordata di destro al volo da fuori area su un traversone di Amarildo. Quello fu un Pelé protagonista, segnò le due reti santiste, una su rigore. I sudamericani subirono quattro gol: dopo Trapattoni, per la squadra rossonera andarono a segno due volte Amarildo e infine Mora. Alla fine però la Coppa fu conquistata dal Santos dopo rivincita e bella in Brasile (assente Pelé) con tante polemiche per l’arbitraggio. Accadde il 16 novembre 1963: sei giorni dopo, gli spari di Dallas uccisero John Fitzgerald Kennedy.

È stato il più grande, O Rei? Sì insieme a quell’altro dio del calcio, quello brutto e sporco, nato nella baraccopoli di Villa Fiorito, periferia di Buenos Aires, Diego Armando Maradona, povero come lui, Pelé, che da ragazzino faceva il lustrascarpe. Ora sono lì che litigano per un pallone.

Pelé è stato il vertice, l’icona globale prima di altri, il calciatore del secolo, quello dei 1283 gol (oh no, sono 761; no, sono…), dei tre titoli mondiali. Un emblema come Maradona o Cruijff. Ma certe classifiche sono pleonastiche come i conteggi dei gol. Alimentano il dibattito infinito e la retorica sul migliore di sempre. Pelé è documentato, la sua vicenda ha riempito tv e film, su di lui è stata scritta ogni cosa. È successo anche per el Pibe argentino e per il Profeta del gol olandese, per Platini e Ronaldo O fenomeno, per Van Basten e Baggio. E tutti questi ebbero a disposizione prove anche maggiori. Dove sono, invece, le pellicole di una giocata di Schiaffino oppure di Meazza? E chi parla più o ci mostra qualcosa di Di Stefano? Fonti, gesti, regole, velocità, terreni di gioco: tutto può essere diverso nelle epoche di uno sport.

Vidi per la prima volta Pelé, ben prima di Milano, nel televisore del vicino di casa alla fine degli anni Cinquanta: nel 1958, quando a giugno si giocarono i Mondiali di Svezia, non tenevo ancora dieci anni e le maglie non avevano colore, il pallone neppure, tutto era bianco e nero, anzi grigio. Lui sembrava un ragazzo smarrito: <Quando arrivai in Svezia credevo che il Brasile fosse molto conosciuto in Europa. I ragazzini svedesi mi toccavano il viso per vedere se veniva giù il cerone. Pensavano che fossi truccato…> ha raccontato. Portava i capelli rasati per tutta la nuca e calzoncini bianchi arricciati in vita. Aveva indossato per la prima volta la maglia giallo-oro con i bordi verdi della nazionale nel luglio del 1957: tre mesi prima di raggiungere i 17 anni.

Tuttavia bastava che l’arbitro fischiasse l’inizio di una partita e quell’aria timida spariva e lo vedevi fare cose dell’altro mondo. A lui e agli altri. Perché la fortuna di Edson – gli piaceva quel nome perché il padre, disse una volta, pensò proprio a Thomas Alva Edison, l’inventore (o quasi) della lampadina; in realtà lui preferiva il soprannome Dico a quello di Pelé perché la madre lo chiamava Dico – dunque, la fortuna di Edson fu anche quella di giocare in uno squadrone: Djalma e Nilton Santos, Didì, Vavà, Garrincha, Zito, Gilmar. Uno dei frame impressi nella mia testa, e in quella di tanti altri, è il gol che fece nella finale di Stoccolma contro la Svezia: prese con il petto una palla alta che arrivava dalla sinistra, un messaggio di Nilton Santos, come se il terzino gli avesse detto: vai, prendila e buttala dentro; Pelé la stoppò con il cuore, la palleggiò di destro, soffiando sulla palla come fosse una piuma, la fece passare sulla testa dell’avversario (oggi chiamano quella mossa sombrero), e prima che il pallone toccasse terra lo colpì con il collo del piede quasi ricadendo indietro: una sciabolata nell’angolo destro del portiere che nel frattempo si era disteso tutto quanto, inutilmente, da quella parte.

La salita al trono iniziò così. Gianni Brera, vedendolo giocare, descrisse a modo suo qualche gol di Pelé. E lo fece pensando a Leopardi e alla Sera del dì di festa, la lirica che inizia con Dolce, chiara è la notte e senza vento: «Bene: adesso guardate Pelé. Dolcechiaré: ha alzato il piedino prensile: lanotte: la palla si è fermata al primo contatto e senza vento: ricade ammansita sull’erba: un piedino prensile l’accarezza mentre l’altro spinge…».

Dodici anni dopo la Svezia, nel 1970 a Città del Messico, Pelé si issò in cielo a prendere un altro cross, questa volta di Rivelino, sovrastando il povero Burgnich, e colpì di testa violentemente in rete. Due settimane prima contro l’Inghilterra sempre di testa stava realizzando una nuova impresa ma quella volta trovò sulla sua strada un altro grande, Gordon Banks, il portierone dei bianchi, il quale tolse letteralmente dalla porta quel pallone che il brasiliano aveva schiacciato verso il terreno. Per dire che la Perla nera non era soltanto uno che danzava con il pallone, che dribblava da far impazzire: era anche un buon atleta. Pare che al rientro negli spogliatoi dell’Azteca, con la terza Coppa del mondo conquistata, quella Coppa Rimet che andò definitivamente ai carioca, Pelé abbia urlato, quasi singhiozzando: «Non sono morto, non sono morto…». Il Sunday Times titolò dopo il 4-1 all’Italia: «Si scrive Pelé, si legge Dio».

Lui sapeva già che quello sarebbe stato il suo ultimo Mondiale.

Neanche voleva andarci in Messico, Pelé: era stressato, aveva subito troppe pressioni. Da lì quell’urlo liberatorio nella pancia dello stadio messicano. In Inghilterra, quattro anni prima, lo avevano massacrato di calci pur di fermarlo. Il portoghese Morais si accanì su un ginocchio già sofferente nel 3-1 dei lusitani contro i verdeoro, quello dell’eliminazione e dei due gol di Eusebio. «Non voglio più giocare un Mondiale», si sfogò. «È il secondo dove finisco infortunato». E molti anni dopo rivelò: «Quello fu il momento più triste della mia vita. Volevo abbandonare tutto e tutti». Pelé aveva paura di restare vittima di qualche danno serio che poteva spezzare una carriera che stava diventando una miniera di pepite d’oro. Ha sempre saputo badare ai suoi affari, Pelé. E poi c’era Saldanha, il giornalista-allenatore comunista che non lo amava troppo. E che venne fatto fuori dal regime dei militari golpisti pur avendo condotto la squadra in Messico senza sconfitte. La selezione venne affidata a Mario Zagallo, ex compagno di nazionale di Pelé in Svezia e in Cile. Finì in gloria.

Pelé in patria e fuori veniva (e viene, lo abbiamo visto con la sua morte) venerato come una divinità, gli sponsor lo ricoprivano di soldi, le aziende di caffè gli intitolavano alcune miscele, agli inizi degli anni Settanta guadagnava più di 400 milioni di lire all’anno, probabilmente pensò anche alla carriera politica (in realtà ha fatto il ministro dello sport con il presidente Cardoso negli anni Novanta). Pelé servì anche ai militari, al regime dei Gorillas. Dopo i successi mondiali, in Brasile si vedevano gigantografie del calciatore con sotto lo slogan: «Ninguen mai segura este Paìs», cioè: nessuno potrà mai fermare questo Paese. Che venne privato della democrazia dal 1964 fino alla fine degli anni Settanta. Ma solo nella prima metà degli anni Ottanta la gente potette votare liberamente.

Edson ha confessato davanti alla cinepresa del film a lui dedicato, prodotto e distribuito da Netflix (Pelé: il re del calcio di David Tryhorn e Ben Nicholas): «Mi chiedono: cosa facevi durante la dittatura? Da che parte stavi? Beh, ti perdi in queste cose. Sono un brasiliano e voglio il meglio per la mia gente. Non ero un eroe, non facevo miracoli, ero una persona normale a cui Iddio ha concesso il dono, il privilegio di essere un calciatore. Ma sono certo di aver fatto molto di più per il mio Paese con il calcio di quello che hanno fatto tutti i politici pagati per fare il bene del popolo». Anche quel titolo conquistato in Messico distrasse il Brasile: «Se il Brasile avesse perso quella finale con l’Italia, la situazione interna sarebbe precipitata». E lui adesso ammetteva: «I Mondiali del 1970 hanno giovato più al Brasile che al calcio». «Ma non fu la vittoria di Garrastazu Medici, fu la vittoria di Pelé» lo rincuoravano gli amici.

Parla tanto O Rei in quel film-documentario. Ricorda i suoi amori, la sua vita fuori dai prati verdi: «La mia prima relazione seria fu con Rose… Eravamo attratti l’uno dall’altro ma l’amore folle, quello irresistibile, non lo abbiamo mai provato entrambi… Firmavo continuamente dei contratti per pubblicizzare questo o quel prodotto. Ero in giro per il mondo più per queste cose che per il calcio. Per lei deve essere stata dura. Così come per me è stata dura rimanere fedele. Ho avuto alcune relazioni da cui sono nati dei figli. Ma sono venuto a saperlo più in là con gli anni. La mia prima moglie sapeva tutto, non ho mai mentito a nessuno». Parlano anche i suoi ex compagni di campo. Paulo Cesar Lima gli rinfaccia i suoi comportamenti: «Era un ragazzo nero che diceva sempre sissignore. Un nero sottomesso che accettava tutto e non rispondeva, non domandava, non giudicava».

Pelé lasciò la nazionale un anno dopo il Messico, nel 1971, a 31 anni. E nel ’74 salutò il Santos mentre Zagallo lo voleva ancora per la rassegna iridata in Germania. Quando disse addio alla squadra della sua vita, O Rei interruppe ad un certo punto la partita, si inginocchiò nel cerchio del centrocampo, allargò le braccia e si girò verso tribune e posti popolari: sembrava il Cristo di Corcovado formato mignon. E ringraziò Dio. Fu una finta. L’anno seguente Pelé firmò un sontuoso contratto con i Cosmopolitan di Steve Ross, il tycoon della tv via cavo, padrone della Warner Comunications e della Panavision e di tante altre cose, uno che pensava di far diventare quella squadra in cui avrebbero dovuto giocare le più grandi star del calcio una sorta di brand. Pelé avrebbe guadagnato milioni di dollari in tre anni. Si racconta che per farlo arrivare negli States si movesse anche Henry Kissinger ma quei contratti miliardari lo convinsero più delle chiacchiere (aveva anche bisogno di soldi perché aveva sperperato un bel po’ di grana). «Potete annunciare al mondo che il calcio è arrivato negli Stati Uniti» proclamò Edson al suo arrivo. E tante stelle e stelline si riversarono in America: Carlos Alberto, che detestava il suo celebre connazionale, Beckenbauer, Chinaglia, che riuscì a litigare anche con Pelé, Wilson e per qualche partita anche Cruijff. Era il soccer che avanzava. Dieci anni dopo fallì.

Suscitava pena e commozione Pelé mentre si raccontava trascinandosi con un deambulatore. Lui, che fu anche testimonial di una carta di credito su cui era stata stampigliata una sua rovesciata, forse quella che gli vedemmo fare in Fuga per la vittoria, il film di John Huston, era ormai un corpo in rovina. Lui, sempre in giacca e cravatta, testimonial Fifa, quello buono e pulito, borghese ricco e felice. Quando venne operato all’anca nel 2020 cadde in depressione. Non riusciva più a camminare, pare che avessero sbagliato la rieducazione. E l’anno prima era stato ricoverato d’urgenza in una clinica francese per una infezione del tratto urinario. Ma non si seppe molto di più. Qualche anno prima accusò forti dolori allo stomaco. Anche a quei tempi si vociferò di problemi ai reni. Forse quando era a New York gli venne asportato un rene con un intervento fatto in gran segreto. Si parlò già allora di un tumore. Malattia che alla fine lo ha devastato. Ad ottobre aveva compiuto 82 anni. «Dio mi sta presentando il conto» aveva detto O Rei del calcio prima che la notte piombasse su di lui.

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