Marco Vitale
“Lettere all’innamorata”

Thierry Metz , il mestiere di vivere

La tormentata esistenza del poeta francese, bene si coglie nel canzoniere dedicato alla moglie e ora pubblicato a cura di Pasquale Di Palmo. Una poesia che è un miracolo di semplicità, «un dettato scarno, in cui niente di superfluo può essere accolto»

La voce di Thierry Metz (Parigi 1956 – Bordeaux 1997), tra le più suggestive e inquiete della poesia francese sullo scorcio del secolo scorso, sta diventando sempre più conosciuta e apprezzata anche in Italia, dove in questi ultimi vent’anni, a partire da rare e piccole sillogi, nuovi studi e traduzioni sono valsi a orientare su di essa un’attenzione cordiale e non episodica. La proposta di uno dei libri più importanti del poeta francese, le Lettres à la Bien-aimée uscito da Gallimard nel ’95, viene ora a consolidare quest’attenzione, e il merito va diviso tra le belle edizioni Il Ponte del Sale e il poeta Pasquale Di Palmo che ne offre una resa misurata e partecipe (Lettere all’innamorata, Rovigo 2022, 178 pagine, 22 euro) accompagnandola con uno scritto che introduce all’opera e alla tormentata esistenza del suo Autore. Scrittore sostanzialmente autodidatta, Metz lascia Parigi al termine degli studi liceali e va a vivere con la giovane moglie Françoise Fenautrigues – la Bien-aimée – ad Agen, sulle sponde della Garonne, dove inizia a lavorare come manovale e come operaio agricolo e tra le continue difficoltà di un lavoro che lo opprime matura la sua vocazione alla poesia cogliendo presto riconoscimenti importanti: il Prix Ilarie Voronca gli è attribuito il 20 maggio del 1988, lo stesso giorno in cui il suo secondo figlio, Vincent, muore investito davanti ai suoi occhi. 

Dalla morte di Vincent Metz non si riprenderà più; inizia così un calvario di depressione, alcolismo, ricoveri in ospedali psichiatrici che si conclude tragicamente nel 1997. In questo decennio si situano i suoi lavori più importanti: Le journal d’un manoeuvre (Gallimard 1990), L’homme qui penche (scritto durante l’ultimo ricovero e uscito postumo nelle Éditions Opales/Plein Page 1997) e appunto, in significativa posizione mediana, le Lettres à la Bien-aimée, un singolare canzoniere composto nei nove mesi in cui Metz è lontano da casa per partecipare a un corso da muratore. La valenza epistolare di queste poesie, e di queste prose, appare subito chiara fin dal componimento d’esordio «nella stanza dove ogni sera accendo per te un quadernetto con occhi di merlo». Sono componimenti brevi, sottratti alla durezza del giorno e in essi parlano, senza mai alzare la voce, la nostalgia amorosa e la tristezza immedicabile per la scomparsa del figlio; sono testi presi nella scansione di un percorso che muove per improvvise epifanie: «Amo allungarmi verso te, la sera, senza le spighe della lampada, una mano sul tuo ventre, il mio viso affondato tra il collo e i capelli. / Là: un uccello potrebbe posarsi, senza timore».

La scrittura di Metz, il suo breve giro di parole, stabiliscono un dettato scarno, antiletterario, in cui niente di superfluo può essere accolto, pena il mancato rispecchiamento di una poesia che si vuole pienamente esistenziale e fa i conti ogni giorno con un durissimo mestiere di vivere. Quanto porta a una fisicità della parola, nella sua chiarità enigmatica non esente da echi cristologici: «Ciò che avverrà non sarà che il racconto di un nomade, tracciato sulla sabbia con dito infantile».

La parola è essa stessa stanza e come tale ha il dono di accogliere, di illuminare («Ho svuotato la pagina per farti entrare. / Per farti abituare ai colori di ogni parola»). Si tratta di un momento centrale di questa poesia, di un consapevole fil rouge che attraversa il libro, ne rileva i tratti salienti, ne sconta le aporie («Oggi la scrittura va male, tarda a scaldare la stanza»). Così il legame con il dato di realtà, la “presenza” – a voler usare un termine caro alla poetica di Bonnefoy – è leva a un ribaltamento di senso, a un cambio inaspettato di visione. «Ciò che può sembrare un universo di banale mediocrità – scrive Jean Grosjean, tra i primi a riconoscere la qualità della poesia di Thierry Metz – si dà invece come una meraviglia. Ed essa non ci strattona per la manica come gli ambulanti al mercato. Parla a mezza voce e la sente chi vuole. Dice: chiunque tu sia i tuoi attimi non contengono altro, ma sono miracoli».

Tale semplicità, tale miracolosa asciuttezza, tale «scrittura che non può accontentarsi di scrivere» dal fondo di un’esistenza minata dal dolore, appaiono comprese di una fiducia profonda, quale non sembra venir meno e fa scrivere al poeta: «Quasi ogni istante andiamo verso la parola più semplice, verso un campo. / Solo l’asino può entrarci. / Trovarci l’erba». Come non pensare, letti questi versi di rastremazione, allo sguardo degli asini di Francis Jammes? Come non pensare a Balthazar, nel bianco e nero della cameradi Robert Bresson?

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