Giuliano Compagno
#boycottqatar2022

Il calcio è finito

Il mondiale in Qatar è l’ultimo figlio degenere di una stagione che ha trasformato lo sport in una macchina da soldi, violenza e ignoranza. Spegnere il televisore, fregarsene di chi vinca sarà il minimo, dato che già sappiamo chi ha perso

Dalla potente denuncia di Gianni Cerasuolo (clicca qui per leggerla) e dal commento di Arturo Belluardo (clicca qui per leggerlo) sul prossimo campionato in Qatar, deriva l’amarezza per un mondo, quello del calcio, che è stato distrutto. Nulla è rimasto della letteratura che ne aveva illuminato le cronache, come le due pagine in cui Obdulio Varela, capitano dell’Uruguay campione del mondo, racconta la sua serata a Rio tra gente disperata: «Loro avevano preparato il Carnevale più grande del mondo e se l’erano rovinato. Mi sentivo male. Sarebbe stato bello vedere quel Carnevale. Avevamo un titolo ma cosa importava al confronto con tutta quella tristezza?». Nemmeno si sa dove siano finiti i due celebri versi di Umberto Saba e con lui «il portiere caduto alla difesa ultima vana…». Smette persino il diluvio di pensieri di Edmondo Berselli, che aveva inondato il campo all’inizio e alla fine di un’azione solitaria di Mario Corso conclusa con il più mancino dei tiri.

E Fernando Acitelli lo ricordate? Pensate che il calcio era talmente un’altra cosa che La solitudine dell’ala destra resterà il libro di poesia contemporanea più venduto degli ultimi 50 anni! 

Copia romana 
d’eroe greco, 
allineato in sale 
pompeiane accanto 
a Dèi propizi. 
In dono a te fu data 
la saetta e la forza 
nei vortici di sfida. 
Alla causa azzurra 
due gambe donasti, 
ma agli eroi 
innocuo giunge il male 
e il tempo. 

Le gambe erano di Luigi Riva. Da allora non sono trascorsi secoli, sono bastati un paio di decenni di business per mutare quelle figurine umanissime in pupazzi di plastica.

Andiamo a rivedere i ritratti dei giocatori di allora. Ci stupiscono: esili, un tono muscolare appena potenziato grazie alle corsette e a una decina di attrezzi da palestra, i loro volti scavati dal sacrificio e dal senso di responsabilità che erano figli delle madri e dei padri di quel tempo, entrambi convinti che sarebbe stato meglio far terminare a quel monello il Quinto di Ragioneria invece che scarrozzarlo in 600 da casa al campo.

E le vite di quei campioni d’antàn, non erano romanzi piuttosto che storielle d’appendice? Quando mi proposero di scrivere i profili di una decina tra i cinquanta fuoriclasse di ogni tempo, percepii l’abisso che separava le vuote esistenze degli atleti di oggi dalle vite di quegli eroi di carne che i bambini avevano tanto amato. Alfredo Di Stefano il 24 agosto 1963 viene rapito dalle Forze Armate di Liberazione Nazionale del Venezuela, capisce al volo che hanno ragione loro e con loro discute sul meglio da fare per poi essere rilasciato giorni dopo nel centro di Caracas come se gli fosse trascorsa qualche ora con degli amici. Sandro Mazzola cresce nell’orfanità del mito paterno e lo sfiora con rispetto per tutta la sua carriera. Garrincha, una gamba più corta dell’altra e le ginocchia a vanvera, alcolista, donnaiolo, indisciplinato… l’antitesi di uno sportivo che però assurgerà a figura inimitabile, romantica, adorata e per sempre ricordata da un’inscrizione nel cimitero Raiz de Serra: «All’allegria del Pau Grande, all’allegria del Magè, all’allegria del Brasile, all’allegria del mondo». 

Se siamo arrivati a boicottare un mondiale di calcio, vi sono due ordini di ragioni: la principale pesa quale conseguenza insopportabile ed estrema di un sistema e di un’organizzazione sporchi di soldi e di sangue che Cerasuolo ha esposto nei dettagli: «Il quotidiano inglese The Guardian ha calcolato che tra il 2010, anno in cui la Fifa decise di far rotolare il pallone nel deserto, e il 2021 siano stati 6500 i lavoratori morti nella costruzione di stadi, alberghi, autostrade. Una strage. Paghe da fame, ore e ore di fatica sotto un caldo soffocante, miseri alloggi, ricatti: osservatori neutrali e Nazioni Unite hanno parlato di “moderna schiavitù”». 

D’altronde altre motivazioni starebbero all’origine di tali orrori, da esse risalendo il progressivo snaturarsi di uno sport popolare che, in pochi anni, è stato trasformato in un circo. In breve dunque, e per passi successivi, agli inizi degli anni ‘70 accadono alcuni fatti assai indicativi: nella semifinale dei mondiali messicani sconfiggiamo la Germania per 4-3 dopo una partita di titanica abnegazione. Per conseguenza milioni di persone si riversano in festa nelle strade del Paese, e lo fanno sventolando la bandiera nazionale, evento che rompe un tabù nazionalista durato per un quarto di secolo. È una sorta di rivolta contro la politicizzazione intellettuale di una gioventù senza giochi né medaglie, che si esaltava più con Ho Chi Minh che con Gianni Rivera. Non basta: l’anno dopo al Sant’Elia di Cagliari ha luogo un’amichevole tra Italia e Spagna. Ferruccio Valcareggi manda in campo una formazione priva di cagliaritani, sicché l’Italia viene fischiata in casa dal primo all’ultimo minuto. Non era mai successo e poco dopo ci si accorge che la contestazione non è affatto calcistica ma nasconde una generale rivendicazione separatista. Basterà una ricerca statistica a chiarire che a volere una Sardigna Natzione era già il 30% degli isolani.

Curiosamente ma non troppo, l’ibridazione tra calcio e politica non spaventa il potere costituito, anzi… Sono anni di morti e feriti e di strategia della tensione, per cui tale commistione può far comodo. Si decide di agevolare il travaso di migliaia di militanti dalla politica attiva al tifo organizzato. Per conseguenza le curve di serie A e B si affollano di giovani a cui non è rimasto mezzo ideale nel cervello; soltanto uno straccio di illusione identitaria in nome dei colori della squadra amata. Per le autorità è una manna: possono controllare, irreggimentare e schedare decine di migliaia di ultras, che oltretutto si suddividono apertamente sotto svastiche, falci, croci celtiche e stelle brigatiste. In pratica quelle giovani menti di una rivolta terra terra applicano contro loro stessi una frase di Oscar Wilde: «Il rugby è una buona occasione per tenere lontani trenta energumeni dal centro della città». Mutatis mutandis… 

Nel 1980 la Lega Calcio riapre, dopo un autarchico ventennio, agli ingaggi di calciatori stranieri. In pochi anni arrivano tutti i migliori e quello italiano diventa il campionato di eccellenza del calcio internazionale. Siamo forti, siamo campioni del mondo, paghiamo più di tutti e abbiamo Maradona, Zico, Platini, Krol, Falcao e Cerezo: il Gotha. Intanto anche le dirigenze si politicizzano: presidenti che diventano senatori, parlamentari che vanno a comandare nelle istituzioni sportive. Oggi è considerata prassi, ieri suonava come una pessima novità. 

Il 15 dicembre 1995, con la Sentenza Bosman, viene approvata una norma secondo cui i calciatori dell’Unione Europea possono trasferirsi gratuitamente, alla scadenza del contratto, in un altro club, in piena libertà di firmare i loro precontratti sei mesi prima della scadenza con la vecchia società. Fatta la nuova regola, di inganni se ne trovano a decine: il mercato diventa un’asta permanente; gli ingaggi schizzano a cifre pazzesche, immorali e indecenti; di questo montare incontrollato si fregia come di una medaglia al valore (il suo valore) Silvio Berlusconi che, divenuto pre$idente del Milan, ha messo su un’eccezionale squadra vincente e ha preso a spendere miliardi, in alcuni casi per pippe assolute, offrendo stipendi da nababbi. Il tutto in nome dello spettacolo e del “bel giuoco” (egli lo pronuncia giuoco perché gli pare fine e quasi agnelliano); va da sé che, sotto qualsiasi bandiera, gli acquisti e gli ingaggi di calciatori stranieri diventino talvolta occasioni d’oro per esportare tanta valuta clandestina se non quando per “ripulirla”.

Da allora in poi tracima qualsiasi schifezza: gli ultras comanderanno le società di loro fede; oligarchi russi, tycoon americani, sceicchi e principi arabi rileveranno storiche società europee superando ogni sensato limite di spesa e di evasione, sino a pazzie meritevoli di una seconda rivoluzione francese con tanto di picche e Bastiglia (nel 2023 Kylian Mbappé guadagnerà 90 milioni di euro l’anno); il calcio diventerà uno spettacolo comprato, gestito e dominato dalle reti televisive, secondo princípi di audience e regole di marketing pubblicitario. 

Il mondiale in Qatar è l’ultimo figlio degenere di tutto questo. Spegnere il televisore, fregarsene di chi vinca sarà il minimo, dato che già sappiamo chi ha perso. Sarà un atto simbolico, certo, ma egualmente sarà un nobile gesto. Saremo pochi milioni di obiettori? Vedremo, intanto ci saremo. E allora non esitiamo, boicottiamo Qatar 2022. Facciamo vincere la memoria dei morti, degli sfruttati e degli assenti. Facciamo perdere la Fifa.

Facebooktwitterlinkedin