Periscopio (globale)

Il poeta Proust

Per il centenario della morte di Proust si sono susseguiti omaggi e analisi della sua “Recherche”. E allora vale la pena cogliere l'occasione per scoprire un suo volto più nascosto. Ma non meno significativo

Forse non tutti sanno che… Così potrebbe degnamente principiare un pezzo sull’attività minore di Proust; non fosse che ormai, se non proprio tutti, quasi tutti i lettori sono perfettamente al corrente del fatto che il buon Marcel cominciò da giovanissimo (come qualunque altro scrittore, o quasi) scrivendo versi, e che a questo vizio continuò ad indulgere anche da grandicello, relegando però l’uso del verso a particolari occasioni e a circostanze per così dire private.

La ricostruzione migliore e più completa del vasto e variegato impegno poetico di Proust la troviamo probabilmente nel decimo dei Cahiers Marcel Proust, intitolato appunto Poèmes e pubblicato da Gallimard nel 1982, anche se poi si sono aggiunti ancora dei versi giovanili, scoperte più tardive, fra cui il famoso sonetto “Pédérastie” scritto per il compagno di classe Daniel Halévy, in cui l’omosessualità è esplicitata in un modo irripetibile (e che Proust non ripeterà in seguito, cercando anzi di cancellarne le tracce). Tutto il lascito poetico proustiano è stato in seguito tradotto e pubblicato in tutte le lingue principali, e da noi si può utilmente far riferimento alla scelta presente nel volumetto Poesie, edito da Feltrinelli nel 1993 e poi più volte ristampato, a cura di Luciana Frezza e con un’introduzione di Luigi de Nardis. Né va dimenticata la versione in prosa di Franco Fortini per Einaudi del 1983, all’epoca polemicamente accolta da vari colleghi scrittori, fra cui Alberto Arbasino. Chissà se oggi, nel centenario della morte, avvenuta il 18 novembre 1922, i fari della critica si riaccenderanno anche su queste briciole che poco aggiungono alla grandezza della Recherche, sia chiaro, ma che ci danno di Proust un’immagine diversa e più sbarazzina.

Da un lato abbiamo dunque dei versi giovanili, di modesto interesse se non come esercizio di scrittura e palestra artistica, ma dall’altro ci imbattiamo in una serie di poesie già più mature e promettenti, come per esempio il ciclo dedicato a pittori e musicisti, che non a caso verrà accolto nel volume Les plaisirs et les jours, del 1896, primo libro di un Proust ancora ben lontano, tuttavia, dalle prove narrative maggiori della Recherche.

Se le poesie giovanili sono poste sotto il patrocinio del modello-Baudelaire, dal quale peraltro Proust non si allontanerà mai troppo, nelle successive si accentua il gusto per l’abbozzo letterario e il pastiche. Una passione, questa di scrivere al modo di qualcun altro, che lo accompagnerà sempre: si veda per tutti il caso di cronaca e frode noto come “affaire Lemoine”, con il relativo processo nel 1908 e i pastiches scritti e pubblicati sui giornali da Proust nello stesso anno appunto nello stile di Flaubert, Balzac, Michelet, Renan, i Goncourt ecc. (ripresi in Pastiches, edito da Marsilio nel 1991 a cura di Giuseppe Merlino). Per un’edizione in volume, con il titolo Pastiches et mélanges, bisognerà attendere il 1919 (lo stesso anno della pubblicazione di À l’ombre des jeunes filles en fleurs e del contestato premio Goncourt), ma nel frattempo Proust continua a coltivare il genere anche in qualche componimento poetico, proponendo non di rado testi che avrebbero potuto essere scritti da qualche altro contemporaneo.

Ma, sebbene siano curiosi e stimolanti, non è dei Pastiches che voglio occuparmi oggi, bensì degli altri tentativi poetici messi in ombra e in definitiva così poco amati dai cultori di Proust, eppure non del tutto trascurabili alla luce delle grandi prove narrative successive. Tornando quindi alle poesie, e alla loro componente prima di tutto comunicativa, più che artistica – molte di queste prove poetiche erano indirizzate a destinatari concreti, a cui non di rado l’autore chiedeva di distruggerle una volta lette –, va detto che Proust si avvale dello strumento lirico per commentare fatterelli d’attualità, senza lasciarsi scappare, e anzi alimentandoli, pettegolezzi e più o meno criptiche allusioni alla sua cerchia di amici, con un atteggiamento apparentemente aperto e spontaneo che non deve però ingannare sull’effettivo (e assai scarso) desiderio di svelarsi o rivelare davvero qualcosa di sé. Autobiografia sì, dunque, ma in maschera. Diventano semmai, i versi, occasioni per cimentarsi nell’arte del ritratto (e spesso della caricatura) e per cogliere con divertimento l’effimero e l’inconsistente in tutto ciò che ci circonda. Non dimentichiamo, a proposito d’effimero, che queste poesie Proust le componeva più o meno di getto, da bravo dandy dilettantesco, un po’ dappertutto, nelle lettere, sul retro delle fotografie, fra i suoi disordinati appunti, o a mo’ di dediche (il più delle volte ironiche) sui libri, e così via. In quest’atmosfera spesso scherzosa non manca tuttavia qualche ambizione artistica, che trapela per esempio da certi titoli (come quello della sezione “Les intermittences du coeur” che poi riutilizzerà in Sodome et Gomorrhe) o da riferimenti a un gusto poetico elevato, per quanto leggermente datato e già in via di trasformazione. Così come non manca qua e là qualche bella riuscita, va riconosciuto, come le due raffinate elegie di Dordrecht mandate nel 1902, durante un viaggio in Belgio e Olanda, all’amico ed ex amante Reynaldo Hahn, che Proust frequentava con assiduità già dal 1894 e con cui aveva avuto una liaison durata un paio d’anni. Nell’insieme, tuttavia, è una poesia da Salon, ironica, frivola e d’occasione, costellata da immagini tratte di peso da una Belle Époque aristocratica, all’apparenza senza alcuna premonizione del baratro che si stava preparando e in cui la civiltà europea scivolerà pochi anni dopo.

In queste prove proustiane la punteggiatura è a volte assente, spesso idiosincratica; il gioco si realizza attraverso allusioni, prese in giro, anagrammi, acrostici (si veda per tutti “Acrostiche”, dedicato al principe rumeno e diplomatico Antoine Bibesco) nonché metafore, a volte pretenziose; il tratto distintivo è però la leggerezza e il rilassamento, una certa insouciance mondana. “Ginnastica da camera”, scrive giustamente Luciana Frezza, “saltelli per sgranchirsi e tonificare i muscoli e accrescere così l’agilità sociale.” Di sicuro, anche, un primo esercizio d’interpretazione del mondo e di trasformazione di questo sforzo ermeneutico in prodotto artistico, sebbene ancora balbettante.

Un posto a parte lo occupano, come dicevamo, i ritratti di pittori e musicisti, componimenti più seri e ponderati, sicuramente nell’insieme più efficaci sotto il profilo lirico, che alla loro uscita furono idealmente accompagnati, oltre che dalla prefazione di Anatole France e dalle illustrazioni di Madeleine Lemaire, anche da tre pezzi per pianoforte di Reynaldo Hahn, sulle cui eleganti note i versi venivano recitati, anzi secondo la testimonianza di Colette semplicemente “detti”, in società dallo stesso Proust. (Il lettore può ritrovare tutti questi extra, spartiti compresi, nella recentissima edizione mondadoriana a cura di Mariolina Bertini e Giuseppe Girimonti Greco.) Ispirati ai Phares baudelairiani, a Verlaine e probabilmente anche ai versi coevi di Robert de Montesquiou (il barone di Charlus della Recherche), questi poemetti, di livello diseguale, rappresentano un omaggio sincero ad artisti e musicisti amati dal giovane Proust (e un po’ meno dal Proust maturo, se si pensa che vi compare Chopin, ma mancano Beethoven e Wagner). Anche qui, peraltro, i versi non difettano di qualche aspetto ludico, come quando nella poesia su Schumann Proust ne incorpora momenti biografici e titoli o temi di alcuni Lieder (un esempio nei termini sottolineati qui di seguito): “La brise heureuse imprègne, où passent les colombes, / De l’odeur du jasmin l’ombre du grand noyer, / L’enfant lit l’avenir aux flammes du foyer, / Le nuage ou le vent parle à ton coeur des tombes.” [La brezza felice in cui passano colombe / impregna di gelsomino l’ombra del grande noce, / il bimbo legge il futuro alle fiamme del camino, / la nuvola o il vento parla al tuo cuore di tombe.” – trad. di Luciana Frezza]

Si diceva delle influenze patite da Proust in campo poetico: si va da quella dell’onnipresente Baudelaire, a cui Proust dedica anche due riflessioni critiche in Contre Sainte-Beuve  – compreso nel monumentale volume dei Saggi, curato da Mariolina Bertini e Marco Piazza ed edito nel 2015 dal Saggiatore, utilissimo per capire questo complesso di riferimenti –, a suggestioni forse meno evidenti quali sono quelle derivanti dalla poesia di Mallarmé, più volte citato tanto nell’opera quanto nella corrispondenza. Ma si potrebbero ricordare ancora i romantici, da Nerval a Vigny a Musset, e nelle opere più tarde, benché i gusti poetici di Proust non siano mai stati all’avanguardia, anche i simbolisti: Proust è onnivoro, oscilla fra le diverse scuole poetiche servendosi di immagini e impressioni la cui origine tende a mescolarsi in una sincretica unità, comunque più modellata, per capirci, sull’Ottocento che sul Novecento, e con un’avversione evidente per il verso libero. E se è vero comunque che molte di queste suggestioni e immagini riaffiorano qua e là anche nella Recherche e che può essere divertente andarle a stanare, è altrettanto vero che l’attività poetica svela qualche piccante dettaglio sull’autore più che sull’opera, aggiunge più informazioni e curiosità alla vicenda biografica – come narrata per esempio nel frizzante libro di memorie Monsieur Proust della governante (e confidente) Céleste Albaret – che non all’opus magnum, a quello stile basato sulla digressione a cui accennava già negli anni Venti Benjamin Fondane. Parliamo insomma di una poesia sospesa fra malinconia e burle stuzzicanti, fra vibrazioni atmosferiche e divertissement – ma il Proust della Recherche è ovviamente altra cosa.

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