Danilo Maestosi
Alla Galleria comunale di Roma

I colori di Pasolini

Una bella e ricca mostra di opere pittoriche chiude a Roma le celebrazioni per il centenario della nascita. L'occasione giusta per conoscerlo fuori dal mito. Più per i bei tentativi giovanili che per le meno incisive tele della maturità

Pasolini pittore. È il titolo, sobrio e senza orpelli, della mostra appena inaugurata a Roma nella Galleria comunale d’arte moderna di via Crispi, dove resterà in scena fino al 16 aprile del prossimo anno. Tra le tante manifestazioni che hanno costellato in tutta Italia il cartellone delle celebrazioni del centenario della nascita, finalmente una ribalta laterale, che ci consente di avvicinarci alla sua personalità senza mediazioni e senza attriti. Fare pace con lui. E magari parlarci. Senza sentirci incalzati dall’obbligo di schierarci sempre al suo fianco, di giudicarlo e giudicarci, o di inginocchiarci davanti ai mille altarini di devozione e cattiva coscienza che ora anche i suoi più accaniti detrattori gli dedicano.

Perché, dei tanti versanti in cui Pasolini si è cimentato, e su cui ha incanalato la sua poliedrica creatività e la sua ansia di vita, la pittura è l’unico che non abbia eletto a mestiere, indirizzato a dimostrarci qualcosa. Perché quella dei suoi quadri e dei suoi disegni è rimasta una sfida personale e incompiuta da autodidatta, mai offerta in vita al giudizio del pubblico, un dono riservato agli amici e ai frequentatori della propria casa, come una confessione, una maschera inspiegabilmente dismessa dopo il suo trasferimento a Roma e poi ripresa a strappi, sostituita da quello di critico d’arte che invece ha continuato ad indossare. E da quella di raffinato cultore d’arte che riaffiora in tutte le sue prove cinematografiche.

Una pagina insomma significativa ma molto poco esplorata , come dimostrano i tanti inediti, ripescati negli archivi della Fondazione Casarsa e del gabinetto Viesseux di Firenze, che impreziosiscono e rendono imperdibile questa mostra, costruita con grande rigore di scavo documentale da tre appassionati curatori: Silvana Cirillo, docente della Sapienza, Claudio Crescentini e Federica Pirani, i due affiatati registi della Galleria comunale, che in pochi anni hanno rilanciato questo piccolo museo e i tesori della sua collezione come uno dei centri di divulgazione culturale più attivi e fuori schema della capitale.

Un Pasolini quasi sconosciuto che dialoga in presa diretta e quasi alla pari con noi sconosciuti visitatori, attraverso il linguaggio tattile e liberatorio della pittura, invitandoci ad abitare la casa e i messaggi che aveva riversato in questa vocazione segreta, ad ascoltare la sua voce, ad interrogarci senza timore e vincoli di sacralità sul valore che assegniamo al suo io pittore , agli echi che ci risveglia dentro e dunque rivendicano così di esistere nell’universo mutante e fuori fuoco del tempo di oggi.

Il copione, scandito in ordine cronologico e per temi in vari capitoli lungo i tre piani del museo, risulta a mio avvio più leggibile se si srotola il filo d’Arianna della partecipazione emotiva. È attorno alle immagini che più ci hanno colpito che potremo poi cucire il corredo degli approfondimenti, delle testimonianze, dei confronti che danno maggiore ancoraggio alla memoria.

Per questo ho scelto a farmi da faro un autoritratto ad olio esposto al piano su in alto, nella galleria che raccoglie altri tentativi, dipinti o solo disegnati, da Pasolini per cogliere le vibrazioni del suo volto e il mutare del suo stare nel tempo. È datato 1947. Lo ha realizzato a venticinque anni. Nella fase cruciale per la sua formazione di intellettuale, poeta ed artista, tra i suoi studi all’Università di Bologna e i suoi soggiorni estivi nella villa della madre a Casarsa. Un punto di partenza perché da poco ha scoperto e cominciato a rodare la passione per la pittura, bruciando le tappe in una costante ricerca tecnica ed espressiva di un proprio stile e modo di dirsi. Ma anche un punto d’arrivo, perché mai forse ha raggiunto col pennello la stessa intensità.

Guardate quel viso squadrato, una metà avvolto da un denso strato di nero, l’altra da un’ombra che quasi gli affossa un occhio e si prolunga in un’ombra che gli scava la guancia. Solcato da quattro pennellate bianche che gridano la voglia di dare battaglia. Non sembra la faccia di un ventenne, anticipa il Pasolini angosciato che verrà, quello immortalato qualche parete più in la in una splendida china anni ‘70 di Ennio Calabria. Insomma è un quadro che cresce con lui, lo stesso incantesimo del ritratto di Dorian Gray. Non a caso – scopriamo da una foto, scattata nell’ultima residenza dell’Eur – Pasolini lo conservava appeso dietro la sua scrivania, come sentisse il bisogno di interrogarlo ogni giorno.

Quella tela è in più anche un proclama d’intenti. Pasolini si è dipinto con un fiore che sventola dalla bocca, come una bandiera. Motivo che declinerà in altra forma, altri segni in un autoritratto successivo ma coevo, esposto lì a fianco. Sicuramente un richiamo alla forza rapace del corpo che strappa gioia e occasioni alla vita. Forse una citazione rubata al monologo di Pirandello che ci tende davanti il cappio della malattia e della morte. Un proclama di adesione sociale anche nel disegno di contadino accucciato, che ha voluto tratteggiare sullo sfondo.

E infine una testimonianza del suo cammino di anarchico autodidatta, istradato alla tecnica e all’uso dei colori, da amici pittori eletti a insegnanti e compagni di strada, negli ultimi anni del regime fascista e nell’immediato dopoguerra. Come il quasi compaesano, Federico De Rocco. Suo il ritratto di Pasolini, meno riuscito e più sommario, che i curatori hanno inserito a confronto. Come l’altro maestro friulano Giuseppe Zigaina, un pittore molto più talentuoso e attento ad aggiornarsi, che continuerà ad affiancarlo come consigliere sui set degli anni ’70. L’unico al quale perdonerà qualche sconfinamento nell’astrazione, che per Pasolini, inflessibile poeta della realtà anche nella critica d’arte, appare come un tradimento ideologico, una scorciatoia quasi indecente, uno scoglio sul quale farà naufragio la sua simpatia e la sua stima per Toti Scialoja, compagno di salotto e di confronti ideologici del suo primo decennio di soggiorno romano.

In Friuli Pasolini coltiva il suo nuovo amore per la pittura che con pochi soldi e molta dedizione segue la scia di artisti del presente e del passato che prende di volta in volta a modello, l’asciuttezza di volumi e l’umanismo profetico di Masaccio e del Carrà post-metafisico tra tutti. Ma anche ma poi i pittori paesaggisti della sua terra, poi il rigore più ascetico di Morandi, e ancora i coloristi tonali della scuola romana che impara a conoscere in riproduzioni e dopo incontrerà dal vivo. Transitando per la rivoluzione di visioni simultanee del cubismo e infine abbracciando la svolta di sintesi dell’espressionismo tedesco nel quale riconosce la strada che più gli è congeniale.

Fascinazioni che la mostra racconta con un piccolo campionario di quadri ad olio , seguendo un evoluzione tecnica a grandi balzi di opere compiute , di prove e di schizzi che lo stesso Pasolini registra con compiacimento in una pagina di diario: da una veduta di casolari densa di materia e colore rarefatto a un volto di ragazzo che emerge da un impasto denso e cupo di verde per poi chiudere la carrellata con tre opere conservate in casa della madre e altre quattro in prestito da Firenze, tutte caratterizzate da un flusso di segni più concitati e da un sovraccarico di grottesco. Esperimenti da pittore allo stesso tempo ingenuo e smaliziato cui potresti garantire a colpo d’occhio un sicuro futuro da professionista; Ma che invece non bastano ad appagarlo, a placare il suo bisogno di cercarsi e misurarsi con il mondo in forme nuove e spiazzanti, chiedere stupore al colore.

Chissà, forse, lo ha assalito una paura, è precipitato un trabocchetto d’insicurezza che attende al varco ogni artista ammalato di verità, la sensazione di aver toccato il confine estremo in cui la voglia di creare tocca l’impotenza. Forse lo ha dirottato la necessità di mantenersi, di concentrarsi su altri obiettivi personali e creativi da cui arrivavano risposte più incoraggianti e soddisfacenti. La distrazione di altre conoscenze, altri impegni. È un mistero che neppure questa rivisitazione così incisiva riesce a spiegare. Ma là all’inizio degli Anni Cinquanta, con il suo trasferimento a Roma, Pasolini sembra aver seppellito per sempre la sua tavolozza, il suo desiderio di seguire la strada maestra della pittura di tradizione. Quando trent’anni dopo tornerà ad esibirsi in questa veste canonizzata, l’esito sarà episodico e deludente, come in quella grande tela dove per gioco rappresenta la sua amica del cuore, Laura Betti, che gli volge le spalle seduta al tavolo insieme ad altri amici. Debole e squadrato l’impianto, sfocato l’uso sovrapposto a macchie del giallo, del verde, del blu e altre tonalità a pastello.

Il ritorno che lui stesso annuncia in un articolo del ’74 per Bolaffi Arte è soprattutto un ritorno al segno, «alla composizione con i suoi contorni». All’interesse per il fare e disfare la fisionomia dei volti che aveva cominciato a perseguire a vent’anni. Con risultati a riduzione sempre più efficaci, come testimonia il ricco campionario di ritratti e autoritratti a penna, carboncino, inchiostro degli anni quaranta, in gran parte mai visti, che la mostra raccoglie. Con l’uso di supporti diversi che sperimenta con evidente piacere, come il cellophane, sul quale vede l’olio svaporare fino a trasformare le figure in fantasmi. Con la ricerca di immediatezza che lo spinge ad abbandonare persino matita e pennello per intingere il dito nell’inchiostro e strusciarlo sulla carta. Corpi, capelli, arti, volti, che ti balzano allo sguardo con tratti spessi e approssimativi.

È in questo serbatoio di espressività che attinge quando riprende a disegnare. Con una serie di varianti ed esperimenti che rendono unico e imperdibile questo nuovo capitolo della sua produzione grafica, questo suo nuovo modo di trattare ricordi ed emozioni. Come il bisogno sempre più incalzante di sporcare le immagini, trascinando sul foglio macchie casuali di qualunque sostanza, alternate a sprazzi di tempera bianchi o di altre tinte. Ecco il ritratto del grande poeta veneto Adrea Zanzotto in due diverse versioni. La prima con il volto offuscato da una ragnatela di macchie e una corona di schizzi neri e marroni. La seconda con la testa, gli occhi, il mento abbracciati da poche linee e una serie di pennellate gessose che prolungano i capelli verso l’alto.

Ecco la fascinosa serie di ritratti di Maria Callas, buttati giù durante le pause sul set del film Medea, dove Pasolini insegue il suo irraggiungibile mistero di donna e di diva con una rarefatta griglia di linee che si prolungano e si dilatano oltre il naso aquilino in una enigmatica aura di pennellate bianche. Solo a Ninetto Davoli, per sottolinearne la semplicità schietta e gaglioffa che lo ha incantato, Pasolini riserva nei suoi schizzi l’immediatezza di una semplicità declinata in tutte le possibili varianti. Il ritratto più intrigante ne inquadra giù in basso solo la testa e il luccicare birichino degli occhi sgranati che fissano un tavolo sghembo ingombro di cibi e bevande,

Ecco ancora lui il Pasolini demiurgo immortalato in una foto, mentre steso in terra osserva vari fogli, -che si ritrovano esposti in parete-sui quali ha voluto recuperare con un pennellino intinto in una bottiglietta di inchiostro la memoria e il profilo del maestro che più lo ha iniziato alla decifrazione dell’opera d’arte, Roberto Longhi. Omaggio a quello sguardo laterale e quel coltissimo gusto affabulatorio, che Pasolini prenderà a modello nelle sue recensioni e al quale il curatore Claudio Crescentini ha riservato un gustoso siparietto a sé in mostra e in catalogo.

Scritti illuminanti degli Anni Quaranta pubblicati su quotidiani e riviste specializzate, tutti dedicati ad artisti friulani o ad amici, ravvivati da acutissime divagazioni personali sull’uso del colore, che a leggerli oggi appaiono stranamente ammorbiditi, del tutto estranei a quella vena polemica che caratterizzerà i suoi scritti corsari. Rivelano, come in una confessione che comunque ce lo rende più vicino, l’occhio grato dell’aspirante pittore che guarda e impara, ma soprattutto una tenerezza affettiva di giudizio e di sguardo che caratterizza il rapporto che Pasolini intrattiene con quelli per cui prova amicizia e con amicizia lo accolgono, pregi e difetti compresi, nel suo soggiorno romano.

A molti degli amici pittori con cui entra in contatto nella capitale affida il compito di arredare con le loro opere, quasi tutte donate o ottenute in scambio, le pareti della sua casa, nella quale il colpo d’ala più intrigante di questa mostra ci consente di gettare uno sguardo. Ecco il vaso di fiori di Carlo Levi. Ecco un ritratto a matita di un uomo a matita firmato da Renato Guttuso, arbitro e campione di un realismo da militante ortodosso che riesce a dar voce agli ultimi della terra. Ecco una stampa di Morandi, una sfilata di donnine del primo Campigli. Ecco un paesaggio ad acquarello di De Chirico. E un olio bizzarro e seducente del fratello Alberto Savinio. Unica nota stridente in questa collezione del cuore è un’intera cartella di serigrafie dai colori squillanti firmate da Andy Warhol, pioniere di quella pop art che tanto disprezza, ma al quale riserva un’intera parete. Vengono, in dono, da una mostra del ‘74 a Milano che ha visitato e recensito. Forse li accoglie nella propria abitazione per lo scandalo del tema che ostentano: sono sei foto di drag queen, ristampate e trattate con sottolineature cromatiche di manierata e fredda decorazione che Warhol ha imposto come un’impronta d’autore. Ma certo non rispecchiano la sua visione dell’omosessualità e della trasgressione. Nel suo articolo Pasolini li racconta con tono acido come dei falsi. False le pose che ne allontanano l’umanità. Falsa, deviante la tecnica che le trasforma in maschere grottesche. Capricci di ribellione da salotto borghese come ne ha visti in quel teatrino da palati ipocriti e altolocati che gli è apparso il cuore di Manhattan.

A dare più corpo a questa intrusione nel privato che non può certo documentare l’intero campionario di immagini e autori la Roma del suo tempo gli ha fatto scoprire , i curatori della mostra ampliano il panorama, dando spazio, come è ormai lodevole abitudine di questo museo di via Crispi, ai capolavori della propria raccolta: De Pisis, Gentilini, Guzzi, Bartoli, Mafai, Scipione, la Raphael, Mazzacurati, Afro, Martini, Manzù. Una carrellata chiusa da un grande ritratto con cui Renato Guttuso rende omaggio ad Alberto Moravia, nume tutelare e sponda preziosa che accompagnerà Pasolini in tutte le tappe della sua lunga avventura a Roma, dipingendolo aggrottato e pensieroso su una poltrona che sembra un trono, un maglioncino rosso che buca l’inquadratura come lo sventolio di una tessera d’appartenenza.

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