Gianni Cerasuolo
Fa male lo sport

Gli schiavi del Qatar

I mondiali di calcio che si apriranno in Qatar il prossimo 20 novembre sono macchiati di sangue e violenza. Il paese arabo calpesta i diritti: secondo “The Guardian” 6500 persone sono morte nella costruzione delle strutture del torneo. Insomma, noi non lo guarderemo!

Voi fate come volete, ma io non vedrò i Mondiali di calcio in Qatar. E non perché l’Italia non ci sarà. Non è un boicottaggio, è qualcosa che riguarda la mia coscienza, una provocazione morale.

Viviamo in un mondo in cui virus e guerre hanno sgretolato le ultime certezze. Adesso ci chiediamo, terrorizzati, se la Russia spingerà fino all’estremo le sue minacce nucleari. L’opinione pubblica del mondo ha in mano strumenti più efficaci delle piazze del Novecento e tuttavia non riesce ad imporre la sua voglia di pace. Ogni iniziativa corale, di massa si diceva un tempo, sembra terribilmente sterile, inefficace, strumentale. Tocca muoversi individualmente. Questa mi sembra una buona occasione.

In pochi hanno alzato la voce durante tutti questi anni per i Mondiali d’inverno (dal 20 novembre al 18 dicembre) in Qatar, il piccolo emirato degli Al-Thani nel Golfo Persico. Il Qatar è uno stato che calpesta i diritti umani, dove la tradizione soffoca il cambiamento e i sospetti di finanziamenti ai gruppi terroristici islamisti non si sono dissolti. Ma la piccola penisola ospita anche la più grande base militare Usa in Medio Oriente e lo U.S. Combat Air Operations Center; l’emiro Tamim bin Hamad Al-Thani è stato il primo governante del Golfo a far visita a Joe Biden un anno dopo l’elezione di quest’ultimo alla presidenza degli Stati Uniti.  Secondo l’ultimo rapporto di Freedom in the World del 2021,il Qatar èun Paese “non libero”.

Con l’avvicinarsi della manifestazione, l’attenzione internazionale però si è risvegliata. E sulle piazze virtuali si è espresso qua e là il dissenso per la violazione dei diritti umani e per i tanti morti sul lavoro nella fase preparatoria di questo campionato del mondo. Ad esempio, Eric Cantona l’ex calciatore francese, icona del Manchester United, ha più volte definito l’avvenimento qatariota «un orrore umano con migliaia di morti». Rincarando la dose recentemente sulla pagina Facebook Boycott Qatar 2022, Eric ha detto: «Non guarderò il Mondiale. Che la Francia vinca o perda non deve importare, ci sono cose più importanti del calcio. L’unico senso di questo evento, come tutti sappiamo, è il denaro. So bene che agli organizzatori non importa nulla che io non guardi e che con il mio piccolo gesto non cambierò il mondo. Ma personalmente non voglio far parte di questa grande farsa. Che cosa farò? Mi guarderò tutti gli episodi del tenente Colombo, visto che è da tempo che non li vedo».

Si sa che molte città della Francia non metteranno maxischermi per diffondere l’avvenimento; che i calciatori della Danimarca non porteranno a Doha le famiglie; che qualche sponsor si è defilato; che attivisti, organizzazioni umanitarie come Amnesty International, Human Rights Watch (che hanno chiesto per le vittime un risarcimento di 420 milioni di euro alla federazione mondiale del calcio, la Fifa) e giornalisti, seri e coraggiosi, hanno denunciato tutto quello che c’era dietro il Mondiale; che una quarantina di società italiane di sport popolare, da Milano, Brescia, Bergamo fino a Roma, Napoli, Cosenza, Lecce hanno lanciato appelli al boicottaggio attraverso l’hashtag #boycottqatar2022. E che i capitani di tante squadre europee indosseranno la fascia della campagna “OneLove” contro ogni forma di discriminazione.

Non molto tempo fa il Liverpool di Jurgen Klopp («Non avete fatto abbastanza per impedire di giocare in Qatar ed ora volete che i giocatori sottoscrivano appelli» ha rimproverato i giornalisti il tecnico tedesco in una delle ultime conferenze stampa), vincitore del Mondiale per club proprio a Doha, si rifiutò di scendere al Marsa Malaz Kempiski, un hotel dalle mille e una notte costruito su un’isola artificiale, perché la sua costruzione era avvenuta spremendo i lavoratori. I tifosi del Bayern Monaco hanno contestato vivacemente il club di Rummenigge per un accordo commerciale con gli arabi. In occasione delle qualificazioni le nazionali di Germania, Olanda, Belgio, Norvegia e Danimarca hanno indossato delle magliette durante il riscaldamento in cui si rivendicavano “diritti umani dentro e fuori dal campo”. Louis Van Gaal, allenatore dell’Olanda, definì ridicola la designazione del Qatar, aggiungendo: «La Fifa dice che vuole sviluppare il calcio in quel Paese. Sono solo cazzate, lo fa solo per i soldi e per i suoi interessi commerciali. Questa è l’unica cosa che conta per la Fifa». Il ministro degli Interni tedesco, la signora Nancy Faeser, ha criticato ad ottobre la scelta del Qatar, provocando una crisi diplomatica con l’emirato. I calciatori della nazionale australiana hanno girato un video che è su tutti i social del mondo. In esso reclamano «rispetto, dignità, fiducia e coraggio» per ogni uomo senza distinzioni sessuali: «I lavoratori migranti che hanno sofferto, non sono solo numeri, come i migranti che hanno plasmato il nostro Paese e il nostro calcio».

A questi giudizi e prese di posizione il presidente della Fifa, Gianni Infantino, ha risposto in questi giorni con una lettera, firmata con la segretaria dell’organizzazione, Fatma Samoura, invitando tutti a concentrarsi solo sul pallone «senza impartire lezioni morali al resto del mondo… Il Qatar ha attuato veri cambiamenti per migliorare le condizioni dei lavoratori migranti e la Coppa del mondo è un’opportunità per il Qatar e tutto il Golfo Persico di mostrarsi in modo diverso e liberarsi dei pregiudizi che purtroppo esistono ancora oggi. Questi cambiamenti sono avvenuti negli ultimi anni, mentre in altri Paesi, anche europei, ci sono voluti decenni». Infantino a maggio scorso ebbe la sfacciataggine di ribattere a chi gli chiedeva conto del numero dei morti e se la Fifa avesse intenzione di risarcire le famiglie delle vittime: «Quando dai lavoro a qualcuno, anche in condizioni difficili, gli dai dignità e orgoglio. Non è carità, non è beneficenza… Per noi è una questione di orgoglio aver costruito gli stadi e aver potuto cambiare le condizioni di questi 1,5 milioni di persone…». Aggiungendo poi: «I morti sono solo 3 e non 6000…I 6000 di cui si parla potrebbero essere morti nella costruzione di altre opere. La Fifa non è la polizia del mondo o responsabile di tutto ciò che accade nel mondo».

Diciamocelo, però: lo schierarsi contro questo Mondiale è un fatto positivo, incoraggiante, ma proteste e contestazioni fanno l’effetto di un solletico ad un elefante. Un evento planetario di questo tipo non si ferma e gli appelli, i dossier non lo oscurano e non scuotono il mondo.

Volgendo lo sguardo all’indietro, si calcola che oltre 3 miliardi e mezzo di persone seguirono tra tv e altri congegni multimediali i Mondiali di Russia, quelli di quattro anni fa, 2018. Per le 64 partite si registrò una media di 191 milioni di spettatori, il 2,1 per cento in più rispetto all’edizione brasiliana del 2014. Ad incrementare l’audience Africa e Medio Oriente (66 per cento in più, cioè 200 milioni in più in queste parti del mondo). Forse anche quattro anni fa bisognava stimolare le coscienze: non è che il tiranno del Cremlino se ne stesse anche allora con le mani in mano. Neppure per Argentina ’78 si mosse foglia (o quasi). Né si sentirono volare mosche per le Olimpiadi di Pechino. Inutile dire che per Qatar 22 si attendono numeri ben più alti. La Rai, che ha l’esclusiva dell’avvenimento in Italia (per pagarla ha sborsato ben 160 milioni), non teme cali di audience, almeno nei primi turni, per l’assenza della nazionale di Mancini.

Tenete bene in mente questo numero: 6500.

Il quotidiano inglese The Guardian ha calcolato che tra il 2010, anno in cui la Fifa decise di far rotolare il pallone nel deserto, e il 2021 siano stati 6500 i lavoratori morti nei lavori per stadi, alberghi, autostrade. Una strage. Paghe di fame, ore e ore di fatica sotto un caldo soffocante, miseri alloggi, ricatti: osservatori neutrali e Nazioni Unite hanno parlato di «moderna schiavitù». Soltanto da poco c’è stato qualche miglioramento – come il salario garantito – frutto delle pressioni internazionali e della stessa Fifa che vuole ripulirsi l’anima per una scelta frutto anche, si è poi saputo con il Fifa Gate, di corruzione.

Il Qatar è dovuto partire da zero. Per innalzare edifici e montare stadi si è, come dire, moltiplicato da quando Blatter e Platini diedero a Doha la rassegna iridata: avvenne a Zurigo il 2 dicembre del 2010. Da quella data la parola d’ordine è stata: costruire, costruire e ancora costruire. Una spesa intorno ai 150 milioni di dollari.

Leggo in un libro ricco di fatti e di intrecci uscito nei mesi scorsi (Calcio di Stato. Il Mondiale in Qatar e non solo: come lo sportwashing sta cambiando la geopolitica del pallone di Giorgio Coluccia e Federico Giustini, Lit Edizioni): «Tutto questo ha comportato una fortissima richiesta di forza lavoro sul mercato, un flusso migratorio che ha fatto lievitare la popolazione addirittura del 50 per cento in pochi anni… dai 1.699.435 di aprile 2010 ai 2.611.522 di ottobre 2016, fino a superare il tetto dei 3 milioni di abitanti già agli inizi del 2021…».

Da dove veniva tutta questa gente? «…In prevalenza dall’Asia meridionale (Nepal, India, Bangladesh e Filippine) ma anche dall’Africa, soprattutto da Ghana e Kenya…». Uomini disperati che pagavano, a volte, per entrare nei cantieri. Trattati come bestie. Uccisi dal caldo, dagli stenti, da ore e ore massacranti di lavoro.

Negli stati del Golfo Persico i rapporti di lavoro sono (forse è più corretto dire: erano) regolati dal sistema della kefala, il patrocinio, la “sponsorizzazione” del padrone «che assoggettava totalmente i lavoratori migranti rispetto al datore, impedendogli di lasciare il Paese o di cambiare lavoro senza il necessario permesso… Non era il governo ad assegnargli uno status giuridico, bensì il datore stesso, responsabile di tutte le condizioni formali, dal permesso di soggiorno alla cessazione del rapporto, dal cambio di sponsor a qualsiasi altra autorizzazione». Questo strumento da medioevo era in vigore fino a poco tempo fa nei Paesi del Golfo. «Solo dagli anni Duemila è stato abolito dal Bahrain o ammorbidito in senso liberale dal Kuwait e dagli Emirati Arabi». E soltanto due anni fa è intervenuta qualche modifica in Qatar: «La situazione del 2021 non è paragonabile a quella che abbiamo trovato nel 2013 ma ancora non basta…», hanno detto da Amnesty. Per un decennio i lavoratori venuti da fuori sono stati prigionieri dei loro padroni. «L’alternativa era essere considerati fuggitivi, commettendo a tutti gli effetti un reato penale. Poi dall’autunno del 2020 – scrivono Coluccia e Giustini, due giornalisti –  il Ministry of Administrative Development, Labour and Social Affairs ha rimodellato il quadro giuridico ed è stata cancellata la clausola del No Objection Cerificate, indispensabile per ottenere il consenso dei datori per cambiare occupazione prima della fine del contratto».

L’organizzazione non governativa francese Sherpa denunciò qualche anno fa la corporation delle costruzioni transalpina Vinci facendo parlare pochi operai nepalesi e indiani. Nel rapporto si leggeva di «lavoro forzato, di riduzione in schiavitù incompatibile con la dignità umana…». Ai migranti veniva sequestrato il passaporto, i turni di lavoro andavano dalle 66 alle 77 ore settimanali, il salario tra i 50 centesimi e i 2 euro all’ora, l’assistenza sanitaria era quasi inesistente. Né si ha notizia di quello che è successo durante la pandemia causata dal Covid.

Nei mesi più caldi le temperature in Qatar raggiungono anche i 50 gradi: questo calore ha ucciso moltissimi lavoratori. Quando una trentina di nepalesi cercarono rifugio nella loro ambasciata, l’ambasciatrice del Nepal nel Paese del Golfo disse che l’emirato era «come una prigione a cielo aperto, dove gli stadi e tante opere di contorno sono state completate in tempi record, ma a fronte di un prezzo salatissimo… si è parlato di impianti refrigerati e della necessità di disputare il Mondiale tra novembre e dicembre in modo da evitare i mesi più caldi ai calciatori, ma nessuno ha mosso un dito per le condizioni dei nostri lavoratori, costretti anche per dieci ore di fila a lavorare nel bel mezzo del deserto».

Non esistono molte carte ufficiali anche perché il Qatar nel 2012 approvò un provvedimento in cui in pochi casi si può ricorre all’autopsia. Ma la stessa ambasciata del Nepal fece trapelare un documento del 2013 in cui decine di morti vengono fatte risalire a queste cause: arresto cardiaco improvviso, cranio fratturato, dissanguamento, insufficienza respiratoria, violento colpo alla testa, fratture multiple, cadute dai pontili. Nel primo capitolo di Calcio di Stato è riportato l’agghiacciante giudizio di Aidan McQuade, ex direttore dell’organizzazione non governativa britannica Anti-Slavery International: «Determinate condizioni di lavoro e il numero sorprendente di morti sul lavoro vanno oltre l’idea del lavoro forzato, si torna alla schiavitù di un tempo… Duecento anni fa le persone usavano la frusta per tenere gli schiavi al loro posto, oggi usano la confisca dei documenti di identità per impedire la fuga o trattengono gli stipendi come ricatto per scongiurare qualsiasi tipo di reazione da parte dei lavoratori». E questo succede anche in Africa ed Europa. . In Italia i migranti li teniamo a bagnomaria sulle navi.

Il bello è che tutto questo flusso di gente verso l’emirato qatariota ha generato un altro enorme business: le rimesse dei migranti. «La World Bank ha certificato per il 2019 rimesse pari a 554 miliardi di dollari, con l’India principale destinatario a quota 82 miliardi… Per l’inizio del Mondiale… ha previsto che venga sfondato il tetto dei 600 miliardi di dollari di rimesse, nonostante il calo dei salari e dell’occupazione dei lavoratori migranti dovuti alla pandemia».

Gli scandali che hanno coinvolto il governo del calcio, collegati alle decisioni sulla scelta delle sedi dei campionati, sono sembrati a volte anche una sorta di vendetta di quei Paesi – principalmente Inghilterra e Stati Uniti – che erano usciti sconfitti dalle assemblee della Fifa del 2010, quelle che assegnarono i Mondiali a Russia e Qatar. Prima della decisione a favore degli arabi Obama ebbe una lunga e improduttiva conversazione telefonica con Sepp Blatter. Clinton e Morgan Freeman furono inviati come ambasciatori a Zurigo per promuovere la causa. Subìto lo smacco, l’Fbi si mosse per contribuire a destituire il vecchio Sepp e quattro importanti finanziatori statunitensi del calcio, Coca-Cola, McDonald’s, Visa e Budweiser chiesero le dimissioni di Blatter (lo notava Nicola Sbetti nel numero di Limes di maggio 2016, dedicato al Potere del calcio).

In tutti questi anni, l’emirato degli Al-Thani ha scelto di non rispondere, o di reagire debolmente, alle accuse di sfruttamento della manodopera. Il Qatar ha preferito far decantare la questione, è andato avanti come un treno superando la pesante crisi con Arabia Saudita, Emirati ed altri Paesi arabi e l’isolamento di tre anni e mezzo a causa dell’embargo per l’accusa dei Paesi confinanti di sostenere il terrorismo e di appoggiare l’Iran. Al Jazeera, il network più diffuso nel mondo arabo, che ha sede a Doha, ha taciuto. Qualche settimana fa l’emiro Tamim bin Hamad Al Thani ha respinto con disprezzo le critiche: «Ci stanno diffamando». I media parlano di demonizzazione del Paese. E in questi giorni di vigilia spuntano anche nuove rivelazioni: secondo una tv svizzera, il Qatar avrebbe organizzato un’operazione di spionaggio sulla Fifa per impedire che la Coppa del mondo si giocasse da qualche altra parte. Invece, secondo un quotidiano inglese, Michel Platini, ex presidente della Federazione europea e candidato alla presidenza Fifa, sarebbe rimasto vittima di hacker assoldati dall’emirato per consolidare la scelta della sede araba.

Gas e petrolio consentono sempre i migliori affari. Il resto lo ha fatto lo sportwashing, che significa più o meno sfruttare lo sport per rifarsi una reputazione. E sono ormai decenni che molti Paesi, dall’Azerbaigian all’Arabia Saudita, luoghi dove è calpestata la dignità umana, dove donne, omosessuali e dissidenti vengono oppressi ed eliminati, ospitano manifestazioni sportive in modo di accattivarsi il pubblico del mondo. Basta poi guardare le maglie dei calciatori, spulciare nelle proprietà di grandi club, accorgersi di chi sponsorizza auto e moto per capire come monarchie e compagnie petrolifere arabe finanzino lo sport mondiale. Una ragnatela, un groviglio di rapporti diplomatici, culturali, di affari intessuti con arte e pazienza.

Il Qatar già dagli inizi degli anni Novanta ospitava un torneo di tennis, il Qatar ExxonMobil Open. Undici anni fa si prese il Paris Saint-Germain per 50 milioni di euro con la benedizione di Nicolas Sarkozy, gran tifoso del club di Mbappé e Messi. Dal 2004 a Lusail corrono le moto; lo scorso anno anche i bolidi di Formula 1. Lewis Hamilton si presentò sulla pista con un casco arcobaleno a sostegno della comunità LGBT affermando: «Penso che siamo tutti consapevoli che ci sono problemi in alcuni Paesi in cui andiamo e soprattutto in questa parte del mondo. Per questo ho cercato di alzare la voce». Nella piccola penisola i Mondiali di atletica leggera hanno fatto da prova generale, nel 2019, ai Mondiali del calcio (con atleti furibondi per le condizioni climatiche che causarono svenimenti e proteste). Gli sport motoristici – ma pure il ciclismo – frequentano anche i circuiti del Bahrein e degli Emirati Arabi. Mohammed Ben Sulayem, sceicco degli Emirati, è il presidente della federazione internazionale dell’automobilismo (Fia). L’Arabia Saudita si è data da fare con il principe ereditario Mohammed Bin Salman, considerato da Usa e Onu l’ispiratore dell’assassinio di Jamal Khashoggi, squartato nell’ambasciata saudita di Istanbul. L’Aramco, colosso petrolchimico saudita, sponsorizza la Formula 1 e molti circuiti, in Arabia si è corsa la Dakar. E tra due mesi, a gennaio 2023, Inter e Milan giocheranno il derby della Supercoppa italiana a Riyad con un bel pacco di soldi di riconoscenza.

In pochi rifiutano di andare a Riyad: Andy Murray lo ha fatto rinunciando ad un milione e mezzo di sterline per esibirsi laggiù. Zinedine Zidane invece ha preso, secondo le lingue biforcute, 11 milioni di euro per promuovere il Qatar. E 180 milioni David Beckham, il bambolotto prestato al calcio, per un contratto di dieci anni.

Dunque, perché turbarsi per questo Mondiale?

Si annunciano meraviglie tecnologiche negli otto stadi di Qatar 2022: aria condizionata, maxischermi per rivelare subito episodi controversi, un numero incredibile di telecamere per seguire ogni fase della partita e supportare gli arbitri nelle decisioni da prendere a cominciare dal fuorigioco, una app fornirà il referto della prestazione inviandolo sullo smartphone di ogni calciatore.

Quella qatariota sarà l’ultima edizione con 32 nazionali. La Fifa pensa in grande, soprattutto agli affari con sponsor e network televisivi. I Mondiali del 2026 che si terranno tra Messico, Stati Uniti e Canada vedranno in lizza 48 squadre: questo significherebbe circa un miliardo di dollari in più di ricavi. Si vogliono portare più nazionali dall’Africa e dall’Asia: una cosa buona e giusta. In un mondo globale Europa e Sudamerica non possono essere i soli a passarsi la palla. Ma Gianni Infantino ha l’obbligo di accontentare chi lo ha aiutato nella scalata alla Fifa, dopo la caduta di Blatter e Platini. Il presidente vuole blandire sempre più sponsor e deve cercare di aumentare il fascino planetario del pallone e fermare l’emorragia delle nuove generazioni che sono attratte invece da altri sport e giochi.

Perché, allora, non fare il Mondiale ogni due anni? Questo progetto sta diventando la sua ossessione: «Si è parlato tanto della Superlega. Il calcio va nella direzione in cui pochi hanno tutto e la stragrande maggioranza non ha nulla… Al resto del mondo non possiamo dire “dateci i vostri soldi, dateci i vostri giocatori e guardateci in tv”. Dobbiamo trovare il modo per includere il resto del mondo, compresa l’Africa. Per dare speranza agli africani, cosicché non debbano aver bisogno di attraversare il Mediterraneo per trovare forse una vita migliore ma più probabilmente la morte in mare…».

Lei è un santo, dear president.


Le fotografie degli stadi qatarioti sono di Robbie Jay Barratt e Karim Jaafar per Getty Images

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